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Intervista a Liliana Cavani: un viaggio dall’infanzia all’attualità della regista

Liliana Cavani in un'intervista ripercorre la sua vita dalla sua infanzia all'attualità con riferimenti alla sua vita privata e professionale - Psicologia

Di Cristiana di San Marzano

Pubblicato il 24 Giu. 2015

L’iniziale riserbo è diventato racconto, un fiume di parole, di ricordi, di antiche sensazioni. Una casa affollata di parenti a Carpi, l’incontro della bambina con la morte, l’amore dei nonni, l’assenza del padre. E poi l’amore della giovane donna per la storia, un amore che diventa riflessione sul Male, sulla rimozione, sulla intolleranza.

 

Non è facile intervistare Liliana Cavani su temi che non siano strettamente legati al suo lavoro di regista. Il suo pudore nel parlare di se stessa è contagioso, sulle prime può apparire una barriera invalicabile. [blockquote style=”1″]Preferisco parlare del mio lavoro. Ma proviamoci. Registra?[/blockquote] Dice con un tono perplesso.

E così ho registrato. Una conversazione lunga un intero pomeriggio nella penombra del suo salotto. L’iniziale riserbo è diventato racconto, un fiume di parole, di ricordi, di antiche sensazioni. Una casa affollata di parenti a Carpi, l’incontro della bambina con la morte, l’amore dei nonni, l’assenza del padre. E poi l’amore della giovane donna per la storia, un amore che diventa riflessione sul Male, sulla rimozione, sulla intolleranza. La banalità della somatizzazione, il piacere della risata, la necessità della solitudine. Il breve viaggio nella psicoterapia e quello più lungo nella fratellanza, concetto che muove il suo lungo percorso nella conoscenza di San Francesco. Infine la ricerca di sé attraverso la storia delle religioni, e soprattutto la convinzione che la speranza sia una virtù indispensabile per la specie umana.

 

-Come era Liliana Cavani bambina? Testarda, paurosa, timida?

Ero molto vivace a scuola. Non stavo mai ferma nel banco, minimo dondolavo una gamba.

-Un ricordo che le è rimasto impresso?

Avevo una maestra in prima elementare che mi lasciava fare. Siccome ero rapida a fare le cose, mi guardava con benevolenza e non mi stava addosso. Aveva circa 60 anni, un giorno è stata male ed è arrivata una supplente, che avrà avuto 30 anni. Io ovviamente ero sempre io, facevo le stesse cose, non stavo mai ferma. Per castigo mi ha fatto stare in piedi e io ho ubbidito, però parlavo un po’. E allora mi ha chiamato, stava alla finestra dove c’erano i termosifoni e si scaldava le mani, improvvisamente mi ha dato un ceffone. Un ceffone imprevisto, non ti fai neanche da parte perché non te lo aspetti. Arriva e basta. È stato il primo e l’unico della mia vita, ma ne ricordo sempre il risuono sulla guancia. Oltretutto non avevo mai visto una cosa del genere, in casa mia nessuno si picchiava, per me era una novità.

– Come reagì?

Sul momento non versai una lacrima. Ma arrivata a casa trovai mia zia Libera, che aveva 8 o 9 anni più di me e che stava giocando con le amiche davanti al portone, e appena la vidi scoppiai a piangere. Neanche mia nonna riusciva a consolarmi, ero disperata. Io sono cresciuta con i nonni e le zie, e siccome non ero una che si lamentava, rimasero un po’ perplesse. Andarono a scuola a lamentarsi ma poi tutto finì lì, perché era una supplente, una persona fuori controllo, e difatti finì a fare la segretaria. Ma il ricordo è rimasto indelebile.

– Questo episodio ha poi influenzato in qualche modo la sua vita?

No, è stato superato. Ma sono sensibile alla violenza, anche se non ricevi un ceffone i violenti sono inaccettabili.

-Dice di essere stata una bimba vivace. Paure ne aveva?

Paure strane. Mi spaventai una sera vedendo dal mio letto sull’armadio un pallone gonfiabile, di quelli colorati a spicchi, improvvisamente sgonfio. Era finito in niente, rimasi interdetta, impaurita. E questo fa il paio con un altro episodio, successo quando ero molto piccola, avrò avuto due, massimo tre anni. Ero in braccio a zia Delfina e una vicina, che si chiamava Ribella, mi mostrò un bambolotto piuttosto grande, io lo toccai pensando fosse un bambino, invece era rigido. Mi fece una grande un’impressione, ho urlato come una pazza. Mai più ho voluto avere bambolotti, ne ho avuti in seguito, ma solo piccini.

-Crescendo ha avuto altre paure?

Abitavamo a Carpi sul corso Vittorio Emanuele, e alla fine c’era il Parco. Nel parco c’era l’ospedale, e nell’ospedale c’era l’obitorio. Come tutti i bambini ero curiosa e vedendo tante persone che andavano in una stanza un giorno le ho seguite, così ho visto il mio primo morto dai piedi.

-Che età aveva?

Avrò avuto circa sei anni. Era estate, sono sicura, perché c’era un parente che col fazzoletto mandava via le mosche. In effetti mi ha fatto un po’ effetto. Non è che non ci dormivo, però rimasi impressionata. Un’altra volta, e avrò avuto 8 anni, seguii un funerale che passava dal parco, ma mi fermai ai margini del cimitero, proprio lì dove aprono le bare che tirano su dal terreno dopo dieci anni. Ho assistito all’apertura di una cassa, c’era una salma ancora abbastanza composta, ma erano solo ossa.

-In famiglia sapevano di queste sue, chiamiamole, esperienze?

Assolutamente no, sapevo che non dovevo andare in giro quindi non dicevo niente. Ma la vista di quella salma sicuramente mi impressionò, la notte dormii tutta coperta, neanche la manina fuori.

-Si è misurata presto col concetto di morte.

Avevo un amichetto che perse la madre quando aveva sette o otto anni. Si chiamava Igea la mamma. Lui forse si chiamava Romolo. L’avevano esposta in casa e c’erano tutte queste persone intorno a lei, e io mi chiedevo ma perché non la svegliano? Perché non si muove? Non capivo il passaggio… era nella bara vestita, ma non parlava, era immobile. Il bambino non domanda, rimane attonito in queste occasioni, poi mette insieme le cose, le assomma. Ecco, probabilmente le ricordo e gliele racconto così, in fila, perché questa cosa della morte mi ha preoccupato quando ero piccola, non capivo l’evento, il seguito, il perché. Allora c’era un distacco fra gli adulti e i bambini molto più grosso di quello che c’è adesso.

-Oggi in genere tutti tengono alla larga i bambini dalla morte.

Sì, ma questa signora abitava al mio piano. Era inevitabile passare, entrare. Mi vedo ancora che guardo un attimo, non posso dimenticare l’impressione che mi fece perché non si muoveva. E poi, sempre su questo piano, c’è un altro episodio che mi è rimasto impresso. Una mattina che uscivo sul corso per andare a giocare al parco vidi tante persone tutte agitate che andavano verso la piazza. E allora io che faccio? Vado anch’io. C’era una folla vicino al castello, vidi dei repubblichini che mandavano indietro la gente. Io, essendo più piccola, riuscii a farmi largo. All’alba avevano ammazzato sedici partigiani, e infatti oggi si chiama piazza dei martiri, e io li vidi. Un gruppo di giovani uomini, gettati l’uno sull’altro a terra, col sangue raggrumato. E i parenti erano tutt’intorno tenuti fermi dai repubblichini. Impedivano di portarseli via, dovevano stare lì al momento, come esempio, come nell’Antigone. Quell’episodio, tutti quei cadaveri, mi tornò in mente quando giravo il film “ I cannibali”, l’avevo cancellata. Ma ora è come se la vedessi, nei minimi dettagli. Eppure non l’avevo mai raccontata a nessuno, neanche in casa mia, evidentemente un meccanismo di rimozione mi aveva fatto dimenticare.  Il passaggio tra il non sapere e la coscienza che c’è la vita e la morte nessuno te lo spiega. Ognuno forse lo apprende così, dagli eventi della vita come lo ho appreso io. Chi vedendo un parente che muore, chi un amico. D’altronde è un’iniziazione, che ti costringe a ragionare, a capire.

-La paura da bambino può incidere sulla crescita.

Mah, a me non ha tolto la vivacità. Ogni bambino prima o poi prende coscienza che ci sono persone che vanno via. Altre paure non ne ricordo, forse del buio come tutti i bambini. Anzi, mia madre mi raccontava delle favole paurose, ed era un po’ un gioco, perché mi piaceva dormire nel letto con lei, e in quei casi a volte ci riuscivo. Il lupo arriva sulle scale, è dietro la porta, ti mangia in un boccone! Nell’urlo l’abbracciavo e la paura si scioglieva.

-Era molto affollata la vostra casa?

Per una serie di ragioni ho vissuto in prevalenza con i nonni. In casa c’erano anche due sorelle di mia madre e un fratello. Io ero la più piccola, sì, sono cresciuta in un mondo di adulti. Però siccome mi divertiva studiare, riuscivo a isolarmi facilmente. Mi riesce ancora oggi.

-Ha bisogno della solitudine?

Per il mio lavoro ho bisogno di approfondire, di capire. La solitudine in questi casi mi è utile, l’apprezzo molto. Però non troppa, mi piace anche molto la compagnia, ho sempre avuto molti amici.

-Mai avuto paura della solitudine?

Finora no. Ma non sono mai stata obbligata a stare sola in un posto e magari avere paura. Non mi piacerebbe neanche esserci in un luogo simile, sicuramente non me lo vado a cercare. Mi piace la solitudine quando la scelgo, quando ne ho necessità, cosa che mi accade e allora diventa una solitudine necessaria e anche bella. E’ come l’aria che entra dalle finestre aperte di casa dopo che sono state chiuse. Una solitudine temporanea e scelta fa sempre molto bene, bisognerebbe prescriverla. È equilibrante soprattutto se si amano persone, perché si ha modo di pensarle meglio, più liberamente, di desiderare il loro bene davvero, cosa che non è sempre facile.

-Ha avuto rapporti con la psicanalisi?

Ho fatto due anni di psicoterapia in seguito alla morte di una carissima persona, un’amica di vecchia data cui volevo molto bene. Pensavo di non avere più l’età per l’analisi, era il 2004, però mi andava di ragionarci ma non da sola. Sandra Sassaroli mi ha consigliato una psicanalista molto in gamba, che mi ha aiutato molto, sono riuscita a parlare. Poi dopo un paio di anni ho smesso.

-Come mai?

Un viaggio ha i suoi tempi, almeno quel viaggio lì.

-Prima non era mai stata attirata dalla psicanalisi? Negli anni 80 era difficile incontrare un intellettuale che non fosse in analisi.

Ho scelto un lavoro che mi ha fatto analizzare molte cose, anche dentro di me. Certo che ero  interessata all’analisi, altroché, mi ci sono buttata a pesce, ma col mio lavoro. Agli inizi della mia carriera ho girato documentari, come “Storia del Terzo Reich”, che mi hanno fatto pensare, riflettere, analizzare. Quando sei costretto per lavoro a guardarti minuto per minuto tutto il materiale filmato della seconda guerra mondiale, quando vedi le scene dell’apertura dei lager, il contatto con la realtà è affrontato furiosamente, la guerra ti si presenta nella sua violenza estrema e con la sua assurdità ancora più estrema di ignoranza e di follia. E poi, quando sono andata a fare un documentario nelle università tedesche, a parlare di Hitler venti anni dopo con i ragazzi, mi chiedevano chi era. Ecco, in quei casi non puoi non riflettere e farti delle domande sul problema della rimozione e accusare in cuor tuo coloro che vogliono rimozioni senza un minimo di catarsi, senza un percorso di riflessione, senza tentare di capire che cosa è il Male. Senza capire che sulle colpe non espiate cresce erba velenosa. “Portiere di notte”, il germe del film, proviene da questa esperienza fatta per i documentari.  Di psicanalisi mi sono anche appassionata da ragazza leggendo tutto Thomas Mann, Musil. Mi interessava più quel mondo lì di quello francese, che invece ho indagato più tardi. Molte riflessioni le ho fatte anche quando ho girato Milarepa. Mi interessavo di testi di altre religioni, mi interessava il perché delle religioni, quindi l’analisi e la ricerca di sè attraverso la religione. Il viaggio interiore . La mia è stata una perenne ricerca di capire il senso delle cose fondamentali, compresi la primarietà di certi affetti nelle loro varianti di parentela, di amicizia, di amore.

-Da cosa nasce questa sua curiosità per le religioni?

Sono cresciuta in una famiglia molto laica, direi atea. Mio nonno e mia nonna si sposarono in municipio nel 1917, mio nonno era un socialista anarchico, mia nonna veniva da una famiglia tradizionalmente cattolica che abbandonò per sposarlo. Però non erano mangiapreti, avevano una mentalità tollerante, un’aspirazione profonda per una società giusta e libera. Non c’era odio, era contemplato che l’educazione fosse il frutto di una scelta in libertà con fondamentali di rispetto reciproco per tutti. Anche i cattolici dalle nostre parti sono stati galantuomini, più civili della media. Questo mi ha impedito di essere schierata poi come tanti miei colleghi. E per questo, forse, qualche volta ho incontrato non dico dei nemici, ma non ero appoggiata mai da nessuno.

-Quando si trova di fronte a un nemico, come reagisce?

Ci rimango male. Perché trovo ingiusto l’ostilità quando non c’è una motivazione.

-Ma come reagisce?

Niente, non faccio nulla. Quando soffro ho l’herpes e l’ulcera, che mi sono venuti insieme a 16 anni. Soffrivo più di quanto sapessi il rapporto con mio padre. Somatizzavo come poi ho sempre fatto, come del resto capita a tutti. Non c’è l’anima e il corpo. C’è il corpo che è anche anima .

-Nel suo lavoro, ci saranno momenti in cui sembra che niente funzioni, che tutto vada a rotoli.

Certo, anche per l’ultimo “Francesco”, sembrava non partisse mai.

-Come reagisce, si arrabbia?

Lì c’è poco da incazzarsi, con chi? Sono i poteri di chi ha il denaro. Voglio dire, so benissimo che ci sono tante cose ingiuste che capitano e mi sono capitate, ma spesso non ci puoi fare niente.

-Ma la rabbia lei ogni tanto la prova?

Sì, la provo ma raramente la esprimo. No, non la tiro fuori, mi ammalo. Il mio è un mestiere complesso, non conosco un collega a cui sia sempre andato tutto bene. I registi, ne conosco, sono spesso persone complicate ma al tempo stesso anche ingenue, capaci di soffrire molto ma anche di rallegrarsi presto. Ho sempre provato simpatia per i miei colleghi uomini o donne perché condivido tante loro ansie.

-Sul set, un attore fa i capricci, succede un imprevisto, urla mai?

Urlato no, mai. E perché? Non ricordo di avere litigato con un attore, a parte che cerco di sceglierli giusti, perché mi piace che mi portino anche qualcosa di imprevisto. Ma non ho mai avuto un brutto incontro. Gli attori principali cerco di averli dieci giorni prima, così leggiamo la sceneggiatura, ci conosciamo bene, e soprattutto parliamo della nostra vita. Mi ricordo quando venne Mickey Rourke a Roma dieci giorni prima delle riprese come avevo voluto. Il produttore dapprima non voleva pagare i dieci giorni in più di albergo. Invece è stato importantissimo, deve esserci il tempo di conoscersi. Pensavano che Mickey fosse un mezzo matto, quasi un balordo, invece è la più dolce persona che ho incontrato oltre ad essere l’attore più bravo che ho avuto. L’importante è conoscersi a questo mondo, provare a capirsi. Poi sugli attori ci sono spesso leggende stupide, io ho trovato sempre persone notevoli e umanamente molto ricche.

-Anche nella vita di tutti i giorni non litiga con gli amici?

Discuto, caspita se discuto.

-Non arriva mai a un punto di rottura?

Capita, e mi spiace tanto, se una persona mi fa un grosso torto e soprattutto se è una persona alla quale ho dato molta fiducia. Lì ci rimango di merda, e ingenuamente mi aspetto delle scuse. Se non arrivano resto in silenzio, ma non mollo. La persona deve almeno riconoscere un pochino i suoi torti. Mi è successo per esempio con un collaboratore con cui ho scritto una sceneggiatura su Mozart, ha pubblicato un libro usando il nostro lavoro ma firmandolo da solo. Rimasi malissimo. Evidentemente non lo conoscevo bene. Avrei dovuto sospettare, perché lasciò in malo modo sua moglie. Già uno che lascia la moglie mi fa restare male, ma se la lascia in malo modo diventa quasi infrequentabile.

-Quindi la delusione la fa soffrire?

Sì, se la delusione viene da una persona alla quale ho dato amicizia. Poi è difficile che torni sui miei passi. Cioè ci torno, ma per modo di dire. Finisce la complicità, ma a quel punto me ne frego. Devo dire però che non mi è successo spesso.

-Altri tipi di sofferenza nei rapporti con le persone?

Una fonte di sofferenza è stato mio padre, che praticamente si è disinteressato di me, e questo mi ha fatto male. Ma non mi ha neanche troppo segnata, perché sono cresciuta in una famiglia molto aperta, nel senso che nessuno faceva pesare niente. Nella mentalità dei miei nonni c’era tanta accoglienza, quindi se ne fregavano che mio padre se ne fregasse di me, dopotutto la famiglia ce l’avevo. Non ne parlavano, non ne facevano un dramma.

– Lei non ha il cognome di suo padre.

Non l’ho mai voluto. Si era fatto vivo tardi e io ho voluto a quel punto tenere il cognome della famiglia di mia madre. In seguito quando sono venuta a Roma e lui abitava lì, non si ricreò un clima affettivo. Diventai molto amica di una sua compagna, una pittrice fantastica intelligente e accogliente. Lui fatalmente era amico di persone delle quali poi diventai amica anche io, della Roma intellettuale, però non ho mai sentito il bisogno del suo appoggio, proprio perché non c’era quasi mai stato. Se era per lui (lo disse a mia madre quando facevo il liceo) dovevo trovarmi un marito e imparare a fare le tagliatelle. Eppure si credeva moderno.

-Quindi non le è pesata la mancanza di una figura paterna.

Avevo un nonno e una nonna molto forti, per me il modello di famiglia era quello, non mi mancava qualcosa. Sono cresciuta con molta libertà.

-Spesso quando i padri spariscono, negli anni si rischia di impostare rapporti con la paura dell’abbandono.

Ma io non ero abituata a vedere mio padre, quindi non posso dire di essere stata abbandonata. Non c’era. Abbiamo avuto degli incontri nel corso degli anni. Essendo un architetto mi ha fatto visitare già da ragazzina e a tappeto città come Vienna, Firenze, Roma. Devo riconoscere che è stato il primo a farmi conoscere l’arte con profondità e pazienza; ecco questo è stato un suo merito che gli riconosco.

-Lei è una persona allegra?

Beh, non è che vivo di risate, però amo l’allegria, adoro ridere. L’ultima grande risata me la sono fatta con Francesca Reggiani, che ha fatto di recente uno spettacolo all’Ambra Jovinelli dove ho riso per due ore di seguito. Ma è difficile trovarsi in situazioni che ti fanno ridere.
Difficile anche circondarsi di persone allegre, eppure quanto sono importanti! E devo dire che quasi sempre secondo me le persone tetre sono spesso anche un po’ stupide.

-Vorrebbe circondarsi di persone allegre?

Vorrei, ma poi ci sono persone allegre con cui si fanno grandi risate che nel tempo si rattristano, quella che poi si scopre malata, quella che sposa l’uomo sbagliato. È la vita che ha i suoi pesi. Non trascorro la mia vita con persone lugubri, questo no, ma se ci fosse da ridere di più ci starei. Per esempio io non so fare film comici, però mi piacciono.

-La mia impressione è che lei sia una persona che richiede molto a se stessa.

Non so. Dipende da quale è lo standard della richiesta.

-È sempre stata una diligente?

Beh non scappavo da scuola, ma avevo 8 e non 10 in condotta. Mi piaceva quello che facevo, non soffrivo studiando. Da ragazza mi sono tradotta l’Iliade da sola per passione, poi sono andata all’esame che leggevo il greco come il giornale. I librini con le note mi annoiavano molto così, traducendo verso dopo verso, mi è capitato di fare un viaggio dentro alla guerra di Troia. Lo vedo ancora, mi sono molto divertita.

-Il viaggio è un po’ una costante nel suo lavoro.

Sì, per girare Milarepa sono partita. Allora non si poteva andare in Tibet occupato dai cinesi, quindi prima sono andata in India, poi sono andata a Katmandu, dove allora non andava nessuno. Sono stata via due mesi.

-Quando dicevo viaggio, non intendevo tanto nei luoghi, ma era un termine metaforico di viaggio mentale.

Beh, Francesco per me è un viaggio.

-Aldo Grasso sul Corriere ha scritto che Francesco è l’ossessione della Cavani.

Che vorrà mai dire con ossessione? È un percorso. Perché un solo viaggio in certi posti non è sufficiente. Prendiamo Roma. Se uno ci fa un solo viaggio non la capirà mai. Roma ha strati diversi, vari e profondi. Francesco lo si sta scoprendo solo da qualche tempo, è stato il rivoluzionario più totale. Mentre il comunismo ha vantato l’uguaglianza, lui ha vantato la fratellanza, che è tutta altra cosa, un’altra visione sulla natura del mondo. Non siamo uguali, ma possiamo essere fratelli. Un concetto di una modernità incredibile.
Ci sono tante cose belle e tante tremende nell’individuo. Ignorarle sarebbe da sciocchi, ci sono tutte e due. Eppure l’uomo ha potenzialmente tutto in sé dall’alfa all’omega, intendo l’uomo che pensa che immagina che approfondisce che cerca.

-L’individuo alla fine ci salverà?

Salvarci da che cosa? Forse dalla banalità, dalla volgarità? Dalla morte? Dalla morte no perché la morte non esiste, lo dico seriamente. Ne convengono tutte le religioni. D’accordo con la scienza bisogna ammettere delle trasformazioni sulle quali però siamo ancora troppo ignoranti. Dio è vita comunque. I Vangeli sono un testo serio. E la Speranza è la virtù più civile che ci sia. Se non ci fosse nella specie umana questa virtù i manicomi e le prigioni avrebbero avuto tanti e tanti ospiti di più.

-C’è gente sospettosa, che mai dà la fiducia. Lei non mi sembra fra questi.

Io sono ingenua. Mia madre mi ha sempre detto che lo ero troppo, mi metteva in guardia. Invece avere fiducia non guasta. Certo prendi delusioni, ma io ho incontrato tante persone valide, intelligenti. Se sospetti sempre, se hai paura della delusione, poi non fai mai niente. Mia madre mi dava dell’ingenua perché io vado, faccio, mi butto, provo. Ma l’ingenuità va bene, ti aiuta ad aprire delle porte, a superare ostacoli. Altrimenti, se stai troppo ad analizzare tutto quanto, finisci davvero a perdere tempo e ti impedisci tutto l’imprevisto.

 

 

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