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L’enigma del lutto: dagli oggetti perduti ai nuovi oggetti d’amore

Freud ha chiarito la distinzione tra il normale affetto del lutto e la condizione patologica e ha descritto le fasi del lutto conseguente una perdita. %%page%%

Di Angela Niro

Pubblicato il 04 Set. 2015

Aggiornato il 14 Mar. 2016 10:31

 

 

L’intenso lavoro psicoanalitico eseguito da Freud per chiarire la distinzione tra il normale affetto del lutto e la sua condizione patologica l’ha condotto a fornire una descrizione del lutto come risposta alla scomparsa di un affetto o al venir meno di ciò che ha rappresentato un ideale e che possiede la peculiarità di poter andare incontro a risoluzione nel tempo.

[blockquote style=”1″]La vita dalla nascita alla morte è costituita da un susseguirsi di perdite. Ripercorrendo la propria biografia e analizzando il proprio vissuto […] ci si rende conto degli eventi critici, delle sconfitte e dei fallimenti, delle ferite e dei cordogli che hanno segnato la propria esistenza [/blockquote] (Pangrazzi, 2006, p. 21 ).

La perdita è indubbiamente uno dei temi che con maggiore frequenza è stato oggetto di studi e riflessioni psicologiche, che hanno messo in risalto la condizione di maturazione interiore conseguente a un’esperienza di dolore profondamente vissuto ed elaborato. È innegabile la paura che da essa scaturisce e che rappresenta una delle paure più stabili negli esseri umani alla quale si risponde con rituali che hanno radici assai antiche.
Il padre della psicoanalisi Sigmund Freud, fa notare che l’uomo sin dall’epoca preistorica ha sviluppato un rapporto contraddittorio con la morte, accettandola come conclusione dell’esistenza, quando questa coinvolgeva la vita altrui, si pensi a un nemico da eliminare e allo stesso tempo negandola, quando riguardava la propria di vita. Questi due atteggiamenti configgenti si manifestavano in tutta la loro incoerenza in occasione della perdita di una persona amata, poiché questa e altre possibili future rappresentavano la perdita di una parte del proprio Io.

Non diversamente dall’uomo primitivo, il nostro inconscio non riuscendo a rappresentare la propria morte matura la convinzione di essere immortale e allo stesso tempo nasconde il desiderio di eliminare tutti coloro ostacolano il suo cammino, portando alla luce atteggiamenti ambigui nei confronti delle persone amate, che sono anche in parte persone estranee.
[blockquote style=”1″]Il lutto per la perdita di ciò che abbiamo amato o ammirato appare al profano così naturale che lo ritiene ovvio. Per lo psicologo, tuttavia, il lutto è un grande enigma, uno di quei fenomeni di per sé inspiegabili, ma ai quali si riconducono altre oscurità[/blockquote] (Freud, 2013, p. 7).

Queste considerazioni giungono con un certo anticipo a comunicare la difficoltà dell’uomo di parlare della morte e di pensare ad essa. [blockquote style=”1″]È l’incertezza e il mistero per eccellenza, quindi estremo paradosso in un’epoca che sostiene le certezze e pretende risposte sicure su ogni problema: è forse proprio questa palese contraddizione[…] che ha dato alla morte caratteristiche totemiche, se ne parla come del tabù per antonomasia[/blockquote] (Curi Novelli, 2010, p. 270).

L’intenso lavoro psicoanalitico eseguito da Freud per chiarire la distinzione tra il normale affetto del lutto e la sua condizione patologica l’ha condotto a fornire una descrizione del lutto come risposta alla scomparsa di un affetto o al venir meno di ciò che ha rappresentato un ideale e che possiede la peculiarità di poter andare incontro a risoluzione nel tempo.

Un’esemplificazione dell’esperienza della perdita, che con più facilità abbiamo la possibilità di rappresentarci, può essere offerta dalla condizione sperimentata dal lattante quando non vede più la mamma anche se solo temporaneamente. L’osservazione del suo comportamento non inganna su ciò che egli prova, ossia angoscia per il pericolo che quest’assenza comporta e dolore per la perdita stessa. Così il ripetersi del gioco del nascondino, un espediente giocoso tratto dalla quotidianità cui gli adulti ricorrono quando si relazionano con il bambino, in cui si alterna la presenza e assenza dell’oggetto amato acquista una certa utilità, poiché facilita il riconoscimento della perdita solo momentanea.

Ciò che accomuna pertanto il bambino all’adulto di fronte al verificarsi della perdita è la condizione di un’impossibile sopravvivenza senza l’oggetto perduto. Che un tale evento sia difficilmente accettabile è comprensibile e chiaro a tutti, meno chiara è la qualità con cui esso si presenta. Va in ogni caso segnalato che soprattutto in un primo momento i suoi sintomi acuti, il tono dell’umore depressivo, l’esaurimento dell’attività libidica e dell’interesse nei confronti del mondo esterno, la perdita di vista del senso della propria esistenza e l’impiego di energie in tutto ciò che conserva un legame con l’oggetto perduto, appaiono chiaramente con tutta la loro forza.

Quando scompare una persona cara, un genitore, un figlio, un coniuge, un amico, ciascuno di noi vive un’esperienza profondamente dolorosa. Riconoscere la caducità della propria e altrui esistenza e individuare le risorse per conservare un adeguato equilibrio psicofisico è un processo assai complicato.

 

 

Diversi approcci al lutto, psicoanalitici e non solo hanno posto l’accento sulla transizione della persona in lutto attraverso una serie di fasi, che tuttavia non necessariamente scandiscono il tempo allo stesso modo per tutte le persone. La teorizzazione più recente di Elisabeth Kubler-Ross delinea un processo di adattamento alla morte caratterizzato da cinque principali fasi: la negazione, il patteggiamento, la rabbia, la depressione e l’accettazione.

È piuttosto frequente che la mancanza in seguito al lutto di un caro affetto scateni come naturale meccanismo di difesa, la negazione della perdita stessa, la difficoltà di riconoscerla come possibile e quindi il rifiuto di questo drammatico evento. Quando la realtà inizia a essere riconosciuta in tutto il suo dolore, esplode un’immensa rabbia che può abbattersi con tutta la sua irruenza contro se stessi, oppure contro persone che offrono sostegno e vicinanza o ancora nei confronti della persona defunta. A questa rabbia logorante può seguire la necessità di scoprire cosa è accaduto e individuare una possibile spiegazione.

Sentimenti di perdita e un profondo dolore, compaiono in seguito al riconoscimento razionale ed emotivo della situazione, generando un’intensa depressione. Queste fasi con cui l’individuo fa i conti possono in ultima istanza condurlo all’accettazione della perdita e a prendere atto di questa nuova realtà e dell’ineluttabilità della morte. (Kubler-Ross, 2005).

Descrivere dunque la complessità e la tragicità di un evento talmente drammatico e dal dolore inconsolabile com’è quello del lutto non solo rappresenta un’operazione assai ardua, ma anche tale da mettere in evidenza che non avrebbe potuto presentarsi con aspetti diversi da personalissime e contraddittorie reazioni di sofferenza.

[blockquote style=”1″]C’è[…] un desiderio profondo di dissociare il proprio io dal mondo, di isolarsi, di stare soli, ma nello stesso tempo anche di non sentirsi soli [/blockquote](Bassanetti, 2005, p. 24). Così può accadere di vivere il lutto preservandosi nel silenzio e nella solitudine, o gettandosi forsennatamente all’esterno, per non pensare e confrontarsi con un dolore troppo intenso da tollerare e svelando la propria vulnerabilità e la difficoltà ad aprirsi al mondo.

L’unicità dell’uomo fa sì che le fasi del processo luttuoso siano vissute diversamente, in base ai propri valori di riferimento e alla propria esperienza personale. Tuttavia resta il fatto che [blockquote style=”1″]Il sentimento della caducità corrisponde all’estensione massima del dolore per la perdita o più precisamente per il perdersi di ogni cosa: tutto ciò che esiste è consegnato da sempre alla morte[/blockquote] (Natoli, 2002, p. 31).

Se per questo cammino, i cui passi mancano di coerenza e prevedibilità, si propongono indicazioni universali su come procedere per integrare la perdita, non si ottiene altro che un incremento di difficoltà e frustrazioni. Procedendo verso l’elaborazione potrebbe inoltre accadere di rendersi conto quanto questo percorso sia disseminato di ostacoli, la difficoltà di accettare la nuova realtà della mancanza, la necessità di lenire la sofferenza soffocandola, la mancanza di sostegno emotivo e sociale, l’irrompere di sensi di colpa e rimorsi nei confronti della persona scomparsa.

[blockquote style=”1″]I sensi di colpa sono quasi una costante durante il periodo del lutto. Dobbiamo tenerli distinti dai rimpianti, dai rimorsi, dalle colpe vere e proprie. La loro radice è irrazionale e legata almeno in parte al sentimento di autopunirsi, di espiare e di voler soffrire a causa della morte della persona amata[/blockquote] (Mander, 2007, p. 245.)

Per tale ragione ciò che acquista senso in questo processo di adattamento è prestare occhi e orecchie a quali variabili ne influenzano l’andamento e raccontano non solo della persona defunta, ma della relazione stabilita con lui e di quali risorse personali e ambientali sono ora disponibili per questo scopo (Dobbs, 2003).

Facendo un salto indietro alla prospettiva psicoanalitica freudiana è doveroso aggiungere a quanto detto sino ad ora che il lavoro del lutto si compie nell’inconscio. Esso procede in modo tale che nel momento in cui l’esame di realtà ha reso chiaro che l’oggetto d’amore è stato definitivamente perduto, impone al soggetto che anche il legame con questo sia interrotto, alimentando da parte dell’individuo una protesta e determinando il ricorso a un’interruzione del rapporto con la realtà in modo da tenere in vita questo legame. Così l’aspetto vuoto e spento dell’individuo in lutto è da attribuirsi alla sua condizione di fronte all’esame di realtà, in cui si verifica l’impiego di tutte le sue energie per slegar la sua libido da ciò che lo legava all’oggetto perduto. Soltanto al termine di questo lavoro, quando tutta la libido è stata staccata dall’oggetto per essere investita su uno nuovo, l’io ritorna libero e disinibito.

Non sempre e non per tutti dunque questo processo si compie in tempi rapidi e in senso positivo, quando ciò accade, il lutto può assumere caratteristiche patologiche. Se consideriamo che ogni legame di affetto è caratterizzato da sentimenti ambivalenti di amore e odio molto intensi, appare chiaro come la sua fine alimenti un conflitto tra questi, in cui l’aggressività possa prendere facilmente il sopravvento per ostacolare anche se non consapevolmente che questo distacco dall’oggetto si verifichi a tutti gli effetti. Un legame narcisistico con l’oggetto è un’ulteriore fattore di complicazione, poiché nel tentativo di staccare la libido si finisce per strappare l’oggetto dalla realtà esterna e trascinarlo dentro di sè.

In questa situazione andando in contro a cronicizzazione il lutto spiana la strada all’insediarsi di quella che Freud definì melanconia. In essa un umore profondamente depresso e un’intensa inibizione di ogni attività e interesse verso il mondo, si associano a un forte disprezzo verso se stessi, per cui l’individuo si riconosce completamente svuotato e indegno di vivere senza l’oggetto d’amore perduto, non solo, non può e non deve godere della vicinanza e del conforto altrui, responsabile e pertanto meritevole di una punizione per la scomparsa del suo oggetto d’amore.
Le qualità di se stessi sono negate e rifiutate e il quadro patologico si conclude con il tentativo di non proseguire con la propria esistenza arrivando a non alimentarsi più.

Le lamentele del melanconico tuttavia non sono molto lontane dalla realtà esse in fondo descrivono esattamente ciò che egli prova in quel momento, ossia la perdita del rispetto di sé, che è colma di accuse che in realtà sono rivolte ad altri e ricondotte a sé, poiché l’oggetto perduto è stato sottratto alla realtà esterna e portato dentro di sé. In questo modo la perdita dell’oggetto si trasforma in perdita dell’io.
Nel caso in cui il lutto non venga complicato dallo sviluppo della melanconia è dannoso intervenire e alterare il suo naturale processo di elaborazione conseguibile con il passare del tempo (Freud, 2013).

Non è difficile comprendere quindi che il dolore di chi ha subito un lutto e il suo procedere verso l’integrazione è comunque sempre presente, ciò che muta è la relazione con esso e il modo di affrontare probabili future esperienze dolorose. Certo con il tempo si può ottenere una sua attenuazione, che consente grazie alla scoperta delle proprie risorse di costruire una nuova vita in cui si snodano nuovi impegni e presenze.

Michele Cerato (2011) condensa le riflessioni psicoanalitiche sull’elaborazione del lutto sottolineando la centralità della memoria nel processo di guarigione cui attingere per recuperare ciò che ci è stato lasciato dalla persona amata, ossia quei sentimenti, quel ricordo, quell’amore di chi abbiamo perduto. In questo modo non diversamente dalla capacità del bambino di mettere dentro di sé l’oggetto buono kleniano, ossia la sua esperienza positiva con la madre, anche la persona amata e perduta fisicamente può essere messa nella nostra mente e restare dentro di noi come una presenza interna. Non solo la possibilità di aver goduto della sua presenza rende concreta la capacità winnicottiana di “sentirsi solo” la conquista di sentirsi completo, poiché la presenza dell’altro è dentro di sé, facendo a meno della sua presenza.

Accompagnare una persona in lutto lungo la strada dell’integrazione della perdita vuol dire ascoltare le sue necessità, lasciando spazio al bisogno di comunicare il suo dolore e i suoi pensieri a qualcuno che sia lì pronto ad accoglierli con amore e rispetto. Nella stessa relazione, la narrazione, che procede con i suoi tempi e i suoi modi consente alla persona in lutto di elaborare la perdita, facilitando quel movimento dall’esterno all’interno di chi ha perduto fisicamente.

[blockquote style=”1″]La difficile conquista di una coscienza che percepisca il bisogno di non farsi schiacciare completamente dall’esperienza della morte, è di far convivere dentro di sé il sentimento della perdita e della distruzione insieme all’opposta spinta alla vita e alla possibilità senza che l’una neghi l’altra[/blockquote] (Crozzoli, 2003, p.222).

 

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