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Quale empatia? L’importanza di utilizzare l’empatia con flessibilità

L'empatia è collante in una relazione di cura, eppure va utilizzata in maniera flessibile, a seconda delle persone o delle situazioni in cui interagiamo. %%page%%

Di Elena Lo Sterzo

Pubblicato il 19 Ott. 2015

Could a greater miracle take place than for us to look through each other’s eyes for an instant?

(H.D.Thoreau)

L’utilizzo dell’empatia è una questione di etica professionale, dal momento che contribuisce al principio basilare del rispetto dell’autonomia del paziente. Eppure va utilizzata in maniera flessibile, a seconda delle persone o delle situazioni in cui interagiamo.

In un recente articolo su una rivista di dermatologia, la dott.ssa S. Olbricht spiega l’importanza dell’empatia nel contesto medico. La definisce come il processo di esperire, comprendere, prendere consapevolezza ed essere sensibili alle emozioni, ai pensieri e ai vissuti di altre persone sia nel momento presente, che in ricordi passati, senza provare o aver provato in prima persona quelle emozioni, pensieri e vissuti, e senza che essi siano stati comunicati in maniera esplicita. Un’altra definizione, o più semplicemente un altro modo di concepire l’empatia, è vedendola come la curiosità per la prospettiva emotiva di un’altra persona. Non è la partecipazione, che consiste invece nel condividere le emozioni di un’altra persona influenzandosi reciprocamente, e non è la compassione, che è l’emozione che ci induce ad aiutare qualcuno.

Piuttosto, l’empatia è una forma di conoscenza, pur riflessiva e personale: utilizzando il paragone con le relazioni di cura (delle quali la diade medico-paziente è un esempio) è come se il medico fosse per un attimo al posto del paziente. Un medico empatico conserva sempre il senso di sé, così da poter essere determinato ed obbiettivo nel valutare le informazioni che gli vengono fornite. L’empatia è apertura verso sé stessi (chiedendosi ad esempio: Perché ho questa strana sensazione riguardo al modo in cui il paziente mi sta guardando?), e apertura verso l’altro (chiedendosi invece Perché il suo piede si sta muovendo nervosamente?). Non solo una forma di conoscenza, ma un’abilità che può essere praticata e in cui si può diventare esperti, l’empatia è fatta di osservazione, ascolto, introspezione e riflessione, ripetute ciclicamente fino al momento in cui si riesce a giungere ad una conclusione. E’ un processo cognitivo che riconosce la presenza di un conflitto di interessi in maniera rispettosa e non giudicante. E’ una manifestazione del fatto che il curante è pienamente presente alla situazione e alla persona, ma senza provare in prima persona le emozioni di preoccupazione e pietà.

L’autrice di questo articolo passa in rassegna alcune buone motivazioni per cui i medici dovrebbero aggiungere l’empatia alla loro cassetta degli attrezzi. Innanzitutto, anche se la fisiologia dell’empatia non è compresa appieno, è certo che abbia un effetto fisiologico nella relazione medico-paziente: la concordanza della conduttanza cutanea tra paziente e medico è risultata positivamente correlata con la percezione del paziente dell’empatia del medico (Marci et al., 2007). Inoltre, alcuni studi hanno verificato che l’empatia del medico, misurata come l’abilità di comprendere i bisogni del paziente, incoraggia la collaborazione del paziente, favorisce il sollievo dal dolore e la guarigione stessa, in studi su pazienti con cancro in stadio avanzato (Lelorain et al., 2015) o che hanno subito un intervento chirurgico conseguente ad un trauma (Steinhausen et al., 2014). Inoltre, l’empatia può rendere più facile e veloce il processo del prendere una decisione condivisa riguardo ad un piano di trattamento.

L’utilizzo dell’empatia è una questione di etica professionale, dal momento che contribuisce al principio basilare del rispetto dell’autonomia del paziente. Promuove il lavoro di squadra e un approccio integrato nella cura del paziente. L’empatia può avere un suo spazio terapeutico specifico: dalle ricerche di psicologia cognitiva (Decety et al., 2015) emerge che l’empatia consente di gestire le emozioni in maniera positiva e funzionale a livello sociale, in modo da facilitare anche l’adattamento ai cambiamenti del contesto. L’empatia riduce il rischio di incorrere nei sintomi e nelle conseguenze del burnout, sindrome a cui sono particolarmente esposti tutti i professionisti nell’ambito della salute.

Un articolo di O. Klimecki apparso pochi giorni fa su Social Neuroscience conferma che le emozioni sociali sopra citate, l’empatia e la compassione, oltre a facilitare le interazioni interpersonali, possono anche essere allenate con training specifici, grazie alla plasticità neurale funzionale dei circuiti che ad esse sottendono. Tuttavia, da questo articolo emerge che un eccessiva condivisione empatica della sofferenza può incrementare le emozioni negative e l’attivazione dell’insula e della corteccia cingolata anteriore (circuito neurale della minaccia e della disconnessione sociale). Al contrario, il training per la compassione può rafforzare le emozioni positive e l’attivazione della corteccia mediale orbito-frontale e dello striato (circuito neurale della ricompensa e della connessione sociale). Tali evidenze di neuroimaging sono in linea con i risultati degli esperimenti comportamentali (Leiberg et al., 2011) che sottolineano come la compassione sia connessa a gesti di aiuto e perdono, mentre lo stress empatico non solo diminuisce i comportamenti di aiuto, ma è anche associata con l’incremento dei comportamenti aggressivi.

