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Sindrome da Burn-out – CIM nr. 22 – Storie dalla psicoterapia pubblica

Si narra la storia di un uomo affetto dalla sindrome di burn-out caratterizzata da rimuginio, preoccupazioni e alti livelli di stress -Psicoterapia Pubblica

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 07 Lug. 2015

CIM – CENTRO DI IGIENE MENTALE #22

Sindrome da Burn-out

Che psichiatri, psicologi, psicoterapeuti e affini non brillino per sanità mentale è voce comune confermata dalla ricerca epidemiologica. Il CIM di Monticelli aveva già in passato dovuto affrontare la penosa e drammatica vicenda del dottor Altamura psichiatra e direttore generale della ASL conclusasi con l’omicidio annunciato della sua seconda moglie. Quasi sempre nelle improvvise esplosioni di follia tutti i parenti e i semplici conoscenti, intervistati dai giornalisti descrivono il soggetto come assolutamente equilibrato e l’episodio del tutto inaspettato. Si potrebbe pensare che la normalità sia prognosticamente infausta.

Non fu così nel caso di Biagioli che da alcuni mesi aveva peggiorato il suo già scostante carattere. Sempre più chiuso e maniacalmente immerso nel lavoro si avvertiva che covava qualcosa cui nessuno aveva accesso. Si trascurava anche fisicamente ed aveva allontanato persino gli amici storici. Secondo il dottor Irati che lo conosceva da più tempo degli altri senza che tuttavia fosse mai scoccata la scintilla dell’amicizia, assumeva degli antidepressivi sottraendoli dall’infermeria dell’ambulatorio ma a suo avviso avrebbe avuto bisogno di ben altro. Questo dopo lo dissero tutti sentendosi in colpa ma, a onor del vero, prima dei ben noti fatti l’unico a sostenerlo era proprio Irati. Dopo il ricovero all’ospedale di Vontano, ottenuto soprattutto con la paziente opera di Giovanni Brugnoli e Luisa Tigli che per il grande affetto nei suoi confronti volevano assolutamente evitare un T.S.O., il caso venne assegnato al dottor Luigi Cortesi con il pieno accordo dello stesso Carlo che stimava moltissimo il collega.

L’incertezza su quale diagnosi dichiarare vide fino all’ ultimo in ballottaggio “sindrome da burn out” e “disturbo post traumatico da stress. Entrambe mettevano in connessione la sofferenza di Biagioli con il suo lavoro e forse ne avrebbe avuti dei vantaggi pensionistici. Cortesi però si comportò come con qualsiasi altro paziente andando alla ricerca degli eventi scompensanti che si erano succeduti nell’ultimo anno dell’esistenza del suo capo e lo avevano sprofondato in una depressione delirante. Come al solito gli eventi scatenanti che avevano impattato su una struttura già vulnerabile erano molti. Il primo episodio era stata l’assunzione che aveva fortemente voluto di Carlotta, una sua ex paziente per un disturbo di panico adolescenziale. Si era trattato di un avviso pubblico e contrariamente alle sue abitudini aveva fatto pressioni per l’assunzione a tempo determinato della giovane.

Carlotta, 28 anni, era l’archetipo della fragilità con una storia di abbandoni infantili che l’avevano portata prima in una casa famiglia, poi in due coppie affidatarie che non l’avevano poi adottata ed infine in un collegio di suore che l’aveva ospitata fino ai 18 anni gratuitamente e poi avviata alla professione infermieristica che aveva esercitato in alcune cliniche religiose private prima di tentare l’entrata nel servizio pubblico. Era stata la badessa Suor Renata, sua amica d’infanzia ( per la precisione la prima con cui aveva provato il “gioco del dottore” forse in tal modo innescando il desiderio di consacrare la vita a Dio rinunciando agli uomini), a chiedergli di vedere questa povera ragazza squassata da attacchi di panico e paralizzata dall’angoscia abbandonica.

