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Psychiatry’s identity crisis: commento all’articolo di Richard Frieman pubblicato sul New York Times

Il 17-7-2015 sul NYT è stato pubblicato l' articolo "Psychiatry’s identity crisis" di Richard Frieman e Francesco Mancini ne fornisce un commento critico.

Di Francesco Mancini

Pubblicato il 01 Set. 2015

Non è la prima volta che il New York Times propone ai suoi lettori una riflessione critica sullo stato della psichiatria. Il 17-7-2015 è stato pubblicato un articolo dal titolo Psychiatry’s identity crisis. L’autore è Richard Friedman, psichiatra e psicofarmacologo, docente di Psichiatria Clinica al Weill Cornell Medical College.

La tesi che sostiene è duplice, una riguarda la terapia e l’altra la natura stessa dei disturbi psichiatrici. In primo luogo, Friedman avanza il dubbio che tanti anni di ricerca e enormi investimenti non abbiano prodotto la scoperta di farmaci veramente innovativi rispetto a quelli disponibili già da anni, e nemmeno abbiano identificato le cause neurologiche delle malattie mentali.

Forse, suggerisce Frieman, è arrivato il momento di dare più spazio alla psicoterapia. Le ragioni sono riassumibili in tre. Innanzitutto, per molti disturbi, l’efficacia della psicoterapia, o meglio di alcuni interventi psicoterapici, è maggiore dei farmaci. In secondo luogo, non sembra proprio che disturbi molto diffusi, come i disturbi di personalità, siano curabili con i farmaci, mentre lo sono con la psicoterapia. Infine, scrive Friedman, [blockquote style=”1″]in molti casi non c’è un sostituto per la conoscenza di sé che si ottiene con la psicoterapia. Certamente come psichiatri, possiamo controllare l’ansia del paziente, migliorarne l’umore e schiarire la psicosi con appropriati interventi farmacologici. Ma non c’è una pillola – e forse non ci sarà mai – per molti problemi dolorosi e emotivamente distruttivi, come la rabbia narcisistica o l’ambivalenza paralizzante, solo per citarne due.[/blockquote]

Aggiungerei un’altra considerazione. La ricerca ha certamente approfondito le nostre conoscenze sui meccanismi d’azione farmacologica e ormai disponiamo di nozioni molto raffinate sulle modalità con cui gli psicofarmaci incidono sul sistema nervoso centrale interagendo con i diversi recettori. Tuttavia, appare carente la spiegazione del meccanismo d’azione psicologico degli psicofarmaci. Perché e come un farmaco che, ad esempio, aumenta la serotonina disponibile nel cervello, può migliorare il tono dell’umore, far riprendere gli interessi e aumentare i livelli di motivazione? La depressione maggiore è un fenomeno complesso che si manifesta con sintomi numerosi e diversi fra loro. Altrettanto complessi sono i processi psicologici di mantenimento e aggravamento del disturbo. Su quale di questi fattori e processi incidono le variazioni biochimiche indotte dal farmaco?

Il paziente assume il farmaco antidepressivo e questo aumenta la serotonina disponibile ma quali cambiamenti psicologici, fra i tanti possibili, sono prodotti dall’ aumento della serotonina, e quali di questi, a loro volta, migliorano il quadro clinico complessivo? Qual è il cambiamento psicologico causato dal farmaco? Una risposta possibile, stando ad alcune ricerche (vedi i lavori della Hammer), è che una dose anche minima di serotoninergico orienti l’attenzione verso le informazioni positive e la distolga da quelle negative. Questo fenomeno è osservabile anche nelle persone non depresse. Una risposta, quindi, che sembrerebbe dare ragione al modello cognitivo della depressione di Beck. Tuttavia la ricerca farmacologica segue prevalentemente due direzioni: lo studio degli effetti cerebrali degli psicofarmaci e la misurazione del cambiamento dei sintomi. Le conoscenze degli effetti dei farmaci sui meccanismi psicologici alla base dei singoli disturbi, invece, sono a tutt’oggi poco sviluppate e pertanto non si è in grado di rispondere ad alcune domande piuttosto ovvie: perché, ad esempio, i serotoninergici sono efficaci sia nella depressione sia nel disturbo ossessivo, sia in diversi disturbi d’ansia? Quale effetto psicologico indotto dai farmaci si rivela utile per ridurre sintomatologie così diverse fra loro? Perché l’effetto dei serotoninergici è selettivo sul piano psicologico, ma non lo è su quello neurale? Intendo dire, ad esempio, che i serotoninergici, quando sono efficaci, possono ridurre anche del 70% la paura che un paziente ossessivo ha di aver lasciato il gas aperto e il conseguente investimento in controlli prudenziali. Ma perché non riducono del 70% la paura e la prudenza nei domini non sintomatici, ad esempio la prudenza con cui lo stesso paziente guida l’automobile? Cioè, non si osserva che il paziente ossessivo riduce del 70% il rispetto del codice stradale.

Forse la ricerca farmacologica sarebbe avvantaggiata se tenesse conto dei solidi modelli psicologici prodotti dalla cosiddetta Experimental Psychopathology.

In secondo luogo, Friedman avanza l’idea che, negli ultimi decenni la psichiatria, supportata dalle neuroscienze, sia stata orientata dalla tesi che “The diseases that we treat are diseases of the brain,” come esplicitamente sostenuto nell’editoriale apparso nel numero di maggio dell’influente e prestigioso JAMA Psychiatry. Ciò, secondo Friedman, avrebbe implicato la sottovalutazione del ruolo eziologico dei traumi psicologici precoci, dei maltrattamenti, degli abusi, dell’incuria affettiva, della deriva sociale e della solitudine. Davvero si può pensare ai disturbi psicopatologici più diffusi come a malattie del cervello? Molti dubbi analoghi erano stati sollevati dal Prof Bentall, noto esperto di psicosi, che pochi mesi fa, in occasione del II° Roman Workshop on Experimental Psychopathology, ha esaminato in modo critico la letteratura su cause genetiche ed ambientali della schizofrenia, dimostrando l’importanza cruciale delle esperienze negative sociali ed interpersonali e le carenze delle tesi genetiche della schizofrenia. (La video registrazione della main relation è disponibile nel sito www.apc.it nella sezione Cognitivvù. Nello stesso sito, nel blog, sono disponibili i commenti di Elena Bilotta e di Maurizio Brasini).

Prendendo spunto dall’articolo di Friedman, vorrei ora sollevare alcune questioni teoriche riguardanti la tesi “The diseases that we treat are diseases of the brain”. Le obiezioni a questa tesi, come quelle di Friedman e di Bentall, di solito sono risolte facendo appello al modello biopsicosociale: cause biologiche, psicologiche e sociali interagirebbero nel determinare i disturbi psicopatologici. Non trovo del tutto convincente questa soluzione, pur non potendole negare alcuni meriti diplomatici. Non la trovo del tutto convincente per diverse ragioni. Innanzitutto è banale perché può valere per qualunque fenomeno: anche la tubercolosi è multifattoriale. Per sviluppare la malattia, infatti, serve il bacillo di Koch, un calo delle difese immunitarie, magari facilitato da cause psicologiche, un ambiente sociale degradato, cioè promiscuo e insalubre, ed entra in gioco un fattore genetico: ad esempio, i longilinei sono più a rischio di tubercolosi perché ventilano di meno gli apici polmonari facilitando la permanenza del bacillo di Koch, ed essere longilinei è geneticamente determinato. In secondo luogo, a differenza di quanto accade per la tubercolosi, il modello biopsicosociale, applicato alla psicopatologia, non mette in chiaro i modi dell’interazione fra variabili biologiche, psicologiche e sociali, perché è prevalentemente fondato su correlazioni fra variabili che non consentono di definire la direzione e la qualità dei nessi fra le variabili. Il modello biopsicosociale, poiché privilegia la ricerca basata su correlazioni, non è in grado di differenziare tra cause necessarie e/o sufficienti e semplici fattori di vulnerabilità, e, quindi, può consentire tutt’al più previsioni probabilistiche ma non spiegazioni.

Tuttavia il vero limite della tesi “The diseases that we treat are diseases of the brain” è che si presta ad alcuni equivoci. Due, in particolare, connessi fra loro ma ben distinti. Il primo equivoco riguarda non solo la psichiatria ma anche le neuroscienze nel loro complesso e nasce dall’idea, del tutto condivisibile, che mente e cervello siano la stessa cosa e che parlare di mente e cervello significhi utilizzare due piani di descrizione diversi. Il primo equivoco sorge se si ritiene che assumere la riducibilità della mente al cervello implichi l’inutilità delle descrizioni e delle spiegazioni mentali. Cioè l’idea che la ricerca sul cervello renderà superflua la psicologia. Assumere una posizione materialista, cioè che mente e cervello siano la stessa cosa, non implica assumere che la ricerca sul cervello renderà ragione dei fenomeni mentali soppiantando le spiegazioni psicologiche, che si riveleranno superflue.

Sulla presunzione che le descrizioni mentali siano inutili ci sono, infatti, delle perplessità. La crosta terrestre è indiscutibilmente composta di atomi e, dunque, ogni cambiamento della crosta terrestre è riducibile a un cambiamento dei suoi atomi, la cui dinamica è conoscibile e prevedibile grazie alle leggi della fisica atomica. Ma se il problema è prevedere i terremoti, forse il piano di descrizione della fisica atomica non è il più adatto. Tentare di descrivere, spiegare e prevedere i movimenti della crosta terrestre ricorrendo alle sole leggi della fisica atomica, appare un’impresa a dir poco assai complicata ma soprattutto con il rischio di lasciarsi sfuggire fenomeni che si svolgono ad un livello assai più macroscopico, ad esempio il tempo necessario perché due parti della crosta terrestre arrivino a toccarsi.

Siamo sicuri che la conoscenza del cervello sia il piano ottimale per spiegare, ad esempio, come gli esseri umani traggono inferenze, come calcolano le probabilità di un evento, le condizioni alle quali cambiano opinione, provano vergogna, costruiscono o rompono relazioni? Un’accurata indagine psicologica, ad esempio, può consentire di prevedere e spiegare le specifiche circostanze in cui una persona proverà vergogna e quelle, apparentemente simili, in cui non proverà vergogna. Una indagine neurale può arrivare a tanto? Difficile da credere. Ma ammesso che lo sia, sarebbe vantaggioso o non sarebbe più utile il linguaggio mentalistico?

La questione a mio avviso va ribaltata. La conoscenza del cervello, finalizzata alla spiegazione della mente, dovrebbe essere guidata dalle conoscenze psicologiche. Se non si tiene conto di quanto la ricerca psicologica ci ha fatto capire delle relazioni fra emozioni e processi cognitivi, che senso potremmo dare alle scoperte sulla interazione fra amigdala, corteccia prefrontale e ippocampo?
Certamente la conoscenza del cervello è utile per mettere alla prova ipotesi psicologiche. Ad esempio, si tende a dare per scontato che il senso di colpa sia una emozione unitaria, in realtà la ricerca sul cervello suggerisce la opportunità di distinguere almeno due sensi di colpa, e ci mostra anche che uno dei due è strettamente connesso al disgusto. Ma senza una adeguata analisi psicologica del senso di colpa, che significato potremmo dare ai risultati delle neuroscienze?

Connesso col precedente, ma distinto da esso, è il problema della natura neurologica o psicologica dei disturbi mentali. Ovviamente il problema è empirico, tuttavia alcuni equivoci inquinano l’interpretazione dei risultati della ricerca. Esistono malattie psichiatriche che sono malattie del cervello, l’esempio più chiaro è la paralisi progressiva. Si tratta di una grave forma di lesione del cervello causata dal treponema della sifilide che si manifesta, tra l’altro, con alterazioni dell’umore e con deliri, a volte di grandezza. La sintomatologia è prevalentemente psichiatrica e la causa è esclusivamente neurologica, in particolare infettiva.

