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Gli occhi sono veramente lo specchio dell’anima?

Alcuni autori hanno dimostrato come lo sguardo dell'altro sia alla base dell'empatia e del rispecchiamento e favorisca buone relazioni

Di Jacopo De Angelis

Pubblicato il 10 Set. 2015

Aggiornato il 05 Lug. 2019 12:24

Gli occhi sono veramente lo specchio dell’anima? Che risposte hanno dato la psicoanalisi e la psicologia empirica durante il secolo scorso?

Nel romanzo di formazione di Charlotte Brontë “Jane Eyre” appare la seguente citazione: [blockquote style=”1″]The soul, fortunately, has an interpreter – often an unconscious but still a faithful interpreter – in the eye[/blockquote] (Brontë, 1847, p. 267).

Tale affermazione racchiude e anticipa alcuni dei temi fondamentali della psicoanalisi freudiana e della psicologia sperimentale, sebbene provenga da un romanzo redatto in un periodo antecedente alla nascita delle due discipline, ossia sottolinea come lo sguardo abbia una connotazione essenziale per la comprensione delle emozioni, delle angosce e degli stati dell’Altro. In realtà l’importanza dello sguardo e dell’espressività è inscritta nella storia dell’uomo fin dai suoi albori, come testimoniano le più antiche opere d’arte e letterarie, a partire dall’Antica Grecia fino ad arrivare alle forme più “recenti” di Romanticismo ed Espressionismo.

Ma gli occhi sono veramente lo specchio dell’anima? Che risposte hanno dato la psicoanalisi e la psicologia empirica durante il secolo scorso?

La psicoanalisi freudiana e post-freudiana, sebbene fortemente divisa su alcune tematiche, ha da sempre mostrato una linea di pensiero unica e condivisa per quanto concerne l’importanza dello sguardo nello sviluppo della mente, dell’empatia e, in generale, delle relazioni sociali e affettive tra gli esseri umani. Lo psicoanalista Jacques Lacan (Recalcati, 2015) sottolineava, in particolare, come lo sguardo dell’Altro non sia solamente un elemento centrale per sintonizzarsi affettivamente col mondo interiore di un’altra persona, bensì anche un elemento costitutivo per la nostra stessa esistenza e per l’immagine che sviluppiamo di noi stessi, che si fonda su un rispecchiamento nell’altro, parafrasando Fonagy, ossia nella capacità di costituire noi stessi a partire dall’immagine che osserviamo nell’Altro di noi.

Questo concetto è in linea con la teorizzazione di Martin Heidegger, il quale sottolinea come il presupposto ontologico dell’empatia sia nella possibilità di incontrare un altro che sia costitutivo della nostra essenza, ossia: [blockquote style=”1″]L’esserci in quanto siffatto essere-nel-mondo è contemporaneamente un essere-l’uno-con-l’altro, un essere con altri […] un incontrarsi l’un l’altro, un essere l’uno con l’altro nel modo d’essere-l’uno-con-l’altro[/blockquote] (Heidegger, 2008, p. 32).

Si può comprendere come la dimensione espressiva degli occhi e dello sguardo umano non sia solo centrale per la capacità di entrare in contatto col vissuto dell’Altro, quindi di empatizzare, ma anche per la capacità di guardare dentro al proprio mondo, alla propria essenza, arrivando a giungere il “K bioniano” che abita in noi. Queste considerazioni vanno a legittimare, dunque, un altro proverbio molto famoso che sostiene come la conoscenza degli altri passi necessariamente da una forte capacità introspettiva verso noi stessi. Queste considerazioni di carattere psicoanalitico e filosofico trovano un riscontro evidente nella psicopatologia. Si pensi, ad esempio, a quelle patologie che potremmo definire “patologie della cognizione sociale”, ovvero patologie dove il mondo dell’Altro diventa incomprensibile, alieno e impossibile da accedere, ma soprattutto patologie dove il proprio mondo interiore tende ad alienarsi.

