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Mindfulness: stato mentale o funzione della mente?

Di Andrea Bassanini

Pubblicato il 19 Giu. 2015

Commento di Andrea Bassanini all’articolo di Claudia Perdighe: Accettazione e mindfulness: guardare le cose dal lato sbagliato del cannocchiale è sempre una buona soluzione?

Leggo con molto interesse l’articolo pubblicato in questi giorni su State of Mind “Accettazione e mindfulness: guardare le cose dal lato sbagliato del cannocchiale è sempre una buona soluzione?” di Claudia Perdighe, con cui ho avuto il piacere di condividere la co-conduzione di un workshop ACT & Mindfulness nel 2014, e mi sento spinto a rispondere aggiungendo alcune considerazioni e alimentando la discussione su un tema, accettazione e mindfulness, a me molto caro e che continua a diventare più intricato in modo direttamente proporzionale con la sua diffusione nel mondo della psicoterapia.

Che la pratica della Mindfulness sia un potente strumento terapeutico ormai è un dato supportato da molti dati di ricerca (il testo citato dalla collega, Baer, 2012 lo dimostra)… Sul fatto che la pratica di mindfulness sia una procedura che faciliti il distanziamento dagli stati interni mi vengono in mente alcune prime considerazioni.

 

Il distanziamento nella mindfulness

Ciò che nella mia mente sta entrando con potenza mentre scrivo è Ma nell’esperienza della pratica non c’è distanziamento! E poi distanziamento da cosa? Dagli stati interni o dal grado di adesione e di identificazione con quegli stessi stati?

detto in altro modo: “Dal contenuto e dalla presenza di quegli stessi stati (che forse sarebbe un evitamento?) o dalla identificazione acritica e automatica con essi?”

Credo che questo sia un punto cruciale, che spesso porta con sé grandi fraintendimenti, soprattutto perché credo sia un concetto che vada oltre le facoltà della nostra mente concettuale, logica e narrativa e che richiede esperienza di pratica, conoscenza implicita e intuitiva per comprenderne il funzionamento. E questo sembra essere un primo paradosso della mindfulness…

 

La definizione di accettazione

Sono d’accordo che il concetto di accettazione sia complesso e molto articolato e che tutt’oggi non esista una definizione operativa univoca. Visto che tutti noi terapeuti, prima o poi, facciamo scelte sui riferimenti cui ispirarci, io prendo come riferimento la definizione di Steven Hayes, fondatore della Acceptance and Commitment Therapy, che definisce la accettazione come

“An adoption of an intentionally open, receptive, and flexible posture with respect to moment-to-moment experience. Acceptance is not passive tolerance or resignation but an intentional behavior that alters the function of inner experiences from events to be avoided to a focus of interest, curiosity and observation as part of living a valued life” (Hayes et al., 2012, p.6, credo che mantenere il testo in lingua originale permette di ridurre al minimo l’errore semantico nella traduzione…).

Fatico a intendere l’accettazione come una “rinuncia a opporsi, anche solo psicologicamente, a un evento interno o esterno”. Nella mia esperienza di pratica, che credo sia esperienza abbastanza condivisibile da chi pratica, l’accettazione riguarda più che altro l’impegno, l’intenzione, il prendere atto, il dirigere l’attenzione, il fare un atto di consapevolezza, il partecipare, il vedere e constatare le cose e gli eventi (anche e soprattutto quelli interni) per come sono, per come si presentano nel momento, cioè come oggetti dell’esperienza, come parte dell’esperienza del momento, in continua evoluzione per sua natura.

E qui ci troviamo di fronte ad un secondo paradosso, da cui, anche in questo caso, non credo si possa uscire con le nostre procedure “concettuali-logiche”: lascio andare deliberatamente uno sforzo, una lotta, come ad esempio il controllo o l’evitare a tutti i costi il dolore e le difficoltà, per trovarmi di fronte ad un’altra lotta, chiamiamola impegno e responsabilità, se quest’ultima è utile e funzionale alle cose che per me sono importanti (NON uso di proposito il termine “valori” perché a mio parere spariglia troppo le carte e connota il termine con significati che il termine inglese “value” non ha…).

Una lotta che ha a che fare con l’impegno dell’azione, la committed action per come viene chiamata nella ACT basata su ciò che per il singolo individuo ha peso nella vita, è importante.  

