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Disturbo Ossessivo Compulsivo: può una scansione cerebrale predire l’esito del trattamento cognitivo-comportamentale?

Un nuovo studio suggerisce che, tramite una scansione cerebrale, si può individuare quali persone otterrebbero maggior vantaggio a lungo termine dalla CBT.

Di Redazione

Pubblicato il 21 Lug. 2015

Irene Rossi

FLASH NEWS

Decine di migliaia di persone, con percentuale stimata sull’1-2% della popolazione, ad un certo punto della loro vita potrebbero sviluppare un disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), caratterizzato da pensieri ricorrenti, intrusivi e disturbanti e/o da comportamenti ricorrenti e stereotipati.

Se non trattato, il DOC può essere profondamente angoscioso per la persona e può andare ad intaccare significativamente la capacità di gestire gli aspetti più basilari della propria vita, quali svolgere il proprio lavoro e intrattenere relazioni sociali equilibrate.

Una delle terapie più comunemente utilizzate per il trattamento del DOC, di cui è stata dimostrata l’efficacia, è la terapia cognitivo-comportamentale, la quale ha lo scopo di aiutare il paziente a comprendere i propri pensieri che influenzano i comportamenti e le emozioni disfunzionali per poi andare a modificarli. Maggior parte dei pazienti traggono vantaggio dall’impiego di questo approccio terapeutico, tuttavia in parte di essi (circa il 20%) i sintomi tendono gradualmente a ricomparire una volta conclusa la terapia.

Un nuovo studio condotto dai ricercatori del Semel Institute for Neuroscience and Human Behavior dell’università della California, suggerisce che una scansione cerebrale può aiutare i clinici a individuare quali persone hanno maggior probabilità di ottenere vantaggio a lungo termine dalla terapia cognitivo-comportamentale e perché. Nello specifico l’efficienza nei network cerebrali prima del trattamento predice la possibilità di ricomparsa dei sintomi dopo il trattamento.

I ricercatori hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale, fMRI, per studiare il cervello di 17 persone con età compresa tra 21 e 50 anni, affetti da OCD diagnosticato. La scansione delle strutture cerebrali è stata effettuata sia prima che subito dopo il completamento di un percorso intensivo di 4 settimane di terapia cognitivo-comportamentale. L’andamento della sintomatologia clinica è stato poi monitorato per i 12 mesi successivi, allo scopo di valutare il mantenimento degli effetti positivi ottenuti dal percorso terapeutico.

Ciò che è stato evidenziato è che la terapia cognitivo-comportamentale di per sé determina un aumento della densità di connessioni nei network cerebrali locali, che verosimilmente riflettono un’attività cerebrale più efficiente. Le persone che hanno una connettività cerebrale alta già prima del trattamento, in proporzione ottengono un minor grado di incremento delle connessioni e ciò sembra tradursi in una maggior possibilità di ricomparsa della sintomatologia a lungo termine.

Sorprendentemente invece né la severità dei sintomi in origine né il grado di miglioramento dello stato di salute nel corso della terapia sono predittori accurati del successo post trattamento.

I risultati ottenuti non significano che alcune persone con OCD non possono essere aiutate nell’affrontare e curare il disturbo, solo che 4 settimane di terapia cognitivo-comportamentale intensiva possono non essere l’approccio più efficace per tutti per ottenere effetti a lungo termine. Questi pazienti possono ottenere maggior beneficio dall’uso di farmaci o da un percorso di terapia cognitivo-comportamentale di maggior durata.

Lo studio condotto dal gruppo di ricerca di Frausner e colleghi è stato il primo a studiare la connettività cerebrale per aiutare a predire il corso post-terapeutico, e il primo a testare gli effetti della terapia cognitivo-comportamentale sulla connettività cerebrale.

L’obiettivo lodevole, attuale e futuro, del gruppo di ricerca dell’Università della California è tradurre le conoscenze sul cervello in informazioni utili che possano essere utilizzate da terapeuti e pazienti per prendere decisioni cliniche; tradurre le conoscenze scientifiche in strumenti pratici per favorire la scelta del miglior intervento terapeutico per il singolo paziente.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

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