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L’onore e l’utile: Europa del burro ed Europa dell’olio

Per capire perché tra greci e tedeschi ci sia un dialogo tra sordi va sottolineato che la struttura culturale dell’onore è emozionale ed anti-pragmatica.

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 13 Lug. 2015

Articolo pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta Giovedì 09 Luglio 2015

Per capire perché tra greci e tedeschi ci sia un dialogo tra sordi importa sottolineare che la struttura culturale dell’onore è altamente sociale ed emozionale ed è anti-utilitaristica e anti-pragmatica. Non vi è alcun obiettivo utile ed economico immediato nel difendere l’onore. Non si tratta di produrre alcun bene e nemmeno di mantenere il controllo su alcuna fonte di reddito, se non indirettamente.

Ormai è certo: greci e tedeschi, nordeuropei e mediterranei, parlano linguaggi differenti. È possibile descrivere questa differenza nei termini della scienza, evitando i toni intuitivi e generici? Non so quanta letteratura sociologica e antropologica esista sulla differenza culturale tra Europa settentrionale e meridionale, tra Europa del burro ed Europa dell’olio, tra civiltà dell’utile e civiltà dell’onore. Probabilmente molta. Vorremmo saperne di più, in questi giorni in cui greci e tedeschi si azzuffano. La psicologia cross-culturale è un argomento delicato e non politicamente correttissimo come tutte le volte in cui si fanno paragoni tra culture, paragoni che somigliano pericolosamente ai paragoni tra etnie.

Una volta questi paragoni erano più frequenti. Erano però epoche meno ossessionate –nel bene e nel male- dal timore di offendere le sensibilità altrui. Probabilmente la raffigurazione del paragone tra nord e sud più capace di entrare nell’immaginario comune è la teoria di Weber (1904-1991) sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Quando si parla di rigore nordico e lassismo meridionale si eseguono una serie di associazioni che credo abbiano il loro nodo nel libro di Weber. Il sentimento generale, sottile eppure robusto, di un maggiore senso civico e di un più diffuso spirito pubblico che apparterebbe alle zone settentrionali dell’Europa trae probabilmente origine da li.

Il libro di Weber su capitalismo e protestantesimo era un denso trattato di sociologia delle religioni, sebbene inaspettatamente leggibile. L’idea di quel libro era però semplice e finiva per dare una descrizione scientifica a un fenomeno che ormai era sotto gli occhi di tutti da più di un secolo: il successo economico e militare crescente delle nazioni anglo-sassoni e germaniche e il declino politico delle nazioni latine dal 1753 almeno, dopo la guerra dei sette anni e ancor di più dopo la sconfitta di Napoleone.

Il tempo di Weber, l’inizio del novecento, era un tempo molto più feroce di quello attuale, almeno nel campo delle idee. Prevaleva una forma di darwinismo scientifico non priva di tratti ripugnanti scopertamente razzistici. Il divario nord-sud era apertamente misurato tutto in termini di forza e potenza, economica e militare. Il senso civico non era l’argomento principale della controversia. Era una visione machista della storia, in cui l’ampiezza degli imperi coloniali o a potenza degli eserciti conservavano tutto il loro significato.

Malgrado la sensibilità di Weber fosse diversa dalla nostra, il suo paragone è sopravvissuto alla svergognata fine nazista delle idee razzistiche. Si è tradotto in un giudizio meno brutale: al nord c’è più senso civico e maggiore capacità di organizzazione, e questo assicura a quei popoli una maggiore prosperità, che viene accettata con qualche mugugno ma senza troppe proteste. In fondo tutti ritengono che tedeschi e scandinavi la loro ricchezza se la siano meritata, quasi fosse una versione contemporanea e leggera della vecchia credenza calvinista che la ricchezza sia segno della grazia divina. Più sottotraccia traluce ancora la deduzione che tutto questo civismo poi si traduca in maggiore potenza economica e politica. Dietro la maschera severa di Calvino s’intravede il ghigno toscano di Machiavelli, ma i nordici sono particolarmente bravi a nasconderlo.

