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L’alessitimia in età adulta: quale correlazione tra alessitimia e psicopatologia?

L'alessitimia genera disfunzioni interpersonali, difficoltà nel riconoscimento e nella regolazione delle emozioni e nel controllo degli impulsi - Psicologia %%page%%

Di Grazia Artoni, Martina Atti, Enrica Giaroli, Susanna Paterlini

Pubblicato il 29 Ott. 2015

Aggiornato il 19 Lug. 2019 12:12

Grazia Artoni, Martina Atti, Enrica Giaroli e Susanna Paterlini, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

L’alessitimia appare come un insieme di disfunzioni interpersonali, una vasta gamma di sintomi e scarsa regolazione degli impulsi, tutti problemi che rappresentano tratti distintivi dei disturbi di personalità. Si è per questo ipotizzato che essa sia una caratteristica di molti pazienti affetti da questi disturbi (Grabe et al., 2004), un’idea supportata da dati che mostrano come l’alessitimia non sia una reazione a stressors ma un tratto stabile di personalità (Luminet et al., 2001).

LEGGI ANCHE: (1) Introduzione – (2) Alessitimia in età evolutiva – (3) Alessitimia in adolescenza   

Recentemente gli studi sulla popolazione adulta hanno indagato il collegamento tra l’alessitimia e i disturbi del comportamento alimentare (Harrison, Sullivan, Tchanturia, & Treasure 2009), l’abuso di alcool e sostanze (Taylor, Bagby, & Parker, 1997; De Rick, Vanheule, & Verhaeghe, 2009), la depressione (Luminet, Bagby, & Taylor, 2001) e, in particolare, il sottotipo resistente al trattamento (Ogrodniczuk, Piper & Joiyce, 2004; Vanheule, Desmet, Verhaeghe, & Bogaerts, 2007), lamentele somatiche e disturbi somatoformi (PedrosaGil et al., 2008), dissociazione patologica e tentativi di suicidio (Maaranen et al., 2005).

L’alessitimia negli adulti appare anche correlata alla tendenza a evitare i conflitti, e a relazionarsi con gli altri in un modo distaccato (Taylor et al., 1997) oltre che con un minore impegno nel processo psicoterapeutico (Ogrodniczuk et al.,2005). Questi pazienti evitano relazioni sociali strette e tendono a formare legami superficiali. Vanheule et al.(2007) hanno trovato che l’alessitimia è collegata a due tipologie di indifferenza interpersonale: ci si aspetta poco dagli altri e c’è un interesse limitato nel soddisfare le aspettative altrui.

L’alessitimia dunque appare come un insieme di disfunzioni interpersonali, una vasta gamma di sintomi e scarsa regolazione degli impulsi, tutti problemi che rappresentano tratti distintivi dei disturbi di personalità. Si è per questo ipotizzato che essa sia una caratteristica di molti pazienti affetti da questi disturbi (Grabe et al., 2004), un’idea supportata da dati che mostrano come l’alessitimia non sia una reazione a stressors ma un tratto stabile di personalità (Luminet et al., 2001).

Alcuni autori, nello studio di pazienti con disturbi di personalità, hanno indagato il ruolo della mentalizzazione (Bateman & Fonagy, 2004) o della metacognizione (Semerari, Carcione, Dimaggio, Nicolò, & Procacci, 2007), due processi strettamente correlati all’essere in grado di riconoscere e pensare i propri stati interni. E’stato ipotizzato che la difficoltà nel tradurre stati corporei in parole sia una caratteristica centrale degli individui affetti da disturbo di personalità borderline. Altri disturbi come l’evitante, l’ossessivo-compulsivo o il narcisistico sono stati descritti nei termini di scarsa consapevolezza emotiva e difficoltà nel comunicare agli altri le emozioni (Semerari et al., 2003; Dimaggio, Semerari, Carcione, Nicolò, & Procacci, 2007; Colle, D’Angerio, Popolo & Dimaggio, 2010).

Nonostante la plausibilità del legame tra alessitimia e disturbi di personalità, pochi studi hanno esplorato questa relazione e quasi nessuno si è concentrato in modo particolare su di essi. Bach, De Zwaan, Ackard, Nutzinger, & Mitchel (1994) hanno trovato che il disturbo schizotipico di personalità, il dipendente, e l’evitante, così come la mancanza di caratteristiche istrioniche, emergevano come predittori significativi di alessitimia. Honkalampi e al. (2001), dopo aver analizzato un campione di pazienti con depressione maggiore, hanno scoperto che l’alessitimia era più pronunciata nei pazienti appartenenti al cluster C. Inoltre, l’alessitimia persisteva dopo il recupero dalla depressione, in tal modo ciò rafforza l’idea che essa sia un tratto della personalità stabile.

