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Costruire l’adolescenza all’interno di una comunità terapeutica

All'interno delle comunità, gli adolescenti dovrebbero riprendere il proprio percorso di crescita che si è interrotto nel contesto familiare - Psicologia

Di Giulia Pellegrinuzzi

Pubblicato il 30 Nov. 2015

Aggiornato il 10 Ott. 2019 12:51

Giulia Pellegrinuzzi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Le comunità terapeutiche per adolescenti dovrebbero offrire all’ adolescente nuove esperienze all’ interno delle quali riprendere il proprio percorso evolutivo momentaneamente minacciato, basandosi anche sul rafforzamento delle capacità di contenimento e di guida presenti, anche se in modo carente, nel contesto familiare e sociale.

[blockquote style=”1″]L’immagine che la madre ha della figlia è di una ragazza “posseduta dal demonio”. La ragazza sembra aver aderito a questa identità negativa mettendo continuamente in atto comportamenti provocatori e pericolosi per sé e per gli altri.[/blockquote]

Queste parole, estrapolate dalla relazione scritta dalla neuropsichiatra, continuavano a balenarmi in testa mentre mi dirigevo verso l’ospedale per conoscere quella ragazzina di 13 anni (che chiameremo Margherita) della quale sarei diventata l’operatrice di riferimento.
Appena entrai nel reparto di Neuropsichiatria Infantile mi trovai davanti una ragazzina piccolina, magra, dalle sopracciglia disegnate con due evidenti piercing uno tra le narici del naso e l’altro sotto al labbro. La riconobbi subito. Sotto i capelli le facevano da cornice al viso due grandi dilatatori posizionati sulle orecchie che la rendevano particolarmente buffa. Due occhietti vispi, verdi, bellissimi, comparivano sotto la frangia. [blockquote style=”1″]Era davvero quello il mostro che mi era stato descritto?[/blockquote] pensai.

Facemmo un colloquio in cui inizialmente parlai soltanto io, le descrissi l’organizzazione della comunità, gli orari, le regole, le attività. Erano cose di cui però non sembrava essere particolarmente interessata, era taciturna e il suo sguardo e la sua mente erano palesemente altrove. L’unica cosa che mi chiese prima di andare fu: [blockquote style=”1″]Ma in comunità ci sono ragazzi con piercing e tatuaggi?[/blockquote]

Cosa ricercava Margherita con quella domanda? Forse un gruppo a cui appartenere, dei punti di contatto e di somiglianza per potersi definire, per potersi riconoscere.
Personalmente avevo molti dubbi e perplessità rispetto al progetto educativo che avrei dovuto organizzarle, ma ciò che mi preoccupava maggiormente era come sarei potuta entrare nel suo mondo, creare uno spazio neutro in cui potesse sentirsi libera di parlare e di far traballare la sfiducia e la diffidenza nei confronti degli adulti che evidentemente la contraddistinguevano.

E’ risaputo che l’adolescenza rappresenti di per sé un momento transitorio, di passaggio.
Ci si trova in un periodo critico della propria crescita psicologica, quasi intrappolati in una costante ambivalenza: da un lato il desiderio di raggiungere un’agognata e temuta posizione “adulta”, dall’altro il timore di perdere i benefici della passata situazione infantile cui si è spinti, clinicamente, a ritornare tramite la regressione. Il compito dell’adolescente è particolarmente difficile: raggiungere e consolidare una propria individualità, un sentimento di sé come persona distinta dalle altre, senza perdere il legame infantile, la costanza oggettuale e l’investimento sulle prime figure di attaccamento. (Goisis, 2014).

La questione diviene ancora più problematica se l’adolescente deve affrontare un distacco da tutto ciò che ha costituito fino a quel momento un mondo di certezze ed una conoscenza di sé ed entrare in un percorso di cura all’interno di una comunità.
Essere all’interno di una struttura residenziale viene letto come una punizione per un adolescente per il quale di norma la nuova autonomia conquistata rispetto al contesto familiare costituisce forse lo strumento principale per la costruzione di un rinnovato senso di sé, come persona separata, pensante, libera.

