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Nuove frontiere nella cura del trauma: intervista a Khaty Steele – 4° Corso Internazionale, Venezia

Il messaggio trasmesso da Steele durante il 4° Corso Internazionale è stato di conoscere la teoria per andare oltre e cogliere la specificità dell'altro.

Di Camilla Marzocchi

Pubblicato il 18 Mag. 2015

Aggiornato il 22 Ott. 2021 12:35

Convegno Nuove Frontiere nella Cura del Trauma 2015 

Conoscere la teoria per andare oltre. Questo il messaggio più forte che ci invia Kathy Steele.

Da teorica della Dissociazione Strutturale, la Steele ci chiede quest’anno un lavoro diverso dal solito: tornare dal modello teorico alla nostra esperienza emotiva dentro la terapia, condividere con lei la cornice per poi dimenticarla e porci davvero in ascolto di quello che succede. Il rischio di rimanere troppo affezionati ad un modello e di ricondurre a questo la complessità dell’essere umano è troppo alto e valutare questo rischio resta l’aspetto centrale di tutto il suo intervento nelle tre giornate. La tendenza di noi clinici a differenziare e caratterizzare troppo le “parti” del paziente, dando loro un nome (ANP, EP, Stati dell’Io, Personalità), una gerarchia, un ruolo nel funzionamento mentale, può farci perdere l’essenza stessa del nostro lavoro: mantenere una buona sintonizzazione affettiva con l’intera persona.

Questo processo secondo la Steele non solo rischia di essere inefficace, ma se usato in modo estremo e rigido può alimentare la divisione, o se preferite la “dissociazione”, tra le diverse parti e far dimenticare l’obiettivo ultimo e più importante di questa eccellente concettualizzazione: conoscere le parti per favorire una migliore integrazione tra quelle in conflitto.

Kathy Steele insomma ci ricorda che il Modello della Dissociazione Strutturale è un buon modello teorico per descrivere alcuni aspetti del funzionamento della mente, soprattutto in pazienti con storie traumatiche complesse in cui le difficoltà di integrazione producono gravi alterazioni nella costruzione di un senso del sé coeso e integrato, ma ci ricorda a chiarissime lettere che il suo stesso modello – come tutti gli altri – può costituire un grande ostacolo alle possibilità di accedere all’esperienza umana di chi abbiamo di fronte.

E’ con ammirevole senso di responsabilità e umiltà che Kathy ci ricorda di restare critici verso le proprie conoscenze, di avere il coraggio di osservare il processo terapeutico in corso senza pre-giudizio e di cercare possibili soluzioni all’interno – e non all’esterno! – di questo processo.
Alle parole di Kathy Steele l’essenza dei suoi insegnamenti.

 

CM: Quello che ho trovato molto interessante quest’anno è stato il monito di tornare alle origini del ruolo del terapeuta e di non fermarci all’apprendimento delle tecniche, dei protocolli e delle teorie. In un mondo in cui si cerca sempre più l’evidence based, la validità scientifica e la ripetibilità dei risultati più efficaci, le chiedo di raccontarci, perché dal suo punto di vista è così importante andare oltre la teoria?

KS: Bene, avrei un paio di riflessioni su questo. Una è che la teoria è molto importante, ma penso che dovrebbe restare uno sfondo, una sorta di “aria che respiriamo”. Non la si vede, non la si sente, ma dà continuamente vita a quello che si fa. Ma allo stesso tempo la teoria ha dei limiti, inclusa la mia stessa teoria, e questo limite viene alla luce tutte le volte in cui ci troviamo ad osservare qualunque fenomeno. Penso che gli esseri umani siano così complessi e diversi tra loro, che nessuna teoria, nessuna tecnica e nessun approccio possa essere sufficiente a spiegare l’intera condizione umana. Perciò credo che curiosità, compassione, interesse e apertura autentica all’esperienza dell’altro, siano innanzitutto parte dell’essere umano. Il nostro lavoro non è molto diverso da quello che facciamo là fuori nel “mondo reale”, ma lo facciamo solo con più intensità. Una seconda considerazione è che più faccio il mio lavoro – e sono ormai 30 anni di esperienza – più mi rendo conto che quando ascolto profondamente l’altro riesco a trovare risposte sempre nuove, che sono diverse per ogni persona e non adatte a nessun altro. Perciò le tecniche terapeutiche sono valide e utili per una sorta di “categorie di base” di problemi, mentre le risposte nuove possono essere più efficaci e utili da integrare per ognuno in modo differente dagli altri. La maggior parte dei nostri problemi di salute hanno a che fare con problemi legati alla nostra stessa condizione di esseri umani e nessun modello da solo può bastare a mettere tutto a posto. Il mio pensiero è che ci sia un nostro sé profondamente umano, incapsulato dentro il nostro sé terapeuta, e che sia soprattutto questo il più importante fattore di cura.

CM: Durante il lavoro di role playing di questi giorni, ho notato l’utilizzo della “curiosità” come una vera e propria tecnica, efficace soprattutto per uscire da situazioni cliniche complesse o in presenza di conflitti tra parti. E’ così?

KS: Si, ma non è solo curiosità. E’ soprattutto la curiosità unita alla collaborazione. L’obiettivo che mi guida è che io in quel momento di difficoltà voglio davvero sapere cosa il paziente sta sperimentando e pensando all’interno, per poterci poi lavorare insieme fuori. Il mio lavoro non è quello di risolvere i problemi, quello che succede nella mente del paziente deve diventare un nostro problema da risolvere insieme. E se davvero mi capita di non sapere in che direzione andare o al paziente capita di non sapere che strada prendere, avremo bisogno di parlare di questo e restare aperti e curiosi nel cercare cos’altro nella sua esperienza o nella mia esperienza ci possa dare un aiuto per andare avanti alla prossima mano e al prossimo passo. Devo dire a onor del vero che non sono sempre curiosa! Qualche volta mi metto sulla difensiva e questo è normale per noi terapeuti perché è lì che ci porta il controtransfert. Ma il punto è accorgersi di questo, riconoscerlo ed essere capaci di tornare indietro a porsi di nuovo in una condizione di apertura e curiosità, per poi tornare a farlo ancora e ancora, tutte le volte che questo succede. Qualche volta è frustrante, ma è necessario osservarsi e riconoscere se stessi in questa altalena.
Credo che il modo migliore di usare tecniche e modelli sia soprattutto di restare aperti ai nostri errori, alla possibilità che i nostri tentativi non sempre funzionano e non solo perché non siamo buoni terapeuti, ma perché la condizione umana è troppo grande da comprendere. Perciò la terapia per me è soprattutto una serie di piccoli esperimenti condivisi tra me e i miei pazienti. Dobbiamo conoscere molte tecniche e molti strumenti di lavoro da poter utilizzare e proporre, ma non possiamo dimenticare che il processo che risulta è sempre una sorpresa! “Non c’è nessuna strada, la strada si crea camminando” e questa frase è una grande metafora dell’integrazione.

 

CM: Poiché il trauma ha ricevuto una crescente attenzione negli ultimi anni, guadagnando uno spazio importante anche nel nuovo DSM-5, mi piacerebbe chiederle come e se è cambiato il suo modo di fare diagnosi oggi?

KS: Personalmente non è cambiato molto, perché i criteri per i disturbi dissociativi sono rimasti praticamente invariati e ovviamente sono felice che siano rimasti lì dov’erano, subito dopo il PTSD. Riguardo al PTSD l’aspetto interessante e critico a mio avviso è che non sia stato inserito in questa edizione il PTSD Complesso tra le diagnosi, anche se posso comprendere alcune obiezioni fatte a tal proposito. Tuttavia penso sia importante l’aver almeno inserito un sottotipo Dissociativo di PTSD, anche se non sono completamente d’accordo con i criteri scelti. Credo che il DSM sia un modo per categorizzare e capire alcuni tipi di disturbi, che ha i suoi vantaggi e svantaggi – così come l’ICD-11. L’idea del DSM sarebbe quella di non rispondere a delle singole teorie, di essere ateorico, ma credo che l’idea sia buona, nel male!

CM: Cosa vede nel futuro? Quale sarà il suo ruolo in Europa nel portare l’attenzione del mondo scientifico sulla centralità del trauma nella diagnosi e nei protocolli di cura?

KS: Qualche giorno mi sento ottimista, qualche altro più pessimista. Nella mia vita professionale ho visto l’interesse per il trauma andare e venire. In alcuni momenti è stato più accettato, in altri meno, a volte si è stati troppo focalizzati sulle memorie traumatiche, a volte troppo poco e francamente non so cosa succederà nei prossimi anni. Al momento quello in cui ci impegneremo e che mi piacerebbe vedere sono training specifici in tutte le università e nei corsi di specializzazione post-laurea. Mi piacerebbe trovare fondi per offrire a queste persone un trattamento a lungo termine di cui avrebbero bisogno, perché sono pazienti che se trattati adeguatamente possono stare davvero molto meglio e non solo mentalmente, ma anche fisicamente. Tuttavia è difficile e ci sono molti interessi in ballo. Alcune nazioni fanno meglio di altre, ma purtroppo ovunque occuparsi di questo tipo di problemi non è una grande priorità. Questo non è giusto, ma la nostra società funziona così. Vedo però che la rete italiana sul trauma cresce ogni anno sempre di più, che lavorare in questo ambito sta attirando e incuriosendo molte persone e soprattutto giovani che sono interessati a percorsi più mirati e rapidi. Tutto questo è molto positivo e credo che potrete ancora crescere molto!

LEGGI IL REPORT DEL CONVEGNO

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