 

Accettazione vs scopi e obiettivi

Sebbene la terminologia scopistica non sia a me molto affine, nell’articolo della collega Perdighe viene fatto riferimento all’accettazione come ad un ultimo e finale “abbandono dello scopo”. Mi aiuta di più pensare a un investimento diverso delle risorse verso qualcosa che per l’individuo è più soddisfacente rispetto all’abbandonare qualcosa. Leggendo “abbandono” i pensieri saltano alla famosa frase di Russ Harris che chiama gli obiettivi nella forma negativa (ad es., NON provare più tristezza” come a “Dead Man Goals”, obiettivi da uomo morto… Nell’intendere l’accettazione come a una rinuncia si rischia, a mio parere, di connotare un processo vitale, energico e soddisfacente come se fosse una rassegnazione masochistica, da stoici, in cui nulla e niente mi tocca e faccio anche finta di non esserne ferito…

 

Stoicismo vs Buddhismo

Accostare gli stoici e Abhidharma (la psicologia buddhista, per come viene considerato in Occidente) mi lascia un senso di inquietudine e di ingiustizia che provo a trasformare in parole… Lo stoicismo, in breve, rientra nel campo delle filosofie razionaliste influenzate dal Cinismo, che professava un atteggiamento ramingo, indifferente alle emozioni e alla preferenze, in cui l’aspetto della vitalità, della partecipazione é pressoché assente.

Mettendo insieme questa mia visione semplicistica dello stoicismo e le definizioni di Mindfulness date dai suoi maggiori diffusori, ci troviamo di fronte a un fraintendimento che fa riflettere: Marlatt & Kristeller (1999): “portare la propria completa attenzione sull’esperienza vissuta nel presente, momento per momento”; Brown & Ryan (2003): “stato in cui si è attenti e consapevoli di quanto avviene nel momento presente”; Segal et al. (2002): “il focus dell’attenzione è aperto ad ammettere qualsiasi cosa entri nell’esperienza e che contemporaneamente un atteggiamento di gentile curiosità consenta di indagare qualsiasi cosa si manifesti, senza essere vittima di giudizi automatici o reattività” ; Kabat-Zinn (2003): “la mindfulness include una partecipazione affettuosa e compassionevole, una presenza e un interesse sinceri e amichevoli”; Carol Wilson (2004): “attenzione pienamente partecipatoria all’esperienza mentre essa accade”.

In queste definizioni non sembra essere presente quell’idea presente nell’immaginario collettivo del monaco ritirato in monastero che sfugge alla vita mondana. Nella concretezza della pratica di consapevolezza, che include sì i ritiri di pratica, il ritiro dalle attività quotidiane per periodo di tempo stabiliti e brevi è soltanto un mezzo, una condizione privilegiata grazie alla quale le abilità legate alla pratica possono essere allenate e migliorate, non una metà cui aspirare…

 

Cosa rende la mindfulness un intervento di psicoterapia?

E mi trovo ora a riflettere su un terzo paradosso, sollecitato dalla domanda inserita nell’articolo dalla collega Perdighe: cosa renda la mindfulness un intervento di psicoterapia? Paradosso perché la pratica della mindfulness, almeno per come era nelle intenzioni iniziali di Jon Kabat-Zinn è e dovrebbe rimanere in primis pratica di consapevolezza; che ciò sia terapeutico, in un senso forse diverso dalla concettualizzazione di terapia come di “riparazione di qualcosa che si è rotto” (citando Rachel Remen…), risiede nel fatto che la pratica della mindfulness, come molte altre terapie cosiddette di Terza Ondata, ha come obiettivo principale la flessibilità psicologica, la riduzione della rigidità degli schemi abituali di reazione e di funzionamento, partendo da una prospettiva di completa fiducia nelle risorse individuali per così dire “naturali”.

Questo, come scrive la collega, “apre la questione su cosa qualifica un intervento come psicoterapeutico, e la questione è certamente assai complessa e di non facile soluzione”, ma credo sia un argomento di importanza cruciale, in luce dei nuovi sviluppi della psicoterapia e più in generale della integrative mind-body medicine, che richiede a mio parere una riflessione sui nostri paradigmi di riferimento.

 

Mindfulness: stato mentale o processo della mente?

Un’altra questione che ha sollevato il mio interesse è la domanda inclusa nell’articolo in merito a “che tipo di stato mentale stiamo promuovendo nei nostri pazienti quando offriamo la mindfulness?” Credo sia importante riflettere sul fatto che la mindfulness sia davvero uno stato mentale. Diversi ricercatori che si occupano di studi sulla coscienza ritengono che la consapevolezza (cosiddetta mindfulness) di fatto non sia uno stato mentale bensì un processo, una funzione della mente “vuota” da un punto di vista del contenuto, e soprattutto da una connotazione valoriale (nel senso di ideologia) e piena dal punto di vista del contatto partecipato con l’esperienza.

Certo, il campo dello studio delle funzioni della coscienza spesso scollina nella filosofia ma può essere un valido sostegno a predisporre chi propone la pratica di consapevolezza in una prospettiva diversa, in cui non stiamo proponendo una visione del mondo, nemmeno un culto, e nemmeno una via nobile per diventare “buddhisti”, e nemmeno una visione ideologica fricchettona e New Age.