Fisicamente Carlotta, a dispetto del suo nome tondeggiante da benestante debuttante al ballo, era lunga, asimmetrica e con l’aspetto patito dell’orfanella. Gambe e braccia sembravano troppo lunghe e, nell’insieme, dava l’impressione di un cerbiatto appena nato che stenta a reggersi sulle zampe. Ciò suscitava in Biagioli una fortissima tenerezza e una incontenibile voglia di accudimento che avrebbero dovuto metterlo in allarme. Non era la prima volta che quello fosse il cavallo di Troia con cui erano state aggirate le sue attente difese. Un naso lungo sottile e storto verso destra separava due languidi occhi neri circondati da lisci capelli corvini che si fermavano a metà del collo modiglianesco. Somigliava fortemente, se non fosse stata per l’estrema magrezza, a Rossy De Palma una delle attrici preferite da Almodovar o, meglio ad un “head of woman” di Picasso.

Il giorno stesso che prese servizio al CIM Biagioli si pentì di averla accolta nel tentativo di dare qualche sicurezza alla sua esistenza. Notava tutto quello che faceva e la cercava continuamente con lo sguardo. Anche dopo mesi gli tornava alla mente un flash che con il dottor Cortesi avevano nominato “imprinting 1”. Carlotta si toglieva con un solo armonioso gesto lo zainetto e la giacca di jeans facendo salire improvvisamente la camicetta di cotone a fiori rossi e blu. Inaspettatamente, per una ragazza della sua età, compariva sotto una vera e propria canottiera bianca di cotone ( la maglia della salute delle nonne) che arrotolata e stropicciata di sudore lasciava intravedere in basso una carnagione rosea vellutata da una peluria bionda che si perdeva nei pantaloni larghi di lino trasformandosi di lì a poco in prorompente sedere con fiero atteggiamento antigravitazionale. Questo era solo il più ricorrente dei tanti flash che si erano stampati nella sua mente e si chiedeva se l’EMDR potesse essere utile per cancellare tali immagini ossessive.

Se ci fosse riuscito avrebbe potuto brevettare un protocollo contro le infatuazioni. Sin da adolescente aveva cercato di mettere a punto delle tecniche contro il montare inarrestabile dell’innamoramento. Ciò dimostrava che la stranezza non era conseguente alla professione ma l’aveva preceduta e forse determinata. Dopo appena una settimana notò due segni prognostici nefasti. Ragionava continuamente tra sé e sé sul fatto che non fosse poi un granchè, cercava di concentrarsi sui suoi difetti che però finiva per considerare commoventi e trovava continue somiglianze con lei nelle altre donne. Stava diventando un pensiero intrusivo che si imponeva di allontanare con il risaputo risultato di rinforzarlo. In sua assenza gli tornavano in mente tutti gli scambi che avevano avuto e si accorgeva di porre ai fatti sempre la stessa domanda “Quanto gli interesso?”. La mattina prima di arrivare al lavoro immaginava come sarebbe stata vestita, preparava le frasi che le avrebbe rivolto e cosa le avrebbe raccontato per rendersi interessante.

Ricordava a se stesso che 25 anni di differenza ne facevano il padre e che sarebbe apparso ridicolo e patetico qualsiasi tentativo di avvicinamento. Dall’altra parte sapeva anche che quando si impegnava in questi tentativi di contenimento del sentimento il guaio era già avvenuto. Come un incubo gli tornava alla mente il periodo in cui aveva conosciuto la sua attuale moglie Ornella che aveva fatto precipitare il già zoppicante rapporto con Maria, la prima moglie. Ora però c’erano due meravigliosi figli e non avrebbe retto un’altra separazione. Sarebbe certamente morto di crepacuore. Per questo negli anni si era assestato in un sereno menage che lo vedeva marito, padre devoto e amante attento e prudente di Luisa Tigli interessata quanto lui a tenere nascosta la loro storia dal carattere matrimoniale.