Bouchard et al. (2008) hanno esaminato le Adult Attachment Interviews di 73 partecipanti, con e senza disturbi psichiatrici. Essi hanno scoperto che molti aspetti della capacità di pensare il pensiero, inclusa la possibilità di descrivere stati somatici in termini di sentimenti erano collegati con la presenza di un maggior numero di diagnosi di disturbo di personalità. Spitzer e al. (2005) hanno rilevato che lo stile interpersonale di individui alessitimici era caratterizzato da un comportamento freddo e socialmente evitante, corrispondente al pattern di attaccamento insicuro.

Alessitimia: quali possibilità terapeutiche?

Vista la sovrapposizione tra il costrutto dell’alessitimia e alcuni disturbi di personalità si è generato un dibattito sulla possibilità di modificare questi tratti in psicoterapia.
L’impatto stesso del costrutto sull’esito in psicoterapia è poco chiaro. In primo luogo, i soggetti con alessitimia sono spesso socialmente evitanti, freddi, meno emotivamente coinvolti nelle interazioni (Saarijärvi, Salminen, & Toikka, 2006). Questo potrebbe portare ad una ridotta aderenza alla psicoterapia nonostante grave disagio mentale. In secondo luogo, la mancanza di immaginazione, e la scarsa consapevolezza degli stimoli emotivi possono significativamente ridurre la capacità di impegnarsi con successo in una psicoterapia.

Le osservazioni cliniche degli anni ‘60 e ‘70 mostravano che i pazienti alessitimici rispondevano poco alla psicoterapia psicodinamica. Ciò era spiegato dalla difficoltà di questi pazienti a svolgere alcuni compiti proposti in terapia, tra cui l’introspezione e la comunicazione dei loro sentimenti, il riconoscimento di cause psicologiche e l’utilizzo di strategie mentali e relazionali per regolare le emozioni. Questi presentavano, inoltre, grosse difficoltà a sviluppare una alleanza con i clinici e, di conseguenza, si impegnavano meno a mettere in atto le raccomandazioni fornite.

Negli ultimi anni, i ricercatori hanno rivolto la loro attenzione a studiare il ruolo potenziale dell’alessitimia nel predire la prognosi a lungo termine. L’alessitimia predice scarsi esiti della terapia per l’ansia e per i disturbi somatoformi (Bach & Bach, 1995), la depressione (Ogrodniczuk, Piper, e Joyce, 2004), l’alcolismo (Cleland, Magura, Foote, Rosenblum, & Kosanke, 2005), i disordini funzionali gastrointestinali (Porcelli et al, 2004), e disturbi psichiatrici misti (McCallum, Piper, Ogrodniczuk, & Joyce, 2003).

In contrasto con questi risultati negativi, altri studi hanno evidenziato la possibilità che la presenza di questo costrutto non influenzi gli esiti di trattamento di altri sintomi.

In uno studio (Rufer, et al., 2004) su pazienti alessitimici con disturbo ossessivo compulsivo e depressione in comorbidità sottoposti a terapia cognitivo comportamentale si è evidenziata una riduzione significativa dei sintomi ossessivi e depressivi, mentre non si sono verificati cambiamenti assoluti nella TAS – 20 punteggi totali e suoi fattori 1 e 3 (difficoltà nell’identificare i sentimenti e pensiero orientato all’esterno). Solo i punteggi del fattore 2 (difficoltà nel comunicare i sentimenti agli altri) sono diminuiti in modo significativo. Questo dato supporta l’idea che l’alessitimia sia un tratto stabile di personalità piuttosto che un fenomeno di stato-dipendente nei pazienti ossessivo- compulsivi. Emerge, inoltre, la possibilità che un trattamento cognitivo comportamentale produca un miglioramento di questi pazienti rispetto alla capacità di descrivere le loro sensazioni.

Grabe, Spitzer, & Freyberger (2001) hanno valutato un ampio campione di pazienti ricoverati e sottoposti a psicoterapia per indagare sulle seguenti ipotesi : ( 1 ) visti i livelli elevati di stress interpersonale e i comportamenti di evitamento sociale , gli alessitimici interromperanno più spesso il trattamento nelle prime fasi della terapia; ( 2 ) alla baseline , i pazienti alessitimici mostreranno livelli più elevati di disagio psicopatologico rispetto ai non alessitimici; ( 3 ) La riduzione dei sintomi negli alessitimici sarà inferiore e il distress psicopatologico alla fine dell’intervento sarà ancora significativamente elevato rispetto ai non alessitimici.

