expand_lessAPRI WIDGET

Terapia cognitiva in soggetti con disabilità intellettiva. Quali possibilità?

Per soggetti con disabilità intellettiva è possibile apprendere a connettere pensieri ed emozioni e generalizzare questa acquisizione su nuovo materiale?

Di Laura Pizzacani

Pubblicato il 28 Lug. 2015

Aggiornato il 01 Lug. 2019 14:34

Laura Pizzacani – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi

La disabilità intellettiva rappresenta un disturbo complesso con esordio nel periodo dello sviluppo, che compromette in modo duraturo la conquista delle funzioni cognitive più elevate e di quelle adattive, specie negli ambiti concettuali, sociali e pratici.

Attualmente, tra i clinici, è ancora aperto il dibattito rispetto alla possibilità di considerare la disabilità intellettiva come una sindrome nucleare unica, il cui core è riconducibile ad un deficit dell’intelligenza, intesa anche come capacità di rispondere agli stimoli e di adattarsi all’ambiente circostante, o se si possa considerare come una sindrome eterogenea, ipotesi che sembra resa ancor più confermabile dalla varietà di cause che la determinano e di sintomi con cui si presentano i soggetti con tale disabilità.

Questi sintomi pervadono tutte le sfere evolutive non compromettendole mai allo stesso modo, creando così quadri sintomatologici di volta in volta diversi, che riguardano sia aspetti cognitivi, che affettivi ed adattivi, includendo: difficoltà di assimilazione delle esperienze, deficit comunicativi e di linguaggio, difficoltà ad accedere al pensiero astratto e disomogeneità cognitiva, adattamento più lento e difficile, deficit nello sviluppo della personalità e alterazioni della condotta.

Secondo la definizione del DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013), tre sono i criteri fondamentali che consentono di diagnosticare la disabilità intellettiva:

  • Deficit nelle funzioni intellettive come ragionamento, problem solving, pianificazione, pensiero astratto, capacità di giudizio, apprendimento scolastico e apprendimento dall’esperienza, confermati sia da valutazione clinica sia da test di intelligenza individualizzati, standardizzati;
  • Deficit del funzionamento adattivo che porta al mancato raggiungimento degli standard di sviluppo e socioculturali di autonomia e responsabilità sociale. Senza un supporto costante, i deficit adattivi limitano il funzionamento in una o più attività della vita quotidiana, come la comunicazione, la partecipazione sociale e la vita autonoma, attraverso molteplici ambienti quali casa, scuola, ambiente lavorativo e comunità.
  • Esordio dei deficit intellettivi e adattivi durante il periodo di sviluppo.

I livelli di gravità del disturbo, distinti in lieve, moderato, grave ed estremo, vengono definiti sulla base del funzionamento adattivo, e non più esclusivamente sui punteggi relativi al quoziente intellettivo (QI), perché è stato valutato come sia proprio la capacità di adattamento, in particolare nelle aree della socializzazione e delle attività pratiche, a determinare il grado di sviluppo necessario per mantenere una condizione di vita accettabile e, di conseguenza, a stabilire il livello di assistenza richiesta dal soggetto.

Cenni relativi alla comorbilità

Secondo il DSM-5, e come confermato da numerose ricerche (Cooper et al., 2007), i soggetti con disabilità intellettiva hanno una prevalenza di disturbi mentali in comorbilità, che si stima da tre a quattro volte superiore rispetto al resto della popolazione. Le procedure di valutazione possono richiedere delle variazioni a causa dei disturbi associati, e sono da considerare fonti di informazioni attendibili per identificare sintomi quali irritabilità, alterazioni del tono dell’umore, aggressività, problemi dell’alimentazione e del sonno, e per la valutazione del funzionamento adattivo nei vari contesti di comunità.

I più comuni disturbi mentali e del neurosviluppo concomitanti sono: disturbi da deficit di attenzione/iperattività; disturbi depressivo e bipolare, disturbi d’ansia; disturbi del controllo degli impulsi (frequente il comportamento autolesivo e aggressività o comportamenti dirompenti).

Trattamento

Nonostante la presenza di disabilità intellettiva nella popolazione generale si assesti intorno all’1% circa, e vi sia un alto livello di comorbilità con altri disturbi, ad oggi la maggior parte dei servizi risultano essere creati per rispondere in maniera differenziata alle esigenze, ritenute prettamente assistenziali, di soggetti con disabilità intellettiva, o terapeutico/assistenziali per soggetti con patologie psichiatriche. Ciò contribuisce a favorire ulteriormente l’esclusione dei primi da interventi di tipo psicoterapeutico, limitando lo sviluppo di realtà in cui si trattino pazienti in doppia diagnosi, e nelle quali si renderebbe necessaria l’associazione, alle classiche strategie di intervento farmacologico, riabilitativo ed educativo, anche di attività terapeutiche.

