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Gioco d’azzardo tra cognizioni, emozioni e pseudo strategie: una sfida alla razionalità

Per molti giocatori patologici il gioco potrebbe essere una strategia di coping disfunzionale per fronteggiare stati emotivi negativi - Psicologia

Di Andrea Ferrari

Pubblicato il 15 Set. 2015

Per molti giocatori patologici, il gioco potrebbe essere una strategia di coping disfunzionale per fronteggiare stati emotivi negativi, o all’opposto, una modalità per ricercare stati emotivi desiderati.

[blockquote style=”1″]…io ripresi a puntare, a casaccio e senza fare i calcoli. Non capisco che cosa mi abbia salvato! A volte, però, cominciava ad affiorare nel mio cervello un calcolo. Mi sentivo legato a certe cifre e a certe combinazioni, ma ben presto le abbandonavo e riprendevo a puntare quasi inconsapevolmente. Dovevo essere molto distratto tanto che i croupiers parecchie volte dovettero correggere il mio gioco. Facevo degli sbagli grossolani. Avevo le tempie madide di sudore e le mani che tremavano.[/blockquote]
Fëdor Michajlovič Dostoevskij, Il giocatore

L’idea che la razionalità possa aiutare l’uomo a risolvere i propri problemi è antica almeno quanto la civiltà greca: è con la geometria euclidea che si formalizza la “ragione” come modalità attraverso cui risolvere problemi, partendo da premesse e inferendo delle conclusioni. Con il trascorrere dei secoli, grandi scienzati e pensatori si sono occupati a lungo di definire le modalità più adatte per affrontare i grandi temi dell’umanità, impiegando strategie “razionali” basate per lo più sull’aderenza al metodo scientifico, arrivando a riconoscerlo come la modalità elettiva per qualunque processo decisionale. Anche la psicologia non si è sottratta a queste ambizioni: chi l’ha studiata sui manuali, sicuramente ricorda eminenti psicologi teorizzare l’uomo come un “piccolo scienziato”, o un “elaboratore di informazioni”, tanto per fare un esempio… Di converso, la sofferenza psicologica doveva necessariamente avere a che fare con l’irrazionalità o con errori, talvolta clamorosi, di ragionamento, la cui cura doveva per forza passare con la correzione di questi errori.

Il guaio è che l’essere umano, apparentemente, tanto razionale non è! Sapendo che scateniamo code in autostrada generate dalla curiosità, che preferiamo curare malattie, anche gravi, consultando l’omeopata piuttosto che il medico, la sistematicità con cui ci affidiamo a politici imbecilli che si definiscono machiavellici, la tentazione è di definire l’homo sapiens (o almeno l’homo italicus) come irrimediabilmente cretino (per una rassegna completa, leggi Fruttero & Lucentini, 1985).

Fortunatamente, teorizzazioni psicologiche più recenti ci vengono in aiuto, portando a concettualizzazioni più elastiche delle modalità con cui gli uomini risolvono problemi e interpretano la realtà. Tra queste, (Kahneman et al, 1982; Kahneman & Tversky, 1979), affermano che il ragionamento umano non segue tanto le regole della matematica e della probabilità, bensì fa ampio impiego di euristiche, scorciatoie di pensiero e modalità rapide e intuitive che esulano dal ragionamento logico. Ciò che può rendere questi stili di pensiero disfunzionali non è quindi la loro presenza, ma la loro rigidità e inflessibilità, specialmente se ci conduce ad interpretare gli eventi e noi stessi in chiave poco lusinghiera.

Mi scuso con il lettore per quest’ampia, seppur parziale introduzione, sperando di non averlo annoiato, tuttavia era necessaria per poter parlare di un tema che mi sta a cuore, e che viene spesso collocato nella macro-categoria dei comportamenti “cretini”: il gioco d’azzardo.
Ad oggi, numerose ricerche hanno evidenziato che nel giocare d’azzardo, le decisioni razionali vengono spesso accantonate, anche quando a giocare non sono soggetti con problematiche di dipendenza da gioco.