La costruzione della propria identità attraverso il vaglio delle scelte identificative, la ricerca di valori etici e la possibilità di proiettarsi nel futuro, costituisce il principale compito evolutivo di ogni adolescente ed è proprio in un dosato equilibrio di libertà e di contenimento da parte dei genitori e del contesto sociale che tale compito si può svolgere.
Eppure, quasi paradossalmente, tra gli adolescenti che si incontrano in comunità, ce ne sono diversi che sembrano trovare aiuto nella ricerca della loro identità proprio dall’essere momentaneamente fermati e privati della libertà in senso stretto, in quanto in essa hanno incontrato difficoltà così grandi e pericoli così minacciosi per la loro integrità psichica, da doverne venire protetti (Ferruta et al., 2000). Per questi adolescenti, l’essere temporaneamente inseriti in una struttura comunitaria può diventare, qualora abbiano contemporaneamente la possibilità di essere aiutati a ripensare e a ridare significato a quanto è loro successo, un aiuto nella costruzione della propria identità.

Le comunità terapeutiche per minori hanno come finalità la costruzione di una “cornice”, di uno spazio protetto dove gli operatori (medici, psicologi, infermieri, educatori) sono impegnati in vari modi ad aiutare i ragazzi a riprendere un contatto con la realtà, ripristinando, per quanto possibile, i compiti evolutivi e svolgendo una funzione di collegamento e mediazione con il mondo esterno (Carratelli,1998).

L’equipe curante dovrebbe mantenere una certa flessibilità rispetto alla cura dei pazienti, ma nel contempo mantenere una certa coerenza, sia nel rispondere ai bisogni fisici ed emotivi del giovane paziente, sia nello svolgimento delle funzioni educative. (Ferrigno et al., 2005).
Le comunità terapeutiche per adolescenti dovrebbero offrire all’adolescente nuove esperienze all’interno delle quali riprendere il proprio percorso evolutivo momentaneamente minacciato, basandosi anche sul rafforzamento delle capacità di contenimento e di guida presenti, anche se in modo carente, nel contesto familiare e sociale. Lavorare con i ragazzi non prendendo in considerazione l’intero sistema da cui gli stessi provengono rappresenterebbe difatti una grave mancanza.

I ragazzi che fanno ingresso in comunità spesso hanno una lunga storia di segnalazioni ai Servizi Sociali fin dall’infanzia, sono quindi già conosciuti e, benché spesso siano anche stati seguiti, sono ugualmente in gravissima difficoltà in quanto privi o troppo poveri di quegli strumenti necessari per affrontare il compito adolescenziale di separarsi dalla nicchia familiare e di costruire la propria identità personale e sociale.
Anche la comunità e gli operatori si trovano nella necessità di interrogarsi nuovamente circa la propria identità, tale quesito é collegato alla estrema difficoltà del compito che sono chiamati a svolgere e che ha spesso le caratteristiche del compito impossibile.

L’adolescente che entra in comunità oggi sembra difatti approdare all’ultima spiaggia, in una totale solitudine affettiva, privo di strumenti con i quali poter affrontare il futuro e, soprattutto, incapace di pensare per sé un futuro possibile. Spesso riferisce di aver avvertito all’inizio dell’adolescenza un repentino e radicale cambiamento dell’atmosfera familiare, diventata all’improvviso nel suo vissuto del tutto irrespirabile, o perché troppo satura di elementi da lui avvertiti come tossici ed inquinanti, quali un controllo ritenuto eccessivo, o al contrario, perché troppo rarefatta, come se i genitori ormai rassegnati a perderlo, non lo seguissero più per niente (Ferruta et al. 2000).

Il vissuto claustrofobico in famiglia è caratteristico di una certa fase di molte adolescenze e può costituire una forte spinta, che si aggiunge alle altre, verso l’emancipazione. Lo stretto rapporto con i genitori amati e ammiranti durante l’infanzia si rivela infatti a un tratto troppo angusto, carico com’è di affetti e delusioni, e diventa necessario e fisiologico allentarlo. Ciò spesso determina una crisi, dolorosa ma necessaria, nei genitori stessi e nella famiglia intera, che si trova costretta a ripensarsi e a darsi nuovi equilibri.
Pare che questo delicato momento di crisi e di passaggio abbia avuto nel vissuto dei ragazzi che arrivano in comunità le caratteristiche del terremoto che scuote alle fondamenta e fa crollare rovinosamente la famiglia della loro infanzia, lasciandoli soli in mezzo alle macerie, esposti a una perdita irreparabile, anche perché sentita in parte come causata da loro stessi.

