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Ultimatum game: contrastare gli effetti della colpa deontologica nel decision-making

L’Ultimatum Game pone al soggetto un compito decisionale che apparentemente riguarda soltanto aspetti economici ma che in realtà implica valutazioni morali

Di Francesco Mancini

Pubblicato il 18 Set. 2015

Per studiare la psicologia morale si ricorre spesso a un paradigma di ricerca noto come Ultimatum Game. L’Ultimatum Game pone al soggetto un compito decisionale che apparentemente riguarda soltanto aspetti economici ma che in realtà implica valutazioni morali.

Nella versione classica (Güth et al., 1982) due giocatori devono dividere una somma di denaro, supponiamo 100 euro. Un giocatore, l’offerente, propone all’altro giocatore, il ricevente, di dividere la somma in parti diverse, ad esempio può trattenere per sè 50 euro o 40 o 70 o 90 e offrirne rispettivamente 50, 60, 30 o 10. Se il ricevente accetta, la somma è divisa, ma se non accetta, nessuno dei due prende nulla. Dal punto di vista della teoria economica classica, al fine di massimizzare il proprio utile, il ricevente dovrebbe accettare qualunque offerta, anche minima, perché sempre migliore di nulla. Invece, i riceventi tendono a rifiutare offerte inferiori al 20-30% della somma da dividere (Nowak, 2000; Camerer, 2003), preferendo non guadagnare nulla piuttosto che accettare un’offerta che considerano ingiusta (Fehr and Camerer, 2007).

C’è un generale accordo sul fatto che il rifiuto sia motivato dalla sensazione che un’offerta troppo bassa sia offensiva e dallo scopo di riaffermare la giustizia punendo chi la propone. Dell’ultimatum game esiste anche la versione cosiddetta third party, nella quale i partecipanti devono decidere se accettare o rifiutare l’offerta per conto di un’altra persona (Civai et al., 2010; Corradi-Dell’Acqua et al., 2013). Questa versione consente di investigare selettivamente le motivazioni morali delle persone perché il giudice non guadagna né perde nulla.

La versione third party è stata utilizzata da Alessandra Mancini e Francesco Mancini (2015) in una ricerca pubblicata su Frontiers Psychology, 25 August 2015, dal titolo “Do not play God: contrasting effects of deontological guilt and pride on decision-making”.

La ricerca rientra nel filone che studia la opportunità di distinguere fra senso di colpa deontologico e senso di colpa altruistico e, più in generale, fra la dimensione, per così dire, verticale della moralità, finalizzata al rispetto del principio Not play God, e quella orizzontale, guidata da principi altruistico/umanitari. Ricerche precedenti hanno dimostrato che i due sensi di colpa possono essere indotti separatamente (Basile e Mancini, 2011), hanno due substrati neurali diversi (Basile et al., 2011), il senso di colpa deontologico implica una maggiore attenzione per il rispetto del principio Not Play God e dunque preferenza per scelte omissive nel dilemma del trolley e, al contrario, il senso di colpa altruistico implica maggiore attenzione per il principio altruistico/umanitario “minimizzare la sofferenza del prossimo” e preferenza per azioni congrue con tale principio (Gangemi e Mancini, 2013; Mancini e Gangemi 2015).

D’Olimpio e Mancini (2014) hanno trovato che l’induzione di senso di colpa deontologico, diversamente dalla induzione di senso di colpa altruistico, implica controlli più attenti, accurati e ripetitivi nella esecuzione di un compito e implica lavaggi più prolungati e accurati in un compito di pulizia di un oggetto. Altri studi (ad es. Biziou-van-Pol et al., 2015) hanno dimostrato che la motivazione a rispettare norme deontologiche, in particolare il divieto morale di dire bugie, può sopravanzare motivazioni prosociali, sia quelle altruistiche sia quelle cooperative.

Lo scopo specifico della ricerca era controllare l’ipotesi che l’induzione di senso di colpa deontologico avrebbe avuto un impatto diverso dall’induzione di senso di colpa altruistico nella decisione dei soggetti. Hanno partecipato allo studio tre gruppi, in uno è stato indotto senso di colpa deontologico, in uno senso di colpa altruistico e in uno fierezza morale. L’ipotesi era che il primo gruppo avrebbe accettato offerte “ingiuste” più degli altri due gruppi. L’ipotesi nasceva da una duplice considerazione. La prima è che il senso di colpa deontologico implica svilimento personale, cioè una diminuzione nella gerarchia morale, e dunque implica anche un maggior peso del principio Not play God, vale a dire una maggior sensibilità a considerazioni del tipo “chi sono io per poter assumere il ruolo di giudice?” (Gangemi e Mancini, 2013).

I risultati rivelano che i soggetti in cui era stato indotto senso di colpa deontologico, ma non quelli in colpa altruistica, accettavano offerte moderatamente sleali (30:70) più dei soggetti in cui era stata indotta fierezza. È interessante osservare che il giudizio di lealtà delle offerte era lo stesso nei tre gruppi, suggerendo che i soggetti in colpa deontologica non avevano abbassato i loro standard morali. Si possono spiegare questi risultati con l’effetto opposto che il senso di colpa deontologico e la fierezza hanno sul valore personale che ci si riconosce. In particolare, i soggetti fieri si sentivano intitolati ad agire per riaffermare la giustizia, mentre i soggetti in colpa deontologica si sentivano maggiormente inibiti dal principio Not play God e dunque limitati nella loro autonomia decisionale, vale a dire non autorizzati a mettersi nei panni di un giudice.

In sintesi, non si riconoscevano l’autorevolezza morale necessaria per essere loro stessi a far valere la giustizia. Nel senso di colpa altruistico non c’è un abbassamento del rango e le motivazioni altruistiche, nonostante ci sia una tendenza all’accettazione delle offerte moderatamente ingiuste, non sono sufficienti a produrre una differenza significativa con i soggetti fieri.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Il dilemma del trolley, il conflitto tra colpa deontologica e colpa altruistico/umanitaria e il disturbo ossessivo

 

BIBLIOGRAFIA:

Le indicazioni degli altri articoli citati si trovano in Mancini A. e Mancini F. (2015)

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Francesco Mancini
Francesco Mancini

Medico chirurgo, Specialista in Neuropsichiatria Infantile e Psicoterapeuta Cognitivista

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