In linea con questo studio, c’è anche chi, provocatoriamente ma non troppo, sostiene che il mondo abbia bisogno di un po’ meno empatia. Oliver Burkeman (2014), in un articolo apparso sulla rivista Internazionale lo scorso anno, riferendosi alle parole dello psicologo Paul Bloom (2014), passa in rassegna i bias (gli errori sistematici) a cui essa è soggetta: ad esempio, ci è più facile provarla per le persone che hanno un bell’aspetto e per quelle della nostra stessa razza. Siamo anche soggetti alla trappola della vittima identificabile, che ci fa preoccupare di più per un unico bambino scomparso che non per le migliaia che potrebbero essere danneggiate da una certa politica del governo.

Un eccesso di empatia può provocare in chi la prova esaurimenti nervosi e depressioni, che non rendono certo più capaci di aiutare gli altri. Anche nel processo decisionale, evitare le personalizzazioni si rivela spesso la strategia più utile: l’economista T. Cowen (2014) sottolinea che per chiedere un’opinione è meglio non usare la formula Che cosa ne pensa?, ma Secondo lei, che cosa pensa la maggior parte delle persone?. Allo stesso modo, per prendere una decisione razionale ed equilibrata, può essere utile, paradossalmente, prendere le distanze anche da noi stessi, cercando di uscire dal fiume di pensieri ed emozioni in cui siamo immersi nel momento presente, non nascondendoli o rifiutandoli, ma vedendoli come eventi discreti, prodotti della nostra mente, non riflesso diretto della realtà, o reazione incondizionata ad essa. Ad esempio, infatti, nello strumento di indagine psicologica di matrice costruttivista, l’Autocaratterizzazione (Kelly, 1955), si chiede alla persona di scrivere un profilo di sé, ma in terza persona, così come potrebbe scriverlo un amico che la conosce molto bene, forse meglio di chiunque l’abbia mai conosciuta. Anche Bloom arriva alla conclusione che, più che di empatia, abbiamo bisogno di compassione: un sentimento più freddo e razionale, un modo più distaccato di amare, essere gentili e preoccuparci per gli altri.

Citando il comico J. Handey:

Prima di criticare qualcuno fatti una passeggiata di un chilometro nei suoi panni, così sarai a un chilometro di distanza e potrai tenerti i suoi panni. Ma se vuoi aiutarlo, forse ti conviene tenerti i tuoi vestiti. Invece di provare il suo dolore, non sarebbe meglio fare qualcosa?

Tuttavia, la soluzione potrebbe essere, piuttosto che rinunciare all’empatia, riuscire a decidere in maniera flessibile quando, come e quanto attivare il sentimento empatico, a seconda delle situazioni e della persona o del contesto sociale in cui interagiamo.

Ma per fare questo, essa deve essere un’abilità iperappresa, con cui abbiamo familiarità, che abbiamo fatto nostra e che quindi non ci spaventa. Per modulare in maniera sapiente la distanza di sicurezza dall’altro, dobbiamo non sentire la necessità di mettere una barriera tra noi e gli altri (se metto una barriera, non importa quanto sono vicino o lontano dagli altri, perché sono comunque separato da loro).

Di quest’idea è anche l’ideatore del Museo dell’Empatia, il filosofo Roman Krznaric, che ha ideato l’installazione interattiva A mile in my shoes: creata in collaborazione con gli abitanti di un quartiere a sud di Londra, il progetto si è svolto dal 4 al 27 Settembre 2015 sulle rive del Tamigi: i passanti entravano in un negozio dove un commesso sceglieva per loro un paio di scarpe della giusta misura, appartenute ad un’altra persona: potevano essere di un rifugiato, come di un anziano banchiere Etoniano. La persona era poi invitata a camminare lungo il fiume, ascoltando, in una cuffia, la storia del proprietario, per avvicinarsi al suo vissuto e alle sue emozioni. Questa mostra itinerante farà, secondo i progetti, il giro del mondo, fermandosi in più di 50 località, arricchendosi man mano delle storie di nuove persone: nell’immediato è previsto che venga portata in varie città dell’Inghilterra, e nel 2016 si trasferirà a Perth. Oltre a questa mostra itinerante, è stata creata un interessante Libreria dell’Empatia, una risorsa digitale che racchiude centinaia di suggerimenti e recensioni di libri e film che c’entrano, in diversi modi, con il mettersi nei panni dell’altro. La libreria è interattiva: chiunque può registrarsi e aggiungere le sue preferenze. Cosa aspettate ad esplorarla e ad allenare la vostra empatia?

Morality would frown upon
Decency look down upon
The scapegoat fate’s made of me
But I promise you, my judge and jurors
My intentions couldn’t have been purer
My case is easy to see
I’m not looking for a clearer conscience
Peace of mind after what I’ve been through
And before we talk of repentance
Try walking in my shoes
Try walking in my shoes
Now I’m not looking for absolution
Forgiveness for the things I do
But before you come to any conclusions
Try walking in my shoes
Try walking in my shoes

(Depeche Mode, Try walk in my shoes, Songs of faith and devotion, 1993)

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Elena Lo Sterzo
Elena Lo Sterzo

Specializzanda in Psicoterapia Cognitiva e Cognitivo-Comportamentale. Specialista in Neuroscienze

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