Spesso il ragazzo che arriva in comunità si trova invischiato in un senso di cupa impotenza. Spesso ha cercato rimedio alla propria sofferenza nell’immersione fusionale nel gruppo dei pari, all’interno del quale ha cercato risposte immediate alla sua inquietudine, nell’illusione forse di poter godere di un eterno presente spensierato, all’insegna dell’eccitazione e del piacere esagerato, dell’agire immediato e irriflessivo, visto che non riesce a pensarsi nel futuro. Stessa funzione eccitante e favorente il senso di appartenenza al gruppo viene svolta dalle droghe, di cui fa di solito largo uso, nel tentativo di curare il senso di vuoto, di noia, di sfiducia e spesso di disperazione rispetto all’assenza di qualsiasi tipo di progettualità nel presente e nel futuro. Questo adolescente dichiara di vivere esclusivamente nell’attimo presente, unica cosa di cui è sicuro, e di volere vivere “alla grande”, senza risparmio alcuno, seguace di una dottrina edonistica molto spinta, di un carpe diem esasperato. In realtà non è l’attimo che cerca di afferrare, ma una fuggevole sensazione che gli dia l’illusione di sentire e afferrare se stesso (Ferruta et al., 2000).
Sembra quindi si possa affermare che il ragazzo che oggi ritroviamo in comunità nasconde sempre più spesso una realtà di confusione e di grande sofferenza. Ha un’identità molto incerta, è disorientato circa se stesso e gli altri, circa ciò che è e ciò che vuole, ciò che può essere e diventare.

Margherita al momento dell’ingresso in comunità era molto spaventata, disillusa, le persone per lei più significative avevano di fatto abdicato al proprio ruolo affettivo e di cura e l’avevano consegnata a dei professionisti, che in realtà per lei non rappresentavano altro che meri estranei.
Le parole e i comportamenti che Margherita metteva in atto durante il momento dell’accoglienza in struttura la facevano apparire come un soggetto inavvicinabile, sofferente, non meritevole di cure, di attenzioni e di affetto. Indipendentemente dal nome della patologia scritta in cartella (Disturbo della Condotta in tal caso), mi trovavo davanti una giovane ragazza che sperimentava in se stessa un grande disagio che si ascriveva nel male di vivere, nella difficoltà di trovare una giusta collocazione in un mondo che non l’aveva compresa, non l’aveva gestita, e non era stato in grado di accompagnarla in un momento di estrema difficoltà.

L’adolescente spaventa perché è spaventato, allontana perché si sente allontanato, evita l’incontro con il medico, sbatte la porta in faccia all’educatore, lo caccia dalla propria stanza nella intima speranza che gli adulti riaprano quella porta, che entrino in comunicazione con lui, che non temano quanto di negativo sta mostrando. L’educatore raccoglie quanto di distruttivo il minore esprime senza mostrarsi ferito, impotente o semplicemente spiazzato. Nel sentirsi accolto anche nelle sue parti più negative e cattive, l’adolescente percepisce interesse nei propri confronti, sente quel luogo meno anonimo ed indifferente, inizia a porre le basi per poter realizzare un progetto, inizia a percepire una relazione di fiducia (Erba, Gavarini 2014).

Indipendentemente dalle modalità organizzative di ogni singola comunità terapeutica, l’obiettivo principale è quello di inserire l’adolescente in un ambiente più disciplinato e meno caotico di quello familiare (Carratelli, 1998). Attraverso la creazione di nuovi rapporti significativi e la realizzazione di interventi contenitivi, è anche possibile, infatti, sottrarre i genitori all’aggressività dei figli, interrompendo il circolo vizioso di rabbia che si ripercuote anche su quest’ultimi (Ferrigno et al., 2005).
L’esperienza terapeutica con un adolescente può essere rappresentata metaforicamente dal palo di sostegno che permette a una pianta di mettere radici, crescere, rinforzarsi e svilupparsi, ma senza forzarla, condizionarla o obbligarla, come spesso accade, attorno al tronco che la lega (Pietro Roberto Goisis, 2014). Cosicché Margherita possa trovare un modo per crescere.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Carratelli T., Ferrara M., Moniello M., Sabatello U., "Adolescenti e ricovero psichiatrico. Problemi clinici e programmazione dei servizi", Franco Angeli, 1998.
  • Ferrigno G., Marcenaro M., Penati S., et .al, " Le comunità residenziali per adolescenti: una visita particolare” , Pol-it, 2005.
  • Goisis, P.R. (2014). Costruire l’adolescenza. Tra immedesimazioni e bisogni. Mimesis Editore
  • Ferruta A., Goisis P.R,, R. Jaffè, N. Loiacono (2010). Il contributo della psicoanalisi nella cure delle patologie gravi in infanzia e adolescenza. Armando Editore
  • Erba F., Gavarini A. “ Comunità terapeutica, oltre la patologia… scopri l’adolescente.”, Il Vaso di Pandora, 2014
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