Generalmente, l’impiego di strategie disfunzionali da parte dei giocatori viene interpretato come esito di distorsioni cognitive, e costituiscono un punto focale nel trattamento del gioco d’azzardo patologico. Queste modalità di ragionamento, come ad esempio la nota euristica della rappresentatività (Tversky & Kahneman, 1973, 1974) conducono a generare credenze e azioni che finiscono con il rinforzare un comportamento di gioco problematico, ostacolandone il controllo. Rispetto al gioco d’azzardo sono state descritte diverse forme di distorsioni cognitive; nel tentativo di fare chiarezza, uno studio recente (Ejova et al., 2015) ne propone una classificazione più semplice e più puntuale.

Gli autori hanno realizzato un questionario di 100 item basato su strumenti esistenti, riguardanti credenze e modalità di ragionamento distorte, e lo hanno somministrato a 329 partecipanti. L’analisi fattoriale ha rilevato che le credenze sul gioco fanno capo a due tipologie, definibili come:
– Illusione di controllo primaria: si tenta di influenzare l’esito del gioco mediante modalità di ragionamento attivo e comportamenti pseudo-strategici;
– Illusione di controllo secondaria: si cerca di influenzare l’esito del gioco adottando mediante condotte superstiziose, appellandosi a forze al di fuori dal proprio controllo quali la fortuna o la religione.

Del primo gruppo fanno parte diverse credenze da tempo descritte (Fortune and Goodie 2012; Griffiths 1994; Toneatto 1999; Toneatto et al. 1997), che troverebbero nella Fallacia del giocatore il minimo comune denominatore, ovvero, nella credenza per cui eventi avvenuti in passato possano influenzare gli esiti di attività dettate dal caso, come per l’appunto il gioco d’azzardo. Questa credenza si traduce in azioni di gioco: un esempio tipico è quello di una partita a “Testa o croce”, in cui per 5 volte la moneta si è appoggiata sul lato della testa. Una persona che utilizza questo stile di ragionamento tenderà a scommettere su croce, convinto che a questo punto, l’esito del gioco debba per forza variare. Un altro esempio è la scommessa sui cosiddetti “numeri ritardatari” del Lotto, la cui probabilità di uscita non dipende assolutamente dal fatto che non amino la puntualità.

Ci sono altri modi in cui questo stile di pensiero conduce a comportamenti disfunzionali, ad esempio favorendo la persistenza nel gioco a dispetto dei risultati, che è stato descritto come chasing (Lesieur, 1977), ovvero la cosiddetta “rincorsa delle perdite”. Il giocatore continua tenacemente a scommettere nonostante abbia già subito intense perdite, nella speranza di arrivare alla vincita riparatoria. Tra il chasing e la fallacia del giocatore non sembrerebbero esserci differenze logiche di fondo, ma il primo rappresenta una modalità di pensiero più rigida e prettamente disfunzionale, tipica di chi ha sviluppato problemi nel controllare il proprio gioco.

Tra le illusioni di controllo secondarie gli autori inseriscono tutte le credenze riguardanti il ruolo della fortuna e di agenti soprannaturali, aventi caratteristiche di onniscienza e di onnipotenza. Ad esempio è tipico invocare il ruolo della fortuna, o di forze divine, quando si è scampati da un evento negativo (es. un incidente), fino a sviluppare la credenza nella fortuna come qualità personale (Wohl and Enzle 2009).
I giocatori adottano spesso comportamenti superstiziosi: giocano il numero fortunato, consultano il libro dei sogni, soffiano sui dadi e non esitano a consultare maghi e cartomanti nella speranza di avere una chance in più.

Può esserci infine in una disposizione più generale a credere che la fortuna abbia per sua natura caratteristiche di ciclicità. Quest’ultima credenza svolge un ruolo di “ponte” tra le due categorie di illusione di controllo: da una parte c’è la credenza nella fortuna come agente sovrannaturale in grado di cambiare ciclicamente le sue intenzioni, dall’ altra vi è la credenza che una serie di eventi negativi possa terminare nel breve termine, portando a pianificare la scommessa.