Il gap di civismo e ordine tra nord e sud ha ricevuto un altro avallo scientifico abbastanza noto, sia pure minore rispetto a quello di Weber. Si tratta della teoria di Putnam sul familismo amorale che affliggerebbe le regioni meridionali, la tendenza a curare gli interessi della famiglia e del clan a danno degli interessi sociali. Soprattutto, la tendenza a curare gli interessi dei legami affettivi, familiari e di sangue a scapito di quelli impersonali e funzionali della società. Considerazione non incoraggiante: tutto questo non favorisce il buon funzionamento della democrazia (Putnam, 1993).

Questa versione, rispetto a quella di Weber, offre il vantaggio di non destare troppi sospetti di razzismo. Fu scritta da Putnam in uno spirito genuinamente ottimistico e volenteroso, com’era giusto dopo i deliri del nazismo: una conoscenza in grado di concorrere a curare i mali del sud, non a condannarlo in un destino d’inferiorità razziale. Certo, il giudizio d’inferiorità morale sulle civiltà mediterranee traspariva inevitabilmente, ma non vi era più alcun compiacimento darwinistico e nessuna parentela con le sparate di Nietzsche sugli inferiori e sui malriusciti da gettare ai fossi, e senza tanti complimenti, fuori dal cerchio della vita.

Tutte le teorie sociali sono discutibili, compresa quella di Weber e di Putnam. È stato fatto notare che la teoria di Weber vale solo per il protestantesimo calvinista e non per quello luterano. O che esiste una forma di capitalismo rinascimentale cattolico che ha la sua base nella scuola francescana di Salamanca. E così via. Tutto verissimo, ma la differenza continua a sentirsi quando viaggi verso il nord.

Che dire, però del polo mediterraneo? Finora lo abbiamo descritto solo in negativo, come ciò che non obbedisce alle regole del civismo e del rigore. E cosa sono, invece, le culture mediterranee? Qual è la loro peculiarità? Uno dei più importanti studi di antropologia del Mediterraneo è stata l’opera collettiva Honour and shame: the values of Mediterranean societies (Onore e vergogna: i valori delle società mediterranee) curata da Peristiany (1966).

Peristiany argomentò che il costrutto onore-vergogna è la caratteristica antropologica più distintiva delle culture mediterranee. Onore è una nozione legata al ruolo sociale e familiare dei maschi, ed è una sorta di proclama degli uomini del loro essere giusti e orgogliosi. I fattori che sottolineano l’onore dell’uomo esprimono il suo rango sociale -come le origini familiari e la ricchezza- le sue qualità morali -come la generosità- e la sua capacità di controllare la propria reputazione, ovvero il grado di rispetto e di sottomissione degli altri membri del clan, della tribù o della famiglia.

Per capire perché tra greci e tedeschi ci sia un dialogo tra sordi importa sottolineare che la struttura culturale dell’onore è altamente sociale ed emozionale ed è anti-utilitaristica e anti-pragmatica. Non vi è alcun obiettivo utile ed economico immediato nel difendere l’onore. Non si tratta di produrre alcun bene e nemmeno di mantenere il controllo su alcuna fonte di reddito, se non indirettamente. L’obiettivo è solo il controllo della reputazione e del rispetto, di quello che gli altri pensano e del loro modo di comportarsi, che deve appunto essere rispettoso. Se gli altri pensano bene e si comportano rispettosamente, ovvero manifestando deferenza e sottomissione, allora l’obiettivo è raggiunto. Per ottenere questo obiettivo si possono sperperare beni e ricchezze. Il rango nobiliare non è direttamente legato al potere economico: si può essere nobili ed economicamente indeboliti, oppure essere economicamente in ascesa eppure esclusi dal rango onorevole dei patrizi. Quel che importa sono i segni esteriori di deferenza, rispetto, sottomissione.

È chiaro che con l’onore siamo agli antipodi del pragmatismo utilitarista delle fredde società nordiche. L’uomo d’onore meridionale lotta per ottenere il rispetto e disprezza la ricchezza, l’uomo pragmatico del nord lavora per produrre, lotta per ottenere il controllo dei beni, delle ricchezze, e l’unica buona reputazione a cui tiene è quella dell’affidabilità finanziaria, della solvibilità. Un po’ come i Lannister del Trono di Spade, che pagano sempre i debiti. Per questo greci e tedeschi non si intendono in questi giorni. I primi lottano per l’onore, i secondi per la solvibilità.

