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ESSPD: Workshops on Personality Disorders, Estonia, 4-6 Giugno 2015

Il Congresso della ESSPD ha visto confrontarsi 6 speakers su diversi approcci per i disturbi di personalità, tra cui la TMI, la DBT e la Schema Therapy.

Di Giancarlo Dimaggio

Pubblicato il 08 Giu. 2015

Il congresso è della ESSPD (European Society for the Study of Personality Disorders). Un formato originale, una conferenza inusuale: tutto centrato sulla pratica clinica. Solo sei keynote speakers e poi workshop esperienziali.

Tallin, Estonia, inizi di giugno. Freddo, ventilato, ma con un sole limpido, luce fino a mezzanotte. La città vecchia è incantevole, case colorate, chiese ortodosse, mura medievali alle basi delle quali magliare venute da chissà quale epoca vendono guanti, cappelli, maglioni pesanti. Installazioni di giardini di fantasia subito fuori le mura, una sorpresa. Per i vicoli, un museo di marionette, dichiaratamente steampunk. Roba mai vista, pieno di bambini, pensato per chi ama Tim Burton. Ristoranti eleganti, una sera ceno in un posto, Manna La Roosa, che sembra un incrocio tra un club Burlesque, un film gotico e una fantasia mescolata di Dalì e Niki de Saint Phalle. È come visitare un museo. Questa è la cornice.

Il congresso è della ESSPD (European Society for the Study of Personality Disorders). Un formato originale, una conferenza inusuale: tutto centrato sulla pratica clinica. Solo sei keynote speakers e poi workshop esperienziali. Ogni speaker aveva un’ora di lettura plenaria per illustrare il proprio modello e poi teneva un workshop di 3 ore, ripetuto il giorno dopo. In questo modo i partecipanti avevano modo di ascoltare tutto e di seguire 4 dei 6 workshop in programma. Una vera esperienza di apprendimento. Lo è stata anche per me.

Congresso ESSPD, Tallinn, 2015

Anthony Bateman parla degli ultimi sviluppi del Mentalization Based Treatment per il disturbo antisociale di personalità. Per loro una nuova frontiera, dopo anni di lavoro sul borderline. Nella plenaria descrive l’adattamento del modello ai pazienti che seguono, si tratta di gente in libertà vigilata. Hanno in corso un trial multicentrico di efficacia, stanno raccogliendo i dati.

Il workshop di Bateman è molto bello. Poca accademia: invita un partecipante a simulare un paziente antisociale e conduce un breve frammento di seduta con lui. Si focalizza subito sul promuovere l’accesso agli stati interni. Ottimo, funziona. Tra l’altro vedo nella pratica clinica la prevalenza dell’attenzione alla mentalizzazione sul sé, mentre di solito insiste sul mentalizzare sull’altro. Visto all’opera, notevole. Poi un video di un gruppo condotto da lui e un co-conduttore con cinque antisociali. Ottima idea, purtroppo tutta gente che parla un inglese con accenti incomprensibili (fate conto di venire dalla Francia e vedere una seduta con un paziente di livello socio-culturale basso della Sicilia o del Veneto). Però si coglie come sia tutto un lavoro sul passare da descrizioni fattuali: dovevo agire così, a comprensione mentalistica finalizzata alla regolazione emotiva.

Arnoud Arntz parla di Schema-Therapy nella plenaria. Poca teoria e poca clinica, molto centrato sui dati di efficacia. Certo, sapeva di auto-promozione in un certo senso, ma accidenti quante ne stanno facendo. Hanno in giro una quantità di trial in corso che mette paura e per una varietà di disturbi. Il suo workshop invece è tutto esperienziale. Fa vedere due video di sedute vere ricostruite con attori. Pazienti gravi, con esperienze traumatiche: si vede molto bene come passino dalla memoria recente, all’esperienza affettiva, all’associazione al passato.

Lacrime e reparenting: la terapeuta entra attivamente nella scena e difende la paziente dalla madre. Mi chiedo, e chiedo ad Arntz: ma così si attiva l’attaccamento alla terapeuta di brutto. E sono terapie a durata limitata. Che succede poi? La risposta è serena, capisco che lui, come quasi tutti gli speaker, sono completamente immersi in una cultura in cui si dà al paziente quello che il sistema sanitario consente. Un anno, punto fine stop. È consapevole del problema e quindi lavorano sulla fine della terapia. Mi sembra di avere capito che dopo un certo intervallo di tempo il paziente può chiedere altra terapia se serve.

Congresso ESSPD, Tallinn, 2015

La plenaria di Ad Kaasenbrood mi vede provato, avevo tenuto la mia poco prima ed ero semi-svenuto. A proposito, c’erano circa 200 iscritti. Comunque interessante: parla del management socio-psichiatrico dei pazienti con disturbi di personalità e solleva temi che spesso vengono ignorati. Coinvolgimento delle famiglie, ricoveri, gestione farmacologica. Vorrei essere più concentrato ma le energie in quel momento sono prossime allo zero. Il rimpianto è che i suoi workshop erano in parallelo al mio e quindi non ho potuto seguirli.

Babette Renneberg, una donna acuta e dallo sguardo tagliente, intelligente, ricercatrice esperta, ha fatto tanto nel campo della rejection sensitivity. Presenta dati di efficacia su terapia di fobia sociale e disturbo evitante, niente di troppo recente in realtà. La relazione è solida, ma un po’ meno nelle mie corde, il modello di terapia per l’evitante reduplica molto quello della CBT per la fobia sociale: esposizione, video-feedback, esperimenti comportamentali. Anche qui il workshop avrebbe aiutato a farmi un’idea più chiara della pratica, ma era in parallelo.

 

La relazione di Martin Bohus, DBT per pazienti borderline con comorbilità con disturbo post-traumatico da stress da abuso sessuale infantile è sorprendente. Spiega perché serviva una nuova terapia, ovvero la DBT adattata. Perché la maggior parte degli studi di efficacia con questi pazienti avevano tra i criteri di esclusione disturbi di personalità e atti suicidari e parasuicidari. Ovvero i pazienti borderline in cui la DBT è specializzata.

Tra me e me penso: cosa risponderebbero quelli della EMDR? A quel punto si chiede: perché adattare la DBT? Non va bene quella classica? No, risponde: perché la DBT non era efficace sui sintomi post-traumatici. Non fa una grinza.

Quello che va a mostrare nei video è impressionante: esposizione ad abuso sessuale infantile, incesto paterno. La paziente su una pedana basculante, il terapeuta le tiene le mani strette mentre lei chiude gli occhi e torna sulla scena. Poi le fa aprire gli occhi. Contatto con il presente. Torna nel passato. Da brividi. Qualcosa di simile a quello che si era visto nel workshop di schema-therapy. L’unico pensiero che resta alla fine della relazione è: questa non è DBT! D’altra parte è lo spirito del seminario, quello che mi è restato: tanti modelli e la possibilità per il clinico di usare in modo intelligente quello che funziona dai vari approcci.

È chiaro che i vari autori negli anni si stanno ispirando o copiando l’un l’altro. E va bene così. È quello che bisogna fare. Scevro da competizione? Neanche per sogno. Ma è la competizione che uno si aspetterebbe: giocata sui dati, sulla ricerca di base e sull’efficacia. Si gioca per vincere, non per segare le gambe all’avversario.

Un siparietto la dice tutta: Bohus dice che presto avranno i dati di efficacia. Chiede a Arntz se anche loro stanno raccogliendo dati di Schema-Therapy per il PTSD. Arntz annuisce sorridendo dalla terza fila: sì sì. Sembra di vedere Bayern-Barcellona. Sfida a viso aperto. Una nota di colore. Bohus descrive come funziona la sua unità. L’esposizione alla memoria traumatica è prescritta dal modello. All’inizio scoprono che solo il 15% dei terapeuti la praticano. Pongono il problema in team, dicono che è necessario esporre il paziente. I terapeuti esprimono 1000 buone ragioni per non farlo. Insiste. Dopo poco il tasso di esposizione passa al 20%. A quel punto, in pieno stile teutonico, cambiano le regole: se il terapeuta non ha esposto il paziente entro le prime quattro sedute, dovrà portare fisicamente il paziente nel team e spiegare di fronte a tutti perché non lo ha esposto. Risultato: il 98% dei terapeuti espone i pazienti. Il pubblico ride. I dati di efficacia arriveranno tra un po’. La lezione comunque è chiara: non abbiate paura di esporre i pazienti al dolore, se avete gli strumenti per gestirlo è la cosa giusta da fare.

Congresso ESSPD, Tallinn, 2015

In mezzo a questa gente ho tenuto la plenaria e il workshop sulla Terapia Metacognitiva Interpersonale. Vantando per prima cosa la quasi totale assenza di dati di efficacia (che potevo fare di fronte a queste corazzate?). Però zitto zitto, dico la verità. Qualcosa si sta muovendo. Una case-studies serie su tre pazienti sta per essere completata al CTMI. In Danimarca stanno raccogliendo dati di efficacia su pazienti con disturbo evitante che afferiscono alla loro unità per i disturbi di personalità. Si pianifica di arrivare a una ventina e poi si scrive. Presso la Queensland University of Technology di Brisbane sta per partire uno studio pilota di efficacia. Si mira a circa 15 pazienti. La formazione dei terapeuti è già iniziata e con la collega che guida lo studio stiamo scrivendo il manuale di aderenza.

Tengo la mia relazione e per la prima mezz’ora faccio di tutto per ottenere una reazione dall’audience. Mi sento un po’ perso: sono prevalentemente estoni e finlandesi. Io ero abituato a danesi e norvegesi e scopro che le espressioni facciali variano anche al nord. Lì comunicano di meno. Nell’ultima mezz’ora però sono coinvolti. Alla fine, mi diranno, applausi e fischi (di approvazione!). Me lo devono dire, sono talmente nel flow che non me ne rendo conto. Poi arrivano i feedback. La TMI è piaciuta molto. Vado a vedere quanti iscritti ci sono ai miei workshop. Spero di raccattare una ventina di persone al giorno, già andrebbe bene. In fondo mi sto confrontando con i più forti nel settore. Resto di stucco. Un totale di 137 iscritti in due giorni. I workshop TMI sono quelli con più partecipanti. Mi dico, ragionevolmente, che Bateman, Bohus e Arntz li avranno già visti tante volte. Comunque son soddisfazioni.

Il workshop lo tengo come mi riesce meglio. Inizio con un video: una parodia del Trono di Spade, cercate Seth Meyers e Jon Snow insieme e lo vedete.

Lo prendo come esempio degli effetti del fare esporre un paziente prima di avere promosso la metacognizione.

Ridono per il video. Il messaggio arriva. Poi quindici minuti di teoria. Poi dico: qualcuno di voi vuole simulare un paziente evitante?

La risposta è sì. Il primo giorno una collega norvegese porta una paziente la cui vita sociale è prossima allo zero. Inizio con una relazione terapeutica lacerata: la paziente si sente che deve fare i compiti di esposizione perché il terapeuta se lo aspetta. Riparo la rottura. La paziente si rilassa. Esploriamo le memorie. A fine seduta la paziente sorride e accetta di pensare a forme di esposizione che senta proprie.

Il secondo giorno un collega finlandese porta il proprio caso. Inizia la seduta. Come si sente? Ho paura? Di cosa? Che lei mi possa aggredire? Come? Fisicamente? Fisicamente, Ovvio. Cavolo, mi dico, questo è un disturbo paranoide ed evitante. Era così difatti. Anche qui parto dalla relazione terapeutica. Poi memorie recenti: una costante tensione fisica nelle situazioni sociali. Azzardo: gli chiedo le memorie associate. Piange. Ricorda di essere stato ripetutamente picchiato dal branco quando aveva tredici anni. Si rilassa. Nella seduta emergono le parti sane. La seduta si chiude come il giorno prima: il paziente penserà a momenti in cui si sente più o meno teso e da lì capiremo in che modo può modulare il suo stato. È piacevolmente sorpreso: allora ho potere su questa sensazione? Sì, rispondo. Finita la simulata il collega mi ringrazia. La gente apprezza. Amici norvegesi, alcuni dei quali li seguo regolarmente in supervisione skype, con cui sono al pub a vedere la finale di Champion’s League (mamma mia quanto bevono!) mi dicono che la reazione del pubblico ai miei workshop è stata entusiasta. E che erano loro ad applaudire e fischiare.
Torno in Italia. Ho un quadro più chiaro di come lavorano negli altri approcci, capisco le similitudini, le differenze, sono consapevole dei punti di forza delle TMI. Imparo molto dagli altri.

 

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Giancarlo Dimaggio
Giancarlo Dimaggio

Psichiatra e Psicoterapeuta - Socio Fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva-Interpersonale

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