Stiamo proponendo un addestramento alla consapevolezza (obiettivo peraltro di moltissime psicoterapie, la consapevolezza…), perché la ricerca ci dice che è un mezzo utile e perché, ancor prima della ricerca, è una funzione che accomuna tutti gli esseri umani e che può essere allenata. Proporre un sistema di valori, nel senso ideologico del termine, credo sarebbe un illecito disciplinare che andrebbe molto oltre la nostra professione e che ci farebbe tornare indietro di almeno cento anni, non differenziando il nostro praticare come psicoterapeuti dal consulente spirituale, dal prete o dal Vecchio del villaggio, che dispensa consigli e “saggezze” a tutta la comunità.

 

Provo a ipotizzare una riflessione alla domanda del paziente indicata nell’articolo della collega Perdighe: “Capisco che imparare a prendere le distanze dalle mie ruminazioni e dalle mie ansie mi faccia star meglio, ma non è un ostacolo all’impegno massimo per i miei scopi? È sicura che sia meglio per me mirare alla riduzione dell’infelicità piuttosto che al perseguimento dei miei scopi?”

No, forse non è meglio! Vorremmo davvero passare la vita a impegnarci a ridurre l’infelicità? O forse sarebbe più soddisfacente ridurre la disidentificazione con i propri stati mentali e focalizzare l’attenzione su ciò che per me è importante, che sia raggiungibile, fattibile e vitale e impegnarci per questo?

 

“Che sistema di valori mi sta passando?” – Forse una risposta adatta dal mio punto di vista da istruttore mindfulness sarebbe: “Nessuno, stiamo allenando alcune funzioni, alcune abilità che ci permetteranno di essere più flessibili. Discutere di valori, nel senso di ideologia, non è compito di noi terapeuti, men che meno compito degli istruttori Mindfulness né dei terapisti ACT…” Sapere invece cosa per i nostri pazienti è importante, a cosa danno peso, come è la persona che vorrebbero essere sì, e a mio parere ha una importanza cruciale, in termini terapeutici e in termini relazionali.

Concludo questa breve riflessione citando Jon Kabat-Zinn, che nel 2003 scrive:

“Poiché è probabile che in futuro l’interesse per la mindfulness e la sua applicazione a specifici disturbi affettivi continui a crescere, soprattutto all’interno della comunità dei terapeuti cognitivisti (…) diventa di importanza cruciale che quelle persone che si avvicinano a questo campo con interesse professionale ed entusiasmo riconoscano l’aspetto peculiare e le caratteristiche distintive della mindfulness in quanto pratica di consapevolezza, con tutto ciò che implica; ossia che la mindfulness non va concepita come una nuova promettente tecnica o esercizio cognitivo-comportamentale, decontestualizzato, innestato in un paradigma cognitivista, il cui scopo sia di indurre un cambiamento desiderabile (…) La mindfulness non è solo una buona idea che, dopo averne sentito parlare, si possa immediatamente decidere di vivere nel presente, con la promessa di una riduzione dell’ansia e della depressione o di un aumento delle prestazioni e della qualità di vita, e che si possa poi rimettere in pratica all’istante in modo attendibile. È più somigliante invece a una forma di arte che si sviluppa col tempo, ed è grandemente incrementata attraverso una pratica regolare, quotidiana, sia formale che informale”.  

Forse è questo un buon punto su cui noi terapisti interessati alla pratica della mindfulness e alla sua integrazione in psicoterapia possiamo iniziare le nostre riflessioni e discussioni.

LEGGI L’ARTICOLO DI CLAUDIA PERDIGHE

ARTICOLI SULLA MINDFULNESS

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Steven C. Hayes, et al., Acceptance and Commitment Therapy and Contextual Behavioral Science: Examining the Progress of a Distinctive Model of Behavioral and Cognitive Therapy, Behavior Therapy (2011), 10.1016/j.beth.2009.08.002
  • Harris R. (2008). The Happiness Trap. Robinson Publishing ltd: London (UK).
  • Brown K.W. & Ryan R.M. (2003). The Benefits of Being Present: Mindfulness and Its Role in Psychological Well-Being. Journal of Personality and Social Psychology, 84(4): 822–848 – DOI: 10.1037/0022-3514.84.4.822
  • Kabat-Zinn J. (2003). Mindfulness-Based Interventions in Context: Past, Present, and Future. Clinical Psychology: Science and Practice, 10(2): 144–156.
  • Remen R. (2000). My Grandfather’s Blessings: Stories of Strength, Refuge, and Belonging. Riverhead Books: New York.
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Andrea Bassanini
Andrea Bassanini

Psicologo - Spec. in Psicoterapia Cognitiva e Cognitivo-Comportamentale

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