Consideriamo un caso diverso. È ben noto che l’incidenza di psicopatologia nelle persone con ritardo mentale sia più elevata che di norma. Difficile mettere in discussione che alla base del ritardo mentale vi sia un danno del cervello causato da noxae infettive, metaboliche, traumatiche o genetiche. È altrettanto evidente che gli esiti cognitivi di questi danni interagiscono con variabili psicologiche, ad esempio con una maggiore difficoltà a regolare le emozioni, e con variabili sociali, ad es. l’emarginazione, che a sua volta interagisce con variabili psicologiche come l’autostima, producendo sintomi psichiatrici. Anche in questo caso esiste un danno neurologico, ma la lesione cerebrale e le sue conseguenze cognitive sono un fattore di vulnerabilità psicopatologica e non la causa necessaria e sufficiente, come invece accade nella paralisi progressiva.

Il cervello delle persone con paralisi progressiva e con ritardo mentale è diverso da quello di altre persone senza sintomi psichiatrici.
Anche il cervello dei pianisti professionisti è diverso da quello di altre persone ma non nello stesso senso dei due casi precedenti, nei quali i neuroni sono patologici cioè anomali rispetto alle leggi della anatomia e della fisiologia. Nel caso della paralisi progressiva e nel ritardo mentale i neuroni sono lesionati, anche se lo sono in modi diversi e per ragioni diverse. Nel caso dei pianisti, i neuroni sono diversi da quelli dei non pianisti ma non sono lesionati piuttosto sono ben funzionanti rispetto alle leggi della neuroanatomia e della neurofisiologia.

Analogamente, possiamo supporre che un appassionato ed esperto di calcio abbia una struttura e un funzionamento cerebrale diverso da una persona del tutto disinteressata al calcio. Anche in questo caso possiamo parlare di diversità ma non possiamo dire che il cervello del tifoso sia anomalo rispetto alle leggi biologiche che definiscono un cervello sano e lo differenziano da uno patologico.
È evidente che non basta osservare una diversità per parlare di neuropatologia.

Consideriamo, ora, il caso di una persona che è mossa da una passione che non è per la musica o per una squadra di calcio ma è per la pulizia ed è esperta non di pianoforti e nemmeno di schemi di gioco ma di prevenzione e neutralizzazione di contaminazioni.
Osserviamo che il suo cervello è diverso da quello di altre persone. Supponiamo ora che uno psichiatra ci dica che è affetto da Disturbo Ossessivo Compulsivo, cioè da una psicopatologia.
Questa diagnosi sarebbe sufficiente per affermare che la diversità osservata sia analoga a quella del paziente affetto da paralisi progressiva o da ritardo mentale? No, a meno di non osservare condizioni anatomo funzionali che siano anomale rispetto alle leggi biologiche, quelle che discriminano un sistema nervoso sano da uno patologico, ad esempio lesioni degenerative, esiti di traumi, segni di infezione o di reazioni autoimmunitarie.
Intendo dire che non è legittimo inferire una neuropatologia solo perché si osserva una diversità, anche se la diversità osservata nel cervello corrisponde a una psicopatologia.

Se non si ammette questo vincolo, si rischia un paradosso. Vediamolo. Possiamo presumere, per i nostri fini attuali, che il cervello di una persona omosessuale sia diverso da quello di un eterosessuale. Nessuno, oggigiorno, direbbe che l’omosessualità sia una forma di psicopatologia, dunque la diversità osservata appare analoga a quella riscontrata nei pianisti: diversi interessi, diversi modi di essere che corrispondono a diversi cervelli.
Ora supponiamo di tornare indietro nel tempo, a sessant’ anni fa. L’omosessualità era considerata una forma di psicopatologia. Questo avrebbe implicato che la diversità del cervello degli omosessuali fosse analoga a quella del paziente affetto da paralisi progressiva?
Cioè, può una diversità cerebrale essere neuropatologica o cessare di esserlo, soltanto come conseguenza di decisioni convenzionali su cosa è o non è psicopatologico?
In conclusione, sembra che l‘affermazione dell’editoriale di JAMA “The diseases that we treat are diseases of the brain” sia molto spesso frutto di un equivoco che non è sciolto dall’approccio biopsicosociale il quale, al contrario, lo nasconde.

Francesco Mancini,
Medico, specialista in Neuropsichiatria Infantile
Scuola di Psicoterapia Cognitiva, SPC srl, Roma
Università Guglielmo Marconi, Roma

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Francesco Mancini
Francesco Mancini

Medico chirurgo, Specialista in Neuropsichiatria Infantile e Psicoterapeuta Cognitivista

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