 

Le finalità degli interventi tradizionalmente proposti, pur convergendo in un unico grande obiettivo riconducibile al miglioramento globale della qualità della vita del soggetto e alla promozione della salute mentale (Castellani, 2010), sono molteplici: da un punto di vista farmacologico, l’obiettivo è quello di trattare le eventuali alterazioni neurologiche connesse al disturbo e di ridurre i comportamenti problema, quali auto ed etero aggressività, stereotipie, iperattività; a livello riabilitativo, ci si concentra sul rafforzamento di abilità cognitive e metacognitive, che in questi soggetti risultano deficitarie, e che difficilmente si sviluppano e/o consolidano spontaneamente; a livello educativo, invece, si utilizzano frequentemente interventi di matrice comportamentale che consentono di correggere i comportamenti disadattavi, favorendo contemporaneamente la riproduzione di quelli più funzionali. Tra queste tecniche, che fino ad oggi sono state utilizzate come uno dei pochi strumenti di intervento efficaci per il paziente con disabilità intellettiva troviamo (Cavagnola, 1994):

  • Shaping, detto anche modellamento, consiste nel rendere possibile l’apprendimento di una abilità attraverso graduali passaggi che avvicinano alla meta;
  • Prompting, consiste nel fornire un aiuto fisico, gestuale o verbale per portare a termine un’attività;
  • Fading, detto anche attenuazione degli aiuti, rappresenta l’insieme di procedure che portano ad una riduzione degli aiuti e delle facilitazioni necessarie al conseguimento del compito.

Alla luce di queste considerazioni, emerge come su questa tipologia di pazienti siano stati utilizzati separatamente due diversi approcci, e di come l’attenzione si sia concentrata prevalentemente su uno di essi anziché sulla loro integrazione: il primo, comunemente utilizzato, riguarda l’insegnamento di abilità specifiche e le attività volte al loro mantenimento, specialmente per ciò che concerne il comportamento; il secondo è invece relativo alle tecniche terapeutiche specifiche del modello cognitivo e cognitivo-comportamentale, che consentono di trattare i disturbi emotivi e comportamentali presenti in associazione alla disabilità intellettiva.

TCC e trattamento di soggetti con disabilità intellettiva in comorbilità

La terapia cognitivo-comportamentale deve molto all’opera di Beck ed Ellis, le cui tecniche convergono rispetto all’idea di indagare sistematicamente quelle rappresentazioni che precedono, accompagnano e seguono immediatamente uno stato emotivo problematico, al fine di comprendere le ragioni della sofferenza emotiva del soggetto e del suo perpetuarsi nel tempo.

Secondo Semerari (2006), è indispensabile valutare prima di tutto, nel corso dell’intervento, il contenuto problematico del soggetto, ossia i significati personali rilevanti per il suo disturbo e le sue emozioni, nonché le tendenze d’azione più di frequente connesse a questi significati.

Per far ciò si utilizza la tecnica dell’ABC (Ellis, 1977), attraverso la quale è possibile identificare, a partire da un evento, detto anche antecedente, una conseguenza a livello emotivo o comportamentale, che a sua volta si lega a specifici pensieri o credenze rispetto all’accaduto.

Affinché il soggetto possa utilizzare questa tecnica è necessario che sappia identificare e distinguere, a partire da un evento, pensieri o credenze presenti e le rispettive conseguenze emotive o comportamentali. Solo in questo modo sarà possibile riconoscere che le conseguenze prodotte da un determinato evento sono connesse prevalentemente ai propri pensieri e/o credenze disfunzionali, piuttosto che all’antecedente stesso, e procedere con la disputa di pensieri e credenze emersi. Ovviamente per procedere in questo percorso, è necessaria anche una valutazione delle risorse metacognitive del paziente e del loro livello di sviluppo, ossia delle funzioni mentali con cui egli riesce a comprendere e padroneggiare i propri contenuti problematici.

Attualmente non si riscontrano con frequenza terapeuti che lavorino con soggetti con disabilità intellettiva, proprio a causa dell’idea secondo cui queste persone abbiano abilità cognitive e comunicative ristrette, che limitano la loro capacità di comprensione del proprio mondo mentale, nonché la capacità di collaborare attivamente al lavoro svolto dal terapeuta, tutti fattori che apparentemente li escluderebbero dal poter trarre giovamento dalla terapia.

In realtà, le tre abilità di base considerate, a partire dai lavori di Beck ed Ellis, come indispensabili per accedere ad un intervento in ottica cognitiva, ossia il saper identificare, a partire da un evento, pensieri o credenze e le rispettive conseguenze emotive o comportamentali; il riconoscere che le conseguenze sono più connesse ai pensieri che all’antecedente e il poter procedere con la disputa di questi pensieri/credenze, sono state riformulate da diversi autori (Hutton, 2002; Bruce et al., 2010) in relazione al lavoro con soggetti con disabilità intellettiva. Le nuove abilità ritenute necessarie per fare in modo che anch’essi possano procedere al lavoro cognitivo diventano quindi: la presenza di capacità cognitive di base quali memoria, linguaggio e comunicazione; abilità ad identificare le differenti emozioni; abilità di comprendere le basi del modello cognitivo, ossia il ruolo chiave dei pensieri nello sviluppo degli stati emotivi.

Nonostante inizialmente le basi teoriche su cui poggia il modello, in particolare il legame tra pensieri, emozioni e comportamenti, possano essere poco accessibili per utenti con ritardo mentale, è possibile che uno specifico training possa aiutarli a comprendere meglio questi elementi di fondo indispensabili all’attività clinica. Il compito del terapeuta sarà quindi quello di fornire una sorta di educazione a quei pazienti che sembrino carenti in queste specifiche abilità, e di adattare le tecniche base della terapia cognitiva alle caratteristiche di questo tipo di utenza.

Questo allenamento potrebbe iniziare con un intervento psicoeducativo di alfabetizzazione emotiva, finalizzato a migliorare la capacità di riconoscere ed esprimere le emozioni, indispensabile quando la persona non è in grado di riconoscere espressioni di affettività in sé o negli altri perché non sa riconoscerli (Castellani, 2010).

Successivamente, si potrebbe procedere con attività volte a rafforzare l’abilità di discriminare, e successivamente collegare tra loro, pensieri ed emozioni. A tal fine, in uno studio proposto da Bruce e collaboratori (2010), è stato evidenziato come anche una sola sessione di training abbia portato significativi miglioramenti nella capacità dei partecipanti alla ricerca di distinguere tra pensieri ed emozioni e di collegarli tra loro, capendo così come siano i primi a determinare l’assetto emotivo delle persone.

Attraverso l’uso di questi strumenti, gli autori hanno contribuito a dimostrare come sia possibile per soggetti con disabilità intellettiva apprendere l’abilità di connettere pensieri ed emozioni, e successivamente di generalizzare questa acquisizione su nuovo materiale.

Questa ricerca può essere considerata come un primo tentativo concreto di utilizzo della terapia cognitiva con questi pazienti, soprattutto nel caso in cui sia presente una doppia diagnosi, che coinvolga in particolare, oltre alla disabilità intellettiva, problemi comportamentali, ansia, depressione o sintomi psicotici, trattati con efficacia secondo le tecniche dalla terapia cognitivo comportamentale standard, riviste alla luce dei bisogni di questa specifica utenza.

Per concludere, è necessario considerare che fattori importanti per il successo di un intervento psicoterapeutico non sono determinati solo dalla comprensione del ruolo di pensieri ed emozioni, ma coinvolgono anche le caratteristiche specifiche dei partecipanti alla terapia, così come la loro relazione e il grado di alleanza sviluppato. Evidenze dimostrano come l’aumento della compliance nella terapia possa migliorare significativamente il risultato degli interventi (Azam, 2012), favorendo ulteriormente la spinta al cambiamento.

Gli elementi che devono essere osservati, in quanto indispensabili a rendere realmente efficace un intervento sono, in sintesi, tre (Hassotis et al., 2011): gli obiettivi del trattamento, la loro definizione e il percorso da fare per raggiungerli devono essere chiari e condivisi; da parte del paziente deve esserci una comprensione reale di ciò che sta accadendo nella terapia, e per valutarla è possibile osservare quanto il paziente sviluppi il materiale proposto dal terapeuta, come homework ecc. (può essere utile fornire ai familiari o agli operatori delle strutture in cui i pazienti risiedono, informazioni aggiuntive che consentano loro di essere di supporto al soggetto per muoversi con successo nel programma di trattamento, favorendo il mantenimento di un buon livello di motivazione e di impegno); infine, dovrà esserci un buon livello di attivazione da parte del paziente, in quanto se anche il trattamento fosse stato definito e compreso, non potrebbe essere efficace se egli non parteciperà attivamente.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Pregi e limiti della psicoterapia cognitiva

BIBLIOGRAFIA:

Si parla di:
Categorie
ARTICOLI CORRELATI
WordPress Ads
cancel