expand_lessAPRI WIDGET

Depressione: quando la causa è anche la cura!

Talvolta il farmaco risulta utile per la cura della depressione, ma in altri casi potrebbe essere utilizzato come forma di evitamento di stati dolorosi

Di Chiara Manfredi

Pubblicato il 06 Ott. 2015

Se da un lato è molto sano e utile prendersi cura di sé e agire quando si ha la necessità di chiedere un aiuto, anche farmacologico, dall’altro il farmaco potrebbe essere utilizzato come una forma di evitamento, per non concederci di toccare stati emotivi intensi e negativi che abbiamo paura di non saper gestire e tollerare.

Attualmente la depressione interessa 350 milioni di persone e causa 850mila morti ogni anno. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ipotizza che nel 2020 arriverà a essere la seconda causa di disabilità lavorativa, subito dopo le malattie cardiovascolari, con pesanti ricadute a livello sociale e ovviamente individuale. Inoltre, negli anni più recenti l’età di insorgenza dei disturbi depressivi si è estesa a macchia d’olio, allargando l’hot spot dei 20/40 anni e includendo manifestazioni precoci (adolescenza compresa) e tardive (pensionamento compreso). Mentre tra i fattori di rischio rientra praticamente ogni aspetto della vita delle persone, dalla vulnerabilità genetica al contesto sociale, dalle relazioni affettive alle condizioni lavorative, recentemente uno studio americano ha ipotizzato e testato un particolare esame dei valori ematici che consentirebbe la diagnosi precoce di Disturbo Depressivo Maggiore (Bilello et al., 2015).

I disturbi depressivi sono caratterizzati da una serie di sintomi che vanno a creare un quadro di “mancanze” (dell’interesse, dell’energia, del piacere), affiancato da un tono dell’umore abbassato e da pensieri orientati in senso negativo e incentrati sulla colpa e sulla responsabilità. In base alla gravità dell’episodio depressivo, possono presentarsi pensieri di morte o ideazione suicidaria, mentre sono più frequenti alterazioni del sonno, dell’alimentazione e dell’attività psicomotoria.

I farmaci preposti alla terapia di questo tipo di disturbi sono gli antidepressivi, che comprendono diversi tipi di molecole. Sicuramente, l’introduzione degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), più tollerabili dei vecchi triciclici, ha contribuito a un rapido aumento nell’assunzione di antidepressivi.

La cosa interessante è che, secondo uno studio condotto a Baltimora nel 2015 su più di mille soggetti seguiti per oltre 30 anni (Takayanagi et al.), il 69% delle persone che assumevano antidepressivi non soddisfaceva i criteri clinici sufficienti per ricevere una diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore. In altre parole, sul totale di persone che stavano assumendo antidepressivi al momento dell’indagine, più della metà non aveva mai ricevuto una diagnosi pertinente alla terapia nel corso della vita. Consapevoli che spesso gli antidepressivi, soprattutto gli SSRI, vengono prescritti anche per altri tipi di patologia, gli autori hanno approfondito la presenza di altre diagnosi psichiatriche nel campione che assumeva SSRI, concludendo che il 38% di queste persone non solo non era clinicamente depressa, ma non aveva nessuna altra diagnosi psichiatrica. Ci mettiamo in più che dal 1998 al 2008 l’utilizzo di antidepressivi è aumentato del 400% e che al momento attuale l’11% della popolazione americana assume regolarmente questi farmaci.

Uscendo da un’ottica utilitaristica (che valuterebbe il grande costo sociale ed economico dell’utilizzo improprio di questi farmaci), è sufficiente ricordare che un uso prolungato di antidepressivi espone la persona a effetti collaterali con ricadute importanti sullo stato di salute e sul benessere generale.

Se questo è il dato, possiamo fare alcune ipotesi sul motivo per cui una percentuale così importante di persone assuma farmaci senza che la sintomatologia sia abbastanza accentuata da soddisfare una diagnosi coerente. Sarebbe come farsi ricoverare per un mal di testa o mettere i punti di sutura per un taglietto. Ovviamente le interpretazioni sono tutte possibili, volendone abbozzare alcune probabilmente il fronte è duplice, e come al solito comprende l’individualità e la percezione del singolo da una parte e le richieste o pressioni della società dall’altra. È innegabile che oggi ci sia davvero poca tolleranza per la sofferenza, la propria e quella altrui. Il contesto sociale spinge perché tutto sia sempre al massimo, sia in contesti lavorativi dove il profitto non è mai abbastanza, che in contesti sociali, dove si deve essere sempre impegnati ai massimi livelli.

La sensazione è che facciamo sempre più fatica a “stare”, a considerare i momenti di difficoltà emotiva come fasi di passaggio e a tollerare di non essere completamente in controllo del nostro stato psicologico. In questo senso, se da un lato è molto sano e utile prendersi cura di sé e agire quando si ha la necessità di chiedere un aiuto, anche farmacologico, dall’altro il farmaco potrebbe essere utilizzato come una forma di evitamento, per non concederci di toccare stati emotivi intensi e negativi che abbiamo paura di non saper gestire e tollerare. In quest’ultimo caso, come per tutti i comportamenti (o i non-comportamenti) di evitamento, il rischio è che tamponando all’origine una difficoltà, e non consentendo a noi stessi di gestirla e di valutare attraverso l’esperienza che a volte la tristezza è solo tristezza, non impariamo le strategie utili per l’autoregolazione e corriamo ai ripari senza che ci sia un effettivo danno. La stessa dinamica si riscontra spesso in pazienti che hanno sofferto di depressione e ne sono usciti, oppure in persone che hanno affiancato pazienti depressi nel corso della vita: spesso si sviluppa in questi casi una sorta di fobia per gli stati interni dolorosi, che vengono quindi evitati e soffocati con la copertina di linus dei serotoninergici.

Nell’estremo rispetto per ogni situazione individuale, e non dimenticando che in una buona percentuale l’assunzione di psicofarmaci è consigliabile e utile per un miglioramento significativo della salute psicofisica, dobbiamo ricordare che l’esplorazione è utile anche per le cose dolorose: spesso avere il coraggio di entrare in qualcosa di spaventoso è l’unica cosa che fa passare la paura, mostrandoci che spesso abbiamo molte più risorse di quelle che crediamo di avere. In più, mentre il farmaco rimane qualcosa di esterno che viene introdotto nell’organismo, concederci di sviluppare risorse maggiori è qualcosa che rimane dentro di noi e ci consente anche di modificare la nostra definizione di noi stessi e di sentirci più efficaci nel lungo termine. A volte ci vuole coraggio per lasciarci sorprendere dalle nostre stesse capacità.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

La psicologia positiva e il trattamento della depressione

BIBLIOGRAFIA:

Si parla di:
Categorie
SCRITTO DA
Chiara Manfredi
Chiara Manfredi

Teaching Instructor presso Sigmund Freud University Milano, Ricercatrice per Studi Cognitivi.

Tutti gli articoli
ARTICOLI CORRELATI
WordPress Ads
cancel