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Psicopatologia e psicoterapia del Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità

Il disturbo ossessivo compulsivo di personalità è caratterizzato da eccessivo perfezionismo e attenzione per i dettagli, estrema coscienziosità e rigidità.

Di Redazione

Pubblicato il 26 Mag. 2015

Melania Marini

 

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità (DOCP) si caratterizza (DSM-5) in base ad alcuni specifici tratti di personalità: preoccupazione per i dettagli, perfezionismo, eccessiva devozione per lavoro e produttività, estrema coscienziosità, difficoltà a delegare compiti, difficoltà a gettare oggetti inutili, avarizia, testardaggine e rigidità.

Questo disturbo è associato ad una difficoltà nel funzionamento psicosociale e ad una ridotta qualità della vita.

Gli individui con questo disturbo mostrano un moderato livello di difficoltà nel funzionamento della personalità che si manifesta nelle seguenti aree: identità, intimità, empatia, capacità di autodirezione. Oltre un rigido perfezionismo, possono essere presenti due o più dei seguenti tratti psicopatologici di personalità: perseveranza, affettività ristretta, evitamento dell’intimità.

Gli individui con DOCP si sentono continuamente obbligati a raggiungere obiettivi e faticano a dedicarsi a momenti di piacere e rilassamento. Controllano gli altri e se gli altri sfuggono al controllo diventano ostili e possono avere esplosioni occasionali di rabbia sia a casa che al lavoro.

Il DOCP nella popolazione psichiatrica è il terzo disturbo di personalità più comune (Zimmerman, Rothschild, Chemlinski, 2005; Rossi, Marinangeli, Butti, Kalyvoka, Petruzzi, 2000). Co-occorre con il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) (De Reus, Emmelkkamp, 2012; Cain, Ansell, Simpson, Pinto, 2015) ma i due disturbi non si sovrappongono, per esempio il DOCP è ego-sintonico al contrario del DOC e nel primo possono essere assenti ossessioni e compulsioni (Pinto, Eisen, 2011). Il DOCP co-occorre con disturbi d’ansia (Grant, Mooney, Kushner, 2012; Grant, Hasin, Stinson, Dawson, Chou, Ruan, et al., 2005) 23%, disturbi affettivi 24%, dipendenza da sostanze 25%, disturbi alimentari 13% (Halmi, Tozzi, Thornton, Crow, Fichter, Kaplan, 2005), depressione unipolare 14% (Schiavone, Dorz, Conforti, Scarso, Borgherini, 2004). In base a molti studi (Stuart, Pfohl, Battaglia, Bellodi, Growe, Cadoret, 1998; Rossi, Marinangeli, Butti, Kalyvoka, Petruzzi, 2000; Hummelen, Wilberg, Pedersen, Karterud, 2008) co-occorre frequentemente con i Disturbi Schizotipico e Paranoide di Personalità.

Riguardo al funzionamento interpersonale di individui con DOCP, Cain e colleghi (2015) hanno esaminato un campione di 25 individui con DOCP, un campione di 25 individui con DOCP in co-morbilità con il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) ed uno di controllo di 25 soggetti. I soggetti con DOCP hanno evidenziato elevate difficoltà interpersonali in merito alla ostilità-dominanza ed un’alta estroversione. I soggetti con DOCP e DOC hanno mostrato maggiori tendenze alla sottomissione e maggiore introversione. Individui con DOCP, con e senza DOC, hanno riportato una minore abilità nel tenere in considerazione il punto di vista altrui in modo empatico.

Sempre considerando il dominio delle relazioni interpersonali, la qualità dell’attaccamento è compromessa nel DOCP. Emerge che spesso non si è formato un attaccamento sicuro e i pazienti hanno ricevuto poche cure ed un eccesso di protezione durante l’infanzia con un successivo fallimento nello sviluppo emotivo ed empatico (Nordhal, Stiles, 1997; Perry, Bond, Roy, 2007).

È altresì importante (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013) tenere in considerazione anche circostanze relativamente recenti che possano comunque aver contribuito alla cristallizzazione di uno schema patogeno. Lo schema interpersonale patogeno è una struttura procedurale intrapsichica consolidatasi nel tempo attraverso le esperienze, una rappresentazione soggettiva del destino a cui andranno incontro i nostri desideri nel corso delle relazioni con gli altri.

Un soggetto con DOCP può avere il desiderio di autonomia ed esplorazione ma immagina che se mostra spontaneamente le sue emozioni e propensioni, l’altro si mostrerà critico, aggressivo, punitivo ed impositivo; in risposta, il soggetto prova paura e soggezione e controlla emozioni (inibizione emotiva) e comportamento, rinuncia all’esplorazione bloccando i piani spontanei autogenerati e si conforma alle aspettative dell’altro, sperimentando un senso di costrizione unitamente ad un senso di inefficacia personale, al quale segue un’ipertrofia della rilevanza delle regole (tratto ossessivo); può anche immaginare di mostrare le sue emozioni e propensioni, ma prevede che l’altro rimarrà deluso e soffrirà; in risposta, la persona prova colpa e perde convinzione nel desiderio, rinunciando all’esplorazione e bloccