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Affido familiare: la sfida della co-genitorialità. Tra processo di separazione e attaccamento

L'affido consiste nell'inserimento del minore in una famiglia diversa da quella di origine in prospettiva di un rientro del minore nella famiglia di origine

Di Giuseppina Ferrer

Pubblicato il 02 Ott. 2015

Aggiornato il 04 Lug. 2019 12:25

Giuseppina Ferrer, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI 

Diversamente dall’adozione, che comporta l’instaurarsi di un legame filiale definitivo ed esclusivo, l’affido consiste nell’inserimento del minore in una famiglia diversa da quella di origine, che ad essa tuttavia non si sostituisce ma si affianca, costituendo così una misura provvisoria.

“…I vostri figli non sono figli vostri. Sono figli e figlie della sete che la vita ha di se stessa.
Essi vengono attraverso di voi, ma non da voi, e benchè vivano con voi non vi appartengono…la vita procede e non s’attarda sul passato.
Voi siete gli archi da cui i figli, come frecce vive, sono scoccate in avanti.
L’arciere vede il bersaglio sul sentiero dell’infinito, e vi tende con forza affinchè le sue frecce vadano rapide e lontane.
Affidatevi con gioia alla mano dell’Arciere;
poichè come ama il volo della freccia così ama la fermezza dell’arco.” (Kahlil Gibran)

In Italia l’istituto dell’Affido Familiare è regolamentato dalla legge 149/01, in cui si afferma il diritto del minore ad essere educato nella propria famiglia e, in mancanza di essa, a poter fruire delle cure di una famiglia altra, che possa quindi esercitare una funzione vicariante.
Attualmente i minori in affidamento in Italia sono circa 16.800, si tratta pertanto di un fenomeno estremamente diffuso nel nostro Paese, che riguarda tutte le fasce di età e comprende tanto gli affidi etero-familiari quanto quelli intra-familiari (Moretti et al., 2009).

Diversamente dall’adozione, che comporta l’instaurarsi di un legame filiale definitivo ed esclusivo, l’affido consiste nell’inserimento del minore in una famiglia diversa da quella di origine, che ad essa tuttavia non si sostituisce ma si affianca, costituendo così una misura provvisoria.
L’Affido Familiare, pertanto, si configura come intervento di accompagnamento e supporto alla famiglia di origine, avendo come obiettivo il successivo rientro del minore nel contesto familiare naturale.
Nella stragrande maggioranza dei casi, in Italia, l’intervento di affidamento familiare avviene ad opera dei servizi territoriali di Tutela Minori su incarico dell’Autorità Giudiziaria Minorile, che è garante della protezione dei più piccoli in casi di potenziale pregiudizio.

Ma quali situazioni configurano un rischio tale da giustificare un intervento di tal genere?
Possono essere molteplici le situazioni che rendono necessario tale intervento: la malattia di un genitore, la sua carcerazione, la fragilità psicologica fino a giungere a franchi quadri psicopatologici di un genitore, sono solo alcuni dei motivi che possono condurre il Tribunale per i Minorenni a disporre l’Affido eterofamiliare di un bambino. In condizioni di questo tipo il genitore può faticare nell’esercizio del proprio ruolo educativo ed affettivo, rischiando così di condizionare negativamente il funzionale percorso evolutivo dei più piccoli.

Numerose le potenzialità di tale intervento ma altrettanto numerosi i rischi che esso racchiude. L’inserimento in un’altra famiglia, infatti, può permettere al bambino di sperimentare nuovi stili di attaccamento (Bowlby, 1983), con la conseguente possibilità di modificare nel tempo i propri modelli operativi interni, che costituiscono l’ossatura dell’idea di sè e del mondo; tale intervento può quindi fornire un’esperienza emotiva e relazionale correttiva utile a disinnescare eventuali cicli interpersonali disfunzionali sperimentati nella famiglia di origine ed interiorizzati come propri.

Ciononostante, complessa e rischiosa è la sfida rappresentata dall’affido familiare: esso, infatti, espone i diversi protagonisti coinvolti all’esperienza della perdita. Se da un lato, infatti, il bambino viene separato dal contesto famigliare di appartenenza, dal suo ambiente sociale e relazionale, sperimentando così la perdita delle proprie abitudini e dei propri punti di riferimento, dall’altro questi dovrà confrontarsi con la perdita della possibilità di essere curato opportunamente, a causa di una genitorialità trascurante o inadeguata. Ciò implica la perdita per il bambino della possibilità di ricevere dai propri genitori risposte ai suoi bisogni e questo vissuto lo accompagnerà durante tutto il corso dell’affido (Carminati et al., 2012).

Ma perchè parlare di “sfida” considerate le enormi potenzialità di tale intervento?
Come diceva Bowlby:

[blockquote style=”1″]La propensione ad esperire angoscia per la separazione e il dolore per la perdita sono i risultati ineluttabili di una relazione d’amore, del fatto di voler bene a qualcuno[/blockquote] (Bowlby, 1973).