E’ evidente che l’individuazione di queste credenze rappresenta uno dei target principali nelle prime fasi del trattamento del gioco d’azzardo patologico, in cui il gioco potrebbe non essere stato ancora interrotto, o lo è solo da poco tempo, e queste credenze risultano particolarmente attive (Fortune & Goodie, 2012). È necessario individuare quali e quante di queste credenze fanno parte del bagaglio psicologico del giocatore, ed invitarlo ad analizzarle da una prospettiva più distaccata, appellandosi inevitabilmente alla logica e all’analisi delle conseguenze.

Abbiamo descritto l’impatto dei processi di pensiero sul giocare d’azzardo, e di come questo sia pervaso da una predisposizione generale all’irrazionalità, che non risparmia anche i giocatori più “prudenti”. Siamo tutti un po’ irrazionali di fronte al gioco, così come nella vita ci lasciamo guidare più dall’intuito che dal ragionamento, perlomeno quando non sviluppiamo credenze ossessive.

A complicare le cose, i processi decisionali nel gioco potrebbero essere fortemente condizionati dallo stato emotivo, e quest’ultimo potrebbe a sua volta essere influenzato dagli esiti del gioco. Inoltre, la capacità di prevedere quanto le emozioni possano influenzare le nostre scelte sembrerebbe essere scarsa, non solo nei giocatori, ma spesso anche nelle condotte più quotidiane.

Un esempio di come fatichiamo a predire quanto le emozioni influenzino le decisioni è rappresentato dal hot-cold empathy gap (Loewenstein, 1996): quando ci troviamo in uno stato emotivo “freddo” (o neutrale), tendiamo a sottostimare l’impatto di uno stato emotivo “caldo” (o intenso) sul nostro comportamento. Inoltre, se il nostro stato emotivo ha una valenza negativa, come quando ci sentiamo deprivati di una risorsa che ha una certa importanza per noi, con il nostro comportamento tenderemo a reagire per compensare questi sentimenti negativi e ripristinare una sorta di omeostasi emotiva.

Questa reazione può tuttavia risultare in una sovracompensazione non sempre adattiva. Ad esempio, molte persone quando sono affamate finiscono con il procurarsi più cibo del necessario, rispetto a quanto avevano pianificato (Gilbert et al., 2002); allo stesso modo, chi fa uso di sostanze tende a sottostimare l’impatto del craving (Badger et al., 2007). Questo potrebbe spiegare perché molte persone giurano a se stesse (magari decine di volte) di avere in bocca l’ultima sigaretta, e si ritrovano dopo alcuni giorni a fumare più di prima.

Alla luce di queste considerazioni, è evidente che un processo analogo potrebbe riguardare il gioco d’azzardo: vincere o perdere al gioco, è un’esperienza emotiva tutt’altro che neutra. Uno studio recente (Andrade et al., 2014) ha cercato di descrivere il modo in cui le esperienze emotive possono influenzare le decisioni sul gioco. Gli esperimenti condotti consistevano in una sessione di gioco simulata, di soli due round, il primo obbligatorio e il secondo facoltativo. Ai partecipanti veniva consegnato un credito per giocare, di tipo monetario o non-monetario (punti per gli esami), sufficiente per scommettere nei due round. Veniva quindi chiesto loro di pianificare la loro intenzione a scommettere dichiarando se intenzionati a proseguire nel secondo round, sulla base di una vincita o di una perdita. I risultati indicano una contraddizione tra la pianificazione dei partecipanti allo studio e il loro comportamento effettivo: i partecipanti dichiarano di scommettere meno in seguito a una perdita rispetto a quanto si è effettivamente verificato, mentre non si rilevano differenze significative per le vincite. Questo dato si potrebbe interpretare secondo l’ipotesi del gap empatico (Loewenstein, 1996): mentre a “mente fredda”, si è più portati a scegliere una strategia di tipo “conservativo” per fronteggiare la perdita, le emozioni che questa provoca spingono i partecipanti a compensare lo stato emozionale negativo, cercando la vincita riparatoria.

Questi dati potrebbero inoltre spiegare come mai i giocatori patologici persistono nelle scommesse nonostante le perdite ingenti e, nonostante le riflessioni dettate dalla razionalità suggeriscano il contrario. Il cosiddetto chasing (Lesieur, 1977), o rincorsa delle perdite, non è solo uno stile di pensiero, è un agire dettato dalla disperazione. Perdere molti soldi crea un’esperienza emotiva intensa e fortemente spiacevole, va da sé che il giocatore tenterà di compensare questo stato negativo con l’unico mezzo che conosce: continuare a scommettere.

Lo stato emotivo esercita quindi un’influenza sulle decisioni individuali. Fortunatamente, gli autori osservano che questi effetti possono essere mitigati in due modi:
– istruendo i partecipanti a tenere conto dell’impatto delle emozioni sulle loro scelte;
– incrementando il tempo di attesa tra una scommessa e l’altra.

Mentre il primo punto potrebbe suggerire l’utilità di interventi psicoeducativi per mitigare l’impatto emotivo sulle decisioni, sul secondo punto si tira in ballo un fattore che riguarda le caratteristiche strutturali del gioco, sul quale l’industria del gioco fa leva per incrementare i profitti. La velocità del gioco è spesso il fattore che ne determina la maggiore pericolosità: per esempio, nelle slot-machine la durata di una scommessa non supera i 5 secondi, e una nuova scommessa può essere avviata in modo pressoché istantaneo. Ne consegue che non c’è spazio per riflettere, o anche solo per pensare, il gioco assorbe completamente la mente del giocatore. Non a caso, tra i giocatori di slot-machine si registrano livelli di dissociazione più alti rispetto a popolazioni non cliniche (Stewart & Wohl, 2013). Infine, altre ricerche evidenziano una relazione tra stati emotivi, sia positivi (orgoglio), sia negativi (spavento) e frequenza di gioco problematico, che risulta inoltre associato a un maggiore utilizzo della soppressione espressiva come strategia di regolazione emotiva (Canale et al., 2012; Canale et al., 2013).

Questi dati potrebbero suggerire che, per molti giocatori patologici, il gioco potrebbe essere una strategia di coping disfunzionale per fronteggiare stati emotivi negativi, o all’opposto, una modalità per ricercare stati emotivi desiderati. Secondo studi condotti in accordo al modello metacognitivo di Wells (2012), il gioco sarebbe accompagnato da credenze metacognitive, e si configura come una modalità di auto-regolazione dei propri stati interni, emotivi e cognitivi (Spada et al., 2014; Fernie et al., 2014).

Concludendo, il gioco d’azzardo permea la nostra cultura da millenni, sfidando chi vorrebbe nella ragione e nella razionalità gli strumenti necessari per garantire lo sviluppo culturale dell’umanità. Il gioco d’azzardo è calcolo e superstizione, è sudore, mancanza di sonno e appetito, è paura e delirio, è eccitazione, rabbia, gioia o dissociazione. Ma soprattutto è un’attività profondamente e peculiarmente umana, che praticamente tutti abbiamo provato, e in cui abbiamo messo temporaneamente da parte il nostro lato più razionale, abbandonandoci a modalità più istintive ed autentiche, ma che possono rivelarsi molto pericolose. Analizzando il modo in cui giochiamo d’azzardo, possiamo forse rappresentare il nostro pensare ed agire quotidiano in modo molto più realistico di molte teorizzazioni del passato. Siamo ineluttabilmente irrazionali nel pensiero, ed agiamo sulla spinta delle nostre emozioni molto più spesso di quanto vorremmo credere. Ma nonostante questo, non siamo necessariamente cretini: siamo solo più complessi di quanto immaginiamo (o teorizziamo), e magari proprio in virtù della nostra irrazionalità funzioniamo meglio di quanto l’epidemiologia psichiatrica ci induce a credere.

 

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Andrea Ferrari
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Psicologo Psicoterapeuta cognitivo-comportamentale

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