Carlotta era venuta a sparigliare questo consolidato equilibrio. Aveva di nuovo paura e rammentava rassegnato il verso di Lucio Battisti “ come può uno scoglio arginare il mare” preparandosi al peggio. Nella ricostruzione che ne fece con il dottor Cortesi chiamò questo periodo “il nascondimento” che fu caratterizzato soprattutto dall’isolamento. Si vergognava di parlarne persino con il suo amico Giò. Naturalmente Luisa Tigli se ne accorse ugualmente e chiese proprio a Giò di proteggere l’amico che stava correndo verso un evidente guaio. Quando fu certa, erroneamente, che Carlo e Carlotta avessero iniziato ad avere rapporti sessuali presentò domanda di trasferimento nel reparto ospedaliero al dottor Rodolfo Torre direttore del Dipartimento di salute mentale che, felicissimo di fare un dispetto a Biagioli lo accolse immediatamente. Biagioli volle precisare a Cortesi che, in verità, per il suo timore di fare una brutta figura non c’erano mai stati rapporti sessuali ma solo strofinamenti attraverso i vestiti in auto durante le visite domiciliari. Quella fu l’unica mezza verità che disse al suo curante: un vero record per un bugiardo patologico come lui.

Il trasferimento dell’ amante storica, la sua base sicura, fu per lui un altro duro colpo. Un ulteriore evento scompensante anche se in parte lo distrasse dal pensiero intrusivo di Carlotta. L’imprevisto scossone comportò, però, una insonnia resistente ai farmaci peggiorata dall’incremento del consumo alcolico. Era sempre stato un maestro nell’autoinganno. Così, anche in questa occasione, gli piaceva raccontarsi che fosse stato l’intervento dei figli Luca e Antonio a motivare la solenne decisione di tagliare con Carlotta. Preoccupati per la sua salute lo coinvolsero in un trekking di tre giorni sul Gran Sasso. Lo avvolsero di affetto ma furono anche molto crudi nel sottolineargli che stava ricoprendosi di ridicolo per una donna che poteva essere sua figlia e, a parte quell’aria da cucciolo spaurito non aveva nulla di eccezionale. Avrebbe voluto prenderne le difese ma riuscì a trattenersi. Promise solennemente guardando con vergogna negli occhi i suoi ragazzi. Chissà forse avrebbe mantenuto se non ci fosse stata la trasferta al manicomio criminale di Montelupo fiorentino. Si trattava di prendere contatti in vista della dimissione di un paziente. Un tempo sarebbe stata la classica spedizione affidata a Biagioli e Tigli, ma ora Luisa non lavorava più al CIM e la scelta di Carlo cadde sulla giovane Carlotta per farle vedere una realtà, quella degli OPG, in via di estinzione che avrebbe arricchito la sua esperienza.

Al CIM appena la macchina di servizio si allontanò verso l’autostrada iniziarono le scommesse. Certamente, dicevano i maligni, per entrare sarebbero state necessarie pratiche burocratiche che avrebbero reso necessario un pernottamento in zona. Per altri sarebbe stata la macchina a non sopportare il viaggio di andata e ritorno in un sol giorno. Oppure il paziente sarebbe stato in licenza di prova fino all’indomani. Il malore di uno dei due operatori o un piccolo incidente automobilistico erano le ipotesi meno accreditate. A vincere fu l’ipotesi della burocrazia aiutata dai due. L’ingresso fu facile ed il colloquio con il paziente immediato e proficuo. Il medico curante e il direttore dell’OPG avevano compilato tutti i documenti necessari con una efficienza inconsueta per il Lazio. Ma, per fortuna, c’era un ma. Essendo pomeriggio l’unico assente era il tecnico della riabilitazione psichiatrica che si occupava del paziente, sarebbe tornato in servizio il mattino successivo. Guardandosi dritti negli occhi decisero che non potevano fare a meno di un così prezioso contributo. Firenze era molto vicina e Carlo conosceva “La Locanda del Gallo Nero” dove, oltre ad assaggiare i piatti tipici della cucina toscana, si poteva avere, a prezzi compatibili con i rimborsi ASL, delle stanze decorose e pulite.