Il caso principale e più conosciuto è sicuramente quello dell’Autismo, dove il soggetto vive in una condizione di totale distacco dal mondo degli altri, in cui la realtà emotiva, propria e altrui, viene mortificata a favore dei dettagli (comportamento espresso nelle classiche stereotipie e nelle cosiddette abilità savant, come il calcolo del calendario), come descritto nella cosiddetta teoria della coerenza centrale debole (Happé & Frith, 2006) e nella teoria del cervello sistematizzatore (Baron-Cohen, 2005). Attorno ai numeri, alle ripetizioni e alle sistematizzazioni si creano le basi di un muro che separa il soggetto autistico dalla dimensione emotiva. L’espressione fenotipica di questa dinamica è stata osservata in alcuni esperimenti che hanno utilizzato la tecnica dell’ Eye-Tracker, ossia una tecnica che, attraverso un’ analisi dei movimenti oculari, riesce a indicare dove il soggetto sta maggiormente tenendo il proprio focus attentivo.

Lo studio del gruppo di Michael Spezio (2007) ha messo in rilievo come i soggetti autistici tendano a non osservare dettagli socio-emotivi cruciali nei volti come la bocca e, in particolare, gli occhi, rispetto al gruppo di controllo. La chiusura verso l’Altro, dunque, passa innanzitutto da una “naturale” mancanza di attenzione verso quello che l’Altro prova e può sentire in un dato istante.

Altri dati empirici su altri gruppi di pazienti hanno messo in evidenza gli aspetti sottolineati dal gruppo di Lo Spezio. Ad esempio, l’equipe di Mark Dadds (2006) ha mostrato come bambini con forti tratti psicopatici (ossia bambini che, con ogni probabilità, svilupperanno psicopatia da adulti) palesino forti difficoltà a mantenere l’eye contact con visi umani, determinando una gravissima difficoltà di sintonizzazione e riconoscimento delle emozioni negli altri esseri umani. Il deficit di sintonizzazione e riconoscimento dell’espressione facciale non sarebbe, quindi, di per sé un difetto nella rappresentazione semantica di questi stati, bensì, come sottolinea anche Adolphs (2010), un deficit nella capacità primordiale di porre automaticamente l’attenzione su social cues (e.g. occhi). Tale dato risulta avvalorato dal fatto che i bambini dell’esperimento di Dadds, così come la paziente con lesione all’amigdala (regione cruciale per quest’abilità) S.M., riuscissero ad individuare e sintonizzarsi con l’emozione che l’Altro stava esperendo, se richiesto loro di focalizzarsi esplicitamente sui loro occhi.

Questi dati supportano le considerazioni psicoanalitiche e filosofiche di Lacan e Heidegger. La vuotezza emotiva ed empatica dei soggetti psicopatici si esprime in un danno strutturale nell’esser-ci nel mondo dell’Altro e/o rispecchiarsi nel mondo dipinto negli occhi dell’Altro. Ed ecco come la psicologia empirica sottolinea il carattere fortemente evolutivo di questo danno che non ha solo delle radici genetiche, che comunque esistono come egregiamente descritto nel libro di Simon Baron-Cohen “La Scienza del Male” (2012), bensì arcaiche, evolutesi durante le primissime interazioni col “primo Altro”: la madre.

Il famoso esperimento della “Still Face” di Edward Tronick (1978) o lo studio sulla Depressione Anaclitica di Spitz e Wolf (1946) mostrano egregiamente come in presenza di un Altro emotivamente assente, attraverso la sua assenza fisica o la sua assenza emotiva (sguardo spento, “morto”, non comunicativo), la vita del bambino tenda a precipitare nel vuoto, nello sconforto fino ad arrivare, come nel caso degli studi di Spitz, alla morte biologica. Inoltre, sempre Mark Dadds e il suo gruppo (2012) hanno messo in rilievo come i bambini con tratti psicopatici mostrino, fin dai primissimi anni di vita, un’incapacità nel condividere il proprio sguardo con un’altra persona anche nell’ambito dell’interazione primaria con la loro madre.