Come è noto, il sistema dell’attaccamento e quello esplorativo sono antagonisti: nel momento in cui il piccolo è sopraffatto dalla perdita non può esplorare cognitivamente ed emotivamente il nuovo contesto famigliare. Shock, negazione, protesta, disperazione, distacco rappresentano le naturali reazioni alla separazione; in questa fase ai genitori affidatari è richiesto il faticoso compito di sintonizzarsi sulla perdita, rispecchiando i vissuti di rabbia e tristezza del bambino nei confronti della propria famiglia di origine. Solo tale faticosa attitudine della famiglia affidataria potrà lentamente permettere al bambino di iniziare ad esplorare il nuovo contesto di vita nel quale è stato calato.

Allo stesso tempo, il tema della perdita è centrale anche nei vissuti dei genitori naturali, che sentono di essere sopraffatti e delegittimati del proprio ruolo, almeno in parte esclusi dal percorso evolutivo di coloro che loro stessi hanno dato alla luce. Tali dolorosi vissuti, acuiti dal contesto coatto in cui tali interventi vengono spesso attuati, rende difficilissima la condivisione del progetto di affido da parte dei genitori naturali, che rischiano così di ostacolarne l’attuazione, minando la possibilità che esso vada a buon esito.

I genitori affidatari, dal canto loro, consapevolmente ed inconsapevolmente, con le loro nuove proposte quanto a riti quotidiani e a stili relazionali, stimolano nel bambino l’attività di pensiero e di confronto relativamente a vecchi e nuovi modus vivendi. Tali confronti, che naturalmente vengono effettuati dal bambino, rischiano talvolta di alimentare il cosiddetto conflitto di lealtà. D’altra parte, è proprio dal confronto tra le due diverse famiglie che discende la possibilità per il bambino di ripensare circa la modalità di vivere, viversi e relazionarsi (Kaneklin et al., 2013).

L’instaurarsi di un conflitto di lealtà rappresenta uno dei principali motivi per cui l’affido è così complesso da attuare e gestire nel tempo.

Il bambino, in particolare, potrà sperimentare preoccupazione ed irritazione nel timore di essere sleale nei confronti della propria famiglia di origine; anche le famiglie, dal canto loro, rischiano di sentirsi molto a disagio, oppresse dai continui reciproci confronti. Tuttavia, tale conflitto è parte integrante e imprescindibile dell’affido stesso, e deve poter essere utilizzato in modo strumentale per permettere al bambino di comprendere che possono coesistere diversi modus vivendi, e che lui stesso, nel faticoso percorso di crescita di cui è protagonista, potrà compiere delle scelte e percorrere la strada maggiormente in linea con il perseguimento dei suoi scopi.
Questa è l’enorme opportunità insita nei complessi progetti di affido: offrire al bambino una possibilità di scelta, dandogli la possibilità di non ripercorrere necessariamente il “solco” tracciato dalla propria famiglia di origine, spesso caratterizzata da traumi transgenerazionali la cui origine non è più nemmeno identificabile.

In conclusione, l’affido rappresenta una successione di attaccamenti e separazioni che deve essere adeguatamente sostenuta e monitorata al fine di evitare interruzioni traumatiche dei legami. L’affido, infatti, è per sua natura temporaneo e prevede la compresenza delle due famiglie, tra le quali il minore transita e rispetto alle quali fa riferimento. Al bambino è quindi richiesto un faticoso lavoro dentro e fuori di sè, alla ricerca del miglior modo per avvicinarsi ed allontanarsi, mescolarsi per poi differenziarsi, alla ricerca di una propria personale visione di sè e del mondo che possa, in conclusione, permettergli di ricongiungersi, anche solo internamente, alla famiglia di appartenenza, pur se così differente e complessa.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

L’importanza di ricostruire la propria storia: fattore di protezione nelle adozioni

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Bowlby, J. (1973a). Attaccamento e perdita,vol. 2: La separazione dalla madre. Tr. it. Boringhieri, Torino 1975.
  • Bowlby, J. (1983). Attaccamento e perdita, vol.3, 1980, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1983.
  • Carminati, M., Chistolini, M., Colombo, F., Ferrario, G., Gagliardi E., Gatti, M., et al. (2012). Nuove sfide per l’affido. Milano: Franco Angeli.
  • Gibran, K. (1991). Il profeta. Tr. it. Feltrinelli.
  • Moretti, E., Ricciotti, R., Zelano, M., Andolfi, V., (2009). “Bambini e ragazzi ‘fuori famiglia’: dimensione e caratteristiche del fenomeno” in Belotti V. (a cura di), Accogliere bambini, biografie, storie e famiglie, “Quaderni del Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza”, n.48, Istituto degli Innocenti, Firenze.
  • Kaneklin & Comelli (2013). Affido familiare: sguardi e orizzonti dell’accoglienza. Milano: Vita e Pensiero.
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