A Cortesi raccontò di un pomeriggio di travagliati conflitti interiori, di decisioni prese e poi ritrattate. In verità la decisione fu immediata al primo cenno di assenso di Carlotta che tuttavia voleva scaricare tutta la responsabilità sul capo. La cena fu ottima e il Chianti all’altezza della situazione. Sul seguito della nottata Biagioli fu reticente anche con il dottor Cortesi e forse soprattutto con se stesso. Per la simpatia che ci suscita rispetteremo questa sua riservatezza di maschio umiliato. Al ritorno, vilmente, lasciò che l’ironia degli altri accreditasse la tesi più scontata. Il vecchio marpione aveva ottenuto ciò che voleva per poi perdere rapidamente interesse per l’insignificante ragazzetta. Insomma proprio quella “una botta e via” che mai nella vita aveva sperimentato.

Il rimuginio autosvalutativo su questo episodio era ancora presente al momento del ricovero e si era portato appresso una slavina di altre considerazioni negative sulla sua vita che andavano via via ingigantendosi come una valanga che si autoalimenta. Tuttavia, a suo onore, Cortesi riconobbe che il dottor Biagioli non era impazzito per una donna, anzi una ragazzina. Infatti il cupo concentrarsi sui fallimenti esistenziali fu incrementato dalla richiesta dell’osservatorio epidemiologico regionale che chiese un report sugli esiti dei trattamenti degli ultimi 5 anni. Si trattava di riprendere in mano tutte le vecchie cartelle e valutarne l’esito, un lavoro pesante e noioso da fare come al solito in tempi brevi. Biagioli che aveva molte ferie arretrate si chiuse in casa sommergendola di cartelle e limitandosi a passare al CIM ogni tre giorni per firmare le carte più urgenti. A dirigere l’attività clinica lasciò la dottoressa Mattiacci, felice di mostrare il suo valore di capo. Luca e Antonio erano contenti della decisione del padre di stare a casa per un periodo e se ne attribuivano orgogliosamente il merito per l’intervento sul Gran Sasso. Ornella che non amava averlo tra i piedi per casa aveva ampliato i suoi turni nel reparto di pediatria. Non si spiegava perché i ragazzi la sollecitassero a prendersi del tempo e fare cose insieme al padre. Regalarono loro biglietti per il teatro Sistina ed un week end in Umbria acquistato su Groupon. Nella mente di Biagioli il posto progressivamente lasciato vacante da Carlotta e da Luisa non veniva però riconquistato da Ornella che al tempo di Maria ne era stata imperatrice assoluta. Erano piuttosto i fantasmi che uscivano dalle cartelle cliniche a ripopolarlo minacciosi.

Nella ricostruzione fatta con il dottor Cortesi chiamarono questo periodo “la pressurizzazione” che esprimeva la sensazione di Carlo del progressivo incremento di una intollerabile pressione interna. Le cose forse sarebbero andate diversamente se in quella fase avesse avuto una valvola come le pentole, ma lo sfogo con gli altri era precluso dalla vergogna. Solo per ore nel suo studio si chiedeva se tra le vittime della sua cattiva attività clinica oltre ai numerosi suicidi dovesse mettere anche i 77 gatti di Cristina Forni e il povero cane impiccato di Alessandro Pezzato. Aveva negli occhi il suo corpo penzolante col filo di ferro stretto al collo e le feci a terra sotto di lui. Povera bestia! All’Osservatorio epidemiologico regionale non sarebbero interessati ma lui li aveva sulla coscienza. Ricordava perfettamente i volti della vecchia Cristina Forni che era stata la prima, della fragile Violetta che gli ricordava Carlotta e del giovane Mario bello come James Dean. Il fantasma più fastidioso, come da vivo, era quello di Dante il fratello alcolista di Gilda morto in ambulanza con a fianco lei ed il suo amico Giò al cui funerale c’era il CIM al completo, la sua vera famiglia. E dove mettere Clotilde schiantatasi a 180 KM/h con la sua Honda? o Olly crivellato di colpi da una banda rivale? e Salvatore Misano giustiziato con sodomia esplosiva dal padre di un bambino da vendicare? Quante di queste morti, anche se nessun giudice lo avrebbe mai condannato, erano da attribuire alla sua incompetenza e superficialità! Per fortuna Alberto il pilota scomparso in una base del circolo polare artico non rientrava ufficialmente nella categoria “suicidi” ma questo valeva solo per la statistica. Se alcuni di questi erano chiaramente soltanto dei suoi scrupoli interiori di cui parlare col suo supervisore o, per come andarono effettivamente le cose, con il suo psichiatra curante il dottor Cortesi, di altri fatti era certamente colpevole e forse persino penalmente perseguibile. Non sarebbe dovuto intervenire con più decisione agli spaventati appelli della quarantenne Livia sua amica e seconda moglie di Altamura evitandone la morte violenta, avendo per altro da sempre nutrito dubbi sullo strano suicidio di Armida la prima moglie? Non era forse possibile che la signora Olga Simoni, rimessa in libertà grazie alla sua perizia compiacente, imperversasse in questo momento nel continente africano dove la sua missione di angelo della morte che pacifica ogni dolore avrebbe potuto concretizzarsi in stragi di bambini innocenti?

Altro che resoconti epidemiologici per la Regione. Ebbe il sospetto prima, la certezza poi, che quella fosse l’ultima possibilità che gli era offerta. Volevano vedere (l’utilizzo del “loro” per indicare gli altri segnava il preciso punto di ingresso nel delirio paranoico, avrebbe detto se si fosse trattato di un altro) se si fosse pentito da solo, spontaneamente, prima di doverlo fare schiacciato dalle prove. Da un giorno all’altro gli sarebbe stato consegnato il mandato di cattura da un giovane appuntato dell’Arma, orgoglioso per un arresto tanto importante (il narcisismo trovava comunque modo di far capolino). In genere ciò avviene alle prime luci dell’alba. Sperava fosse una notte di turno in ospedale per Ornella. Per risparmiare il brutto spettacolo ai ragazzi, aveva preso l’abitudine di alzarsi alle 4 del mattino e aspettare il compiersi del suo destino frugando al computer sui giornali locali i più interessati a vicende di questo genere. Le settimane passavano senza che nulla accadesse tranne il montare di una angoscia incontenibile che gli faceva preferire qualsiasi conclusione purchè tutto avesse presto fine. Aveva pensato di costituirsi per evitare le manette e le sirene spiegate. Quando ne parlarono Cortesi gli fece notare come anche in questo si esprimesse il suo “fottuto narcisismo” ( disse proprio così dando probabilmente voce più al dipendente di Carlo che all’attuale ruolo di curante). Fantasticava il suo arresto come quello di Bernardo Provenzano con un dispiegamento di forze pari a quelle utilizzate dal pentagono per la cattura vivo o morto ( meglio la seconda delle due) di Bin Laden. Per evitare conflitti a fuoco e vittime incolpevoli si aggirava gran parte delle vuote mattinate intorno al palazzo di giustizia di Vontano in attesa di una incruenta cattura.

Durante quell’inconcludente girovagare in attesa del compiersi del suo destino incontrò l’avvocato Vincenzo Sarno un ex compagno di liceo che non vedeva dai tempi della vicenda di Villa Santovino quando gli aveva dato alcune dritte che si erano dimostrate efficaci. Gli parlò della sua intenzione di costituirsi. Ai tempi del liceo il Sarno, figlio unico del principe del foro Salvatore Sarno e per questo destinato ad una brillante carriera a dispetto degli evidenti limiti intellettivi, gli stava assolutamente sulle palle. La bellezza aiutata dall’abbondanza di denaro lo rendeva competitivo e inviso agli altri maschi nonostante la goffagine interpersonale. Per tentare di risultare simpatico si vantava di conoscere i segreti più intimi degli altri e li divulgava. Ciò gli aveva meritato il soprannome di “amplificatore” e lo aveva progressivamente isolato. Brillava anche per totale assenza di empatia come fosse del tutto privo dei non ancora scoperti “neuroni specchio”. Non riusciva a cogliere gli stati d’animo altrui e aveva una capacità di comprensione psicologica pari ad un aspirapolvere spento.

Ebbene persino l’ottuso Vincenzo Sarno di fronte alle dichiarazioni di Biagioli circa le sue colpe e l’intenzione di costituirsi si allarmò. Considerato che la loro conversazione non era coperta dal segreto professionale chiamò Brugnoli che sapeva essere intimo amico di Carlo per esprimergli le sue preoccupazioni. In effetti nessuno al CIM si era reso conto di quanto la situazione stesse precipitando. Quando passava per firmare le carte più urgenti Carlo scambiava poche parole, si informava sommariamente dei casi più gravi e fuggiva immediatamente. Il deterioramento igienico era evidente ma giustificato come la trascuratezza nell’abbigliamento dal fatto di non uscire praticamente di casa. La verità è che non si vuole vedere la gravità nelle persone che si hanno a cuore ed è proprio per questo che è buona norma non curare amici e parenti. Si nega l’evidenza che persino il cecato Vincenzo Sarno aveva avvertito. L’evidenza che sarebbe saltata agli occhi di qualsiasi psichiatra estraneo era che il dottor Biagioli stava precipitando in una depressione profonda con aspetti francamente deliranti e un consistente rischio suicidiario. Il momento peggiore era al risveglio mattutino precocissimo intorno alle 3, 3 e mezzo. Inarrestabile gli scorreva in mente il film in bianco e nero della sua esistenza che gli appariva vuota, inutile, senza senso passato nè futuro. Cercava di opporsi al flusso magmatico di autodenigrazione elencando sul piano professionale le cose fatte, gli indubitabili risultati raggiunti, da dove era partito e dove era arrivato. Il disgusto per sé non recedeva di un passo. Le colpe maggiori le riferiva all’ambito affettivo dove si rimproverava superficialità e incapacità di sentimenti autentici. Gli sembrava di aver causato sofferenze gratuite a tutte le persone che lo avevano amato. Si sentiva come un insaziabile predatore che alla fine di una caccia spietata rimane solo in un deserto di carcasse putrescenti e l’incolmabile pancia vuota. Quasi a discolparsi elencava le diagnosi che si attribuiva ( borderline, antisociale, narcisista maligno) e quanto altro potesse attribuire ad una incolpevole malattia il suo abietto comportamento ( sperava fosse riconosciuto almeno parzialmente non in grado di intendere e di volere).

Ma il senso di ontologica indegnità non se ne andava mai. Tutt’al più poteva essere accantonato da quando con una doccia dava inizio alle attività frenetiche e inconcludenti della giornata e giungeva all’appuntamento delle 8.00 con la prima dose di benzodiazepine e soprattutto alle 10.00 con il primo Martini della giornata. Al massimo all’ora di pranzo la sobrietà era definitivamente perduta fino alle 3,00 del mattino successivo. il bere e il trascinare così le sue giornate erano un ulteriore motivo di disprezzo di sè. Ornella che da tempo si era accorta, tra un turno in ospedale e un altro, del malessere del marito gli aveva suggerito di riprendere la terapia tentata qualche anno prima. Si era sentita rispondere che non credeva in quelle cose nonostante le avesse mendacemente proposte agli altri per una vita intera. Le disse che se anche fosse stato possibile cambiare non ne aveva più voglia. Era troppo tardi per diventare un altro migliore, per gioire della vita. Ormai non doveva mancare molto e non se la sentiva di deludere tutti smontando il castello di falsità che aveva costruito. Nella prossima esistenza si sarebbe comportato diversamente ma per questa volta era andata così, non aveva saputo far meglio. Aspettava solo che calasse il sipario. Con lei e con i figli aveva un atteggiamento eccessivamente accondiscendente come a chiedere continuamente scusa. Nonostante tutti in famiglia lo rassicurassero continuava a ripetere che il danno provocato era irreversibile, non si poteva tornare indietro e non era possibile risarcimento o riparazione. Il corso delle cose era stato da lui irrimediabilmente deviato. Non era in suo potere far nulla per rimediare. Restava solo la sterile espiazione. Ornella gli leggeva negli occhi questo pensiero e si angosciava per le conseguenze sui figli. Fu per questo che decise di andare personalmente al CIM per capire quanto i colleghi fossero consapevoli della gravità e cosa intendessero fare. Era persino disposta ad una tregua transitoria con Luisa per il bene di Carlo. L’apprendere del suo trasferimento da un lato la rincuorò per non doverla incontrare, dall’altro le sollevò lo sgradevole dubbio che la crisi del marito fosse dovuta proprio a quel distacco.

Di Carlotta al contrario ignorava l’esistenza e si meravigliò molto dell’insistenza con cui la ragazzina chiedeva notizie del marito. Ornella partecipò ad una vera e propria riunione clinica sul caso in cui si doveva decidere la sorte psichiatrica del capo degli psichiatri momentaneamente fuori di testa. Brugnoli, troppo amico per non finire nel ruolo del medico pietoso…… sosteneva che bisognasse tentare un trattamento domiciliare e si offrì di ottenerne da Carlo il consenso. Per Irati non c’era altra soluzione che un ricovero che caldeggiava la stessa Ornella senza perdere altro tempo. Irati propose la Clinica “Castello della quiete”di Roma dove aveva delle conoscenze e il ricovero sarebbe potuto rimanere riservato. Cortesi disse che Carlo non avrebbe mai voluto andare in privato e si sarebbe voluto ricoverare proprio nel suo SPDC di Vontano. Per salvare la faccia magari si sarebbe potuto sostenere che il capo aveva voluto ricoverarsi per un periodo al semplice scopo di osservare le dinamiche interne al reparto e gli scostamenti dalle procedure di eccellenza in modi da migliorarne l’efficienza. Insomma si poteva sostenere che non di ricovero si trattasse ma di una sorta di ispezione interna ( come il ricovero in manicomio di Jasper o la beffa di Rosenham agli ospedali psichiatrici statunitensi). La figura di Carlo ne sarebbe uscita persino rafforzata.

A questa ipotesi si oppose con fermezza Brugnoli. Carlo non avrebbe mai voluto che la sua malattia mentale fosse nascosta come si trattasse di una vergogna: avevano sempre combattuto contro lo stigma. La delegazione incaricata di comunicare la decisione a Carlo non come suggerimento ma come risoluzione non negoziabile presa per il suo bene e per quello dell’intero servizio fu scelta per votazione e tra mille incertezze. La composizione prevedeva cinque membri. La dottoressa Mattaccini in veste di responsabile pro tempore del CIM nominata dallo stesso Biagioli. Brugnoli e Gilda in quanto amici più fidati di Carlo e con un certo ascendente su di lui. Luigi Cortesi scelto come il terapeuta che avrebbe seguito Carlo durante il ricovero e si sarebbe trasferito in SPDC. Luisa Tigli che, rassicurata dal mancato rinnovo del contratto di Carlotta e sinceramente preoccupata per le notizie che arrivavano in ospedale sulla salute di Carlo, si disse felice di potersi prendere cura del suo Carlo nel reparto in cui da qualche mese lavorava. Ornella e soprattutto i figli temevano una reazione molto negativa del padre nel momento in cui si fossero presentati i colleghi del CIM per comunicargli che, non se ne rendeva conto ma era ufficialmente matto e se non lo avesse capito gli avrebbero fatto un TSO. Luca temeva un gesto eclatante come un tentato suicidio o più probabilmente una fuga e già immaginava la notorietà che gli avrebbe dato la partecipazione in prima serata a ”Chi l’ha visto??” per lanciare accorati appelli per un pronto ritorno del padre. Nonostante i successi scolastici non aveva mai del tutto rinunciato al sogno di un facile successo nel mondo dello spettacolo. Antonio invece immaginava un TSO piuttosto movimentato e l’insopportabile vergogna che avrebbe coperto l’intera famiglia. Entrambi preferirono non esserci.

Ad aprire la porta alla numerosa delegazione restò la sola Ornella, peraltro indispettita dall’aggiunta di Luisa quantunque sapeva potesse essere decisiva. Passata l’emergenza avrebbe fatto pulizia anche su questa annosa vicenda. Biagioli li fece accomodare in soggiorno e servì personalmente ad ognuno le bevande che sapeva preferire. Nell’ascoltare i loro discorsi imbarazzati, le frasi smozzicate, le reciproche interruzioni e i goffi passaggi di testimone nei momenti in cui bisognava esprimere i concetti decisivi e più duri il suo volto si faceva sempre più rilassato. Li aveva accolti con lo sguardo torvo e allarmato di chi si sente minacciato. Ora la tensione andava sciogliendosi quasi in un sorriso. Brugnoli immancabile ottimista quando si trattava dell’amico arrivò a pensare che si trattasse di uno scherzo. Biagioli si sarebbe messo a ridere confessando di aver inventato tutto e poi li avrebbe rimproverati per il ritardo nell’intervento. Avevano fatto passare troppo tempo e se si fosse trattato di un paziente vero chissà cosa sarebbe potuto succedere. Infine avrebbe concluso con aria paternalistica che non poteva ancora lasciarli soli e gli toccava lavorare ancora per chissà quanti anni, felice di sentirsi indispensabile. Non era così o se lo era nessuno lo seppe mai. Tuttavia realmente con il passare dei minuti Carlo si rasserenava e tornava ad essere quello di sempre.

Chi si incupiva progressivamente era piuttosto Ornella che aveva messo in relazione, come avrebbero fatto malignamente gli altri colleghi rimasti al CIM in attesa di notizie pronti ad un intervento muscolare se si fosse reso necessario, il rifiorire di Carlo con il ritorno di Luisa. Il calore affettuoso che lo circondava sciolse il delirio come neve al sole d’agosto. Carlo ripercorse in senso inverso in meno di un’ora la costruzione del delirio di indegnità e di colpa che lo aveva impegnato negli ultimi mesi. Di fronte alle attestazioni di stima e soprattutto di affetto dei colleghi i fantasmi dei pazienti suicidi si dissolsero e le paure paranoiche di un arresto con conflitto a fuoco lo fecero sorridere.

Effettivamente era proprio impazzito e loro stavano lì a certificarlo. Meno male. Non era gradevole scoprirsi pazzo e giurò che si sarebbe fatto curare ma, in compenso, era meraviglioso che tutte quelle cose non fossero vere. Almeno non del tutto, suggerì una vocina residua. Convenne con gli altri che gli serviva un momento di stacco da dedicarsi per capire cosa diavolo gli fosse successo e perchè. Carlotta non ricordava quasi più chi fosse, non poteva essere stato a causa sua tutto questo casino. Mentre preparava la valigia con il minimo indispensabile per l’igiene e qualche libro da studiare sempre in arretrato pensò che era contento che a guidarlo in questa scoperta delle parti più fragili e imputridite di sé fosse quella brava persona di Luigi Cortesi, uomo di poche teorie e tanta amorevole curiosità. Volle andare con la sua auto che tanto aveva il permesso di parcheggio all’interno dell’ ospedale. Al CIM rinfoderarono i muscoli e abbassarono il livello di allarme.

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