In uno studio, in fase di pubblicazione, condotto nell’ambito di un progetto per la mia tesi di laurea con la professoressa Fulvia Castelli (De Angelis & Castelli, 2015), si è cercato di dare un senso a tutte le considerazioni fin qui fatte, attingendo alle fonti qui citate e ad altri studi presenti nella letteratura. Si è considerata l’abilità di Emotional Attention (Vuilleumier, 2005), ossia l’abilità di porre l’attenzione su dettagli rilevanti da un punto di vista socio-emotivo, come precursore principale dell’empatia.

Dunque, è stata ipotizzata l’esistenza di due stili cognitivi, uno stile emotigeno “hot”, maggiormente focalizzato su dettagli socio-emotivi, e uno stile analitico “cold”, maggiormente focalizzato su dettagli poco emotigeni e fortemente analitici. In un paradigma ispirato a quello di Tania Singer e collaboratori (2004), in cui i soggetti prendevano visione di un filmato di un loro parente e/o amico in una situazione di dolore, le persone che adottavano uno stile cognitivo “hot” risultavano significativamente più empatiche con il/la loro caro/a dei “cold”. Questo risultato ha posto non solo un mattoncino importante all’impianto teorico dei lacaniani e degli “heideggeriani”, ma ha anche rappresentato un supporto alle teorie, prima citate, sugli effetti negativi di uno stile cognitivo sistematizzatore e orientato ai dettagli sui livelli di empatia degli esseri umani.
In conclusione, le considerazioni riportate in questo articolo mettono in evidenza come effettivamente gli occhi siano lo specchio dell’animo umano.

Una vita “senza sguardi” è una vita “cold”, una vita dove l’incontro con l’Altro è precluso e, quindi, precludendo l’incontro con l’Altro si va a precludere l’incontro con il Me-rispecchiato nello sguardo dell’Altro che mi costituisce. Oramai è evidente come le psicopatie e l’autismo stiano aumentando a dismisura a causa di un mondo, fondato sull’oggettificazione dell’Altro come oggetto di godimento feticistico e assoluto, dunque fondato sulla mercificazione degli esseri umani tipica del modello capitalistico attuale.

Nel nostro tempo, e non solo nella psicopatologia, è importante che la psicologia clinica e la psichiatria rioffrano al soggetto la possibilità di tornare “a guardare gli occhi dell’Altro”, sia da un punto di vista riabilitativo che relazionale. Esistono già dei nuovi trattamenti per la psicopatia in via di sperimentazione (Baskin-Sommers et al., 2014) che lavorano sulla possibilità di modificare il deficit empatico strutturale grazie a un lavoro sui bias attentivi suddetti, restituendo la possibilità a questi soggetti di “rivedere” il mondo emotivo attorno a loro, “smuovendosi” dal loro stile cognitivo cold.

Questo passaggio non può prescindere però dall’incontro con un Altro, da una relazione fatta non solo di vista e di sguardi, ma anche di suoni e odori (la vista non è l’unico canale di veicolazione emotiva!), in modo che le vite, a trecentosessanta gradi, riacquisiscano il senso perduto. Per farlo bisogna imparare a specchiar-si negli occhi, perché gli occhi lo sono: sono lo specchio dell’anima.

 

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Note sull’autore

Jacopo De Angelis è Dottore in Psicologia presso l’Università degli Studi di Pavia (Psicologia Sperimentale e Neuroscienze Cognitive). Attualmente è in procinto di avviare un progetto di ricerca, nell’ambito del suo programma di tirocinio, con l’Università Bicocca (MI) sulle tematiche inerenti l’empatia.
Per contattarlo scrivere al seguente indirizzo: [email protected]

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