La prima ipotesi non viene confermata. I pazienti che interrompono il trattamento entro le prime 4 settimane non sono più alessitimici rispetto ai pazienti che hanno continuato il programma.
Inoltre, uno studio sperimentale ha fornito dati che mostrano come una risposta empatica verbalizzata da parte del clinico può essere particolarmente cruciale per l’alessitimico.
La soddisfazione dei pazienti può, quindi, diventare la base per una solida alleanza terapeutica (Graugaard, Holgersen, & Finset, 2004). La seconda ipotesi è stata pienamente confermata e si è evidenziato, quindi, un significativo livello di stress psicopatologico in pazienti alessitimici all’inizio della terapia. In contrasto con la terza ipotesi degli autori, la psicoterapia condotta nel contesto ospedaliero ha prodotto una significativa riduzione dei sintomi negli alessitimici comparabile alla riduzione riscontrata nei non alessitimici.

Dato che i pazienti alessitimici sembrano non avere le competenze stesse che la psicoterapia richiede, ad esempio, auto-riflessione, l’interesse per eventi interni e l’accesso ai sentimenti, sembrerebbe ragionevole supporre che essi tendano anche a evitare trattamenti psicoterapici e preferiscano, invece, altre forme di trattamento, ad esempio, la farmacoterapia.

Recentemente è stato esaminato questo problema (Ogrodniczuk et al., 2009), attraverso la raccolta di dati provenienti da pazienti in due diversi ambulatori psichiatrici. In questo studio si sono prese in considerazione le tre caratteristiche principali del costrutto: difficoltà di identificazione sentimenti, difficoltà a comunicare sentimenti e il pensiero orientato all’esterno. E’ stata data la possibilità ai pazienti di indicare il trattamento che avrebbero preferito. La scala prevedeva la scelta tra “trattamento medico”, “psicoterapia”, o “nessun trattamento”. I soggetti potevano anche indicare se avrebbero preferito una psicoterapia di gruppo o individuale.

I risultati mostrano che la presenza di alti livelli di alessitimia non porta a differenze significative tra i gruppi di pazienti che scelgono il trattamento farmacologico, la psicoterapia, o nessun trattamento. Questa scoperta suggerisce che l’alessitimia abbia le stesse probabilità di essere presente in mezzo a coloro che preferiscono la psicoterapia come coloro che preferiscono un trattamento farmacologico.
Sembrerebbe, quindi, non opportuno assumere che i pazienti alessitimici abbiano riserve a ingaggiarsi in un trattamento psicoterapeutico. Si è, inoltre, riscontrato che i pazienti che preferivano la terapia di gruppo avevano livelli più elevati di alessitimia rispetto a coloro che preferivano l’individuale. È possibile che questi pazienti percepiscano la terapia di gruppo come un ambiente che offre qualche opportunità di essere un osservatore passivo. Possono ritenere che la terapia individuale richiederebbe loro costante partecipazione nella discussione dei sentimenti e che potrebbero non essere completamente a proprio agio. In alternativa, i pazienti alessitimici potrebbero credere che la terapia di gruppo potrebbe fornire loro maggiori opportunità di imparare a lavorare con sentimenti.

Nel complesso, i risultati di questi studi mostrano che, sebbene la psicoterapia con pazienti alessitimici può ritenersi una sfida, questo tipo di trattamento sembra essere facilmente accettato da questi e può produrre miglioramenti significativi nei sintomi associati al costrutto.

Alessitimia: quali prospettive in ambito neuroscientifico?

Anche dalle neuroscienze arrivano nuove riflessioni e interessanti prospettive di trattamento.
Gli studi di neuroimaging hanno trovato che l’alessitimia può essere associata a un deficit nel processamento degli stimoli emotivi che si svolge nella corteccia cingolata anteriore, piuttosto che a una mancanza di risposta neuronale in strutture che si occupano dell’elaborazione di stimoli emotivi a livelli più bassi (Kano et al 2003).

Una recente rassegna di studi di neuroimaging (Morigouchi & Komaki, 2013) ha portato alle seguenti conclusioni:
1) Le persone con alessitimia mostrano ridotta risposta neurale nei sistemi limbico e paralimbico (ad esempio, amigdala, insula, ACC) a stimoli affettivi esterni (visivi).
2) Le persone con alessitimia hanno mostrato ridotta risposta neurale nella corteccia cingolata posteriore durante un compito immaginativo, il che suggerisce che il funzionamento cognitivo volontario, come ad esempio la creazione di un’immagine mentale (non innescati da eventi esterni), è difficoltosa per queste.
3) Al contrario, negli individui con punteggi più alti di alessitimia si evidenzia una aumentata risposta neurale agli stimoli accompagnati da un contesto ‘fisico’, come i processi somatosensoriali o senso-motori. Questa ‘ipersensibilità al livello delle sensazioni fisiche può essere associata con il fatto che alcuni pazienti (pazienti psicosomatici in particolare) tendono a fare affidamento sui loro sintomi fisici.
4) Le persone con alessitimia mostrano ridotta attivazione dell’insula, quando sono impegnati in processi cognitivi, come ad esempio le attività sociali che richiedono capacità di mentalizzazione, o teoria della mente. Ciò può essere indicativo di una sovrapposizione tra alessitimia e altri disturbi psichiatrici caratterizzati da scarsa empatia, come i disturbi dello spettro autistico.

Nel complesso, gli studi di neuroimaging indicano che le persone con alti punteggi sulla scala dell’alessitimia mostrano o scarsa sensibilità ai trigger affettivi esterni o ipersensibilità a sensazioni fisiche interne e dirette, o entrambi. Insieme con le loro capacità cognitive ridotte, come ad esempio la capacità di mentalizzazione o immaginativa, queste caratteristiche potrebbero clinicamente manifestarsi come incapacità di esprimere le proprie emozioni e /o la tendenza a diventare dipendenti da disturbi fisici. Questo ricorda la teoria di MacLean che afferma che i processi cognitivi in aree neocorticali non raggiungano il cervello viscerale.

I risultati sembrano adattarsi molto bene al costrutto teorico di emozioni proposto da Lane & Schwartz (1987) in cui la consapevolezza emotiva può essere classificato in diversi “livelli” basati sulla teoria cognitivo-evolutiva di Piaget (Piaget, Brown, Kaegi, Rosenzweig, 1981). In questo modello, la consapevolezza di indizi fisiologici e la consapevolezza delle tendenze d’azione sono classificate nel livello inferiore. Questi tipi di consapevolezza fondamentale sono la base per i livelli cognitivi più elevati di consapevolezza emotiva, come la capacità di differenziare le emozioni, anche tra persone in diversi contesti sociali. La teoria sembra coerente con i risultati di studi di neuroimaging che forniscono evidenze di come le persone con alessitimia si basino su un livello più basso di consapevolezza emotiva (cioè, a livello fisico/azione), e che la loro consapevolezza cognitiva superiore sia piuttosto compromessa. Secondo questi dati è plausibile che le persone affette da alessitimia possono essere ferme ai livelli inferiori di consapevolezza emotiva.

Un esempio dei fenotipi clinici che mostrano una forma primitiva di esperienza affettiva è il disturbo di panico. Gli individui con disturbo di panico non possono simboleggiare e regolare gli stati di eccitazione emotiva e vengono travolti da una miriade di sensazioni corporee e dalla paura di perdere il controllo. La loro mente è concentrata sulle sensazioni somatiche e l’eccitazione interna è espressa direttamente attraverso vie somatiche senza alcuna modifica da processi cognitivi di ordine superiore. Diversi studi hanno suggerito che l’ansia di panico è dovuta a un deficit alessitimico in processi cognitivi di livello inferiore. Tale caratteristica dell’attacco di panico è del tutto coerente con l’idea che le persone con alessitimia siano focalizzate sul piano somatosensoriale di consapevolezza emotiva. Non esistono, tuttavia, studi di neuroimaging del disturbo di panico che si concentrino sulle caratteristiche alessitimiche come le tendenze somatosensoriali.

Gli interventi potrebbero avere come obiettivo queste specifiche aree neurali utilizzando tecniche specializzate di stimolazione transcranica magnetica per attivare aree del cervello che sono coinvolte nelle emozioni. Inoltre, le aree del cervello (per esempio, l’insula anteriore) implicate nell’empatia, nelle emozioni, nella consapevolezza enterocettiva e nell’alessitimia (Bernhardt et al, 2013) e le aree coinvolte nelle emozioni e nel linguaggio (Rota et al, 2009) possono essere addestrati da neurofeedback utilizzando in tempo reale la risonanza magnetica. In alternativa, il neurofeedback può essere fornito attraverso la tecnologia a basso costo, come la spettroscopia a infrarosso (Mihara et al., 2012). Il training di attivazione dell’insula anteriore cambia anche la valutazione degli stimoli emotivi (Caria et al., 2010) e in pazienti con schizofrenia ha portato a cambiamenti nella percezione delle emozioni e nella modulazione della connettività cerebrale (Ruiz et al., 2013). Questi risultati aprono la porta a ulteriori studi sull’ alessitimia e sulle popolazioni psichiatriche e le possibili applicazioni terapeutiche.

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