Per l’uomo d’onore del sud il razionalismo pragmatico dei nordici è incomprensibile. Il razionalismo pragmatico è sempre strumentale, ovvero ritiene che ogni tradizione, ogni abitudine, ogni costume, ogni convinzione o idea vadano sottoposte al vaglio critico della loro utilità, alla domanda che vuole sapere: ma a che serve questo? Quale scopo si prefigge? E quanto efficientemente serve allo scopo? Tradizioni, onori e idee sono ridotte alla loro efficienza. Questa è la visione utilitaristica ed economicistica della vita, che risulta incomprensibile ai greci.

Sfogliamo i primi capitoli di L’azione umana del filosofo economista Ludwig von Mises (1966). Attraverso la lente scientifica della metodologia utilitaristica ogni comportamento umano finisce con l’essere bollato con l’etichetta di comportamento acquisitivo. Ogni altra motivazione è rigettata come favola per educande. Per von Mises, in realtà anche il nobile distacco o la rinuncia ascetica si possono e si devono spiegare solo in termini di scopi e di mezzi. Scopi non grettamente materialistici, è vero, ma comunque scopi: desiderio di gloria, soccorso dei deboli, distacco dal mondo. Tutti questi scopi sono in realtà beni da acquisire, e non vi è gerarchia morale tra loro.

Nella visione economicistica e pragmatica del nord l’onore stesso, a cui tanto tengono i mediterranei, diventa un bene da acquisire e conquistare. È il disincanto del mondo, o delle azioni umane, la critica di ogni nobile o ameno inganno, e la riduzione dell’uomo ad animale conquistatore. Notevole è la conseguenza finale, rigorosamente logica: la coincidenza integrale del razionale con l’economico. Von Mises sottolinea con forza questo punto: l’economico non è un sottoinsieme logico del razionale, ma è il razionale stesso. La razionalità non è altro che calcolo economico, scelta dei mezzi in base ai fini.

Colpisce come i principi della visione economicista del mondo corrispondano con quelli della psicologia scientifica. È un’ulteriore dimostrazione che nella concezione moderna l’utilitarismo non è solo una visione del mondo, ma è concepito come la forma strutturante della mente. Infatti la moderna psicologia cognitiva sostiene un’idea semplice. Sostiene che la mente è un elaboratore d’informazioni. È una concezione dell’attività mentale che è estremamente simile a quella economicista di von Mises: il pensiero non è altro che la scelta delle azioni ritenute più idonee al raggiungimento degli scopi dell’individuo. L’attività umana è sempre finalizzata a uno scopo ed è quindi utilitaristica.

E in nome di questo utilitarismo vengono condannati i comportamenti umani non finalizzati a uno scopo pratico. A cominciare dai valori del passato: l’amore, raccomandato dalla morale cristiana, e l’onore, sostenuto dalla morale classica greco-romana. Attenzione, l’etica utilitarista non esclude i bisogni umani di amore e di onore (che oggi chiameremmo approvazione). Tuttavia, li pone in posizione strumentale: essi sono utili se ci danno benessere, ma non sono beni in sé. Il che può sembrare non particolarmente nuovo, ma lo diventa se siamo pronti a svalutare criticamente questi beni laddove essi non ci siano utili. È l’atteggiamento critico la vera novità, non tanto il porre al centro il benessere. Già i greci antichi avevano il valore dell’eudamonia, dello stare bene (letteralmente: del buon genio, che non è esattamente il benessere). Tuttavia per i greci esisteva una via maestra che solo attraverso la virtù arrivava all’eudamonia. Non vi era quindi una concezione strumentale della virtù, ma un legame intimo. E quindi non era possibile una critica utilitarista della virtù stessa.

È invece l’essere pronti a svestirsi dei vecchi indumenti che ne svela il carattere di semplici strumenti. Spicca una ruvida concezione solitaria dell’individuo. La comunità non è più luogo di relazioni sociali di approvazione o disapprovazione, e quindi luogo dell’onore e della reputazione, ma sede di relazioni utilitarie con gli altri, associazioni costituite per perseguire scopi pratici, al modo nordico. Lo stesso civismo nordico, reale e invidiabile, è concepito come uno strumento asservito al benessere e non come valore in sé. Difficile capirsi in Europa, non solo tra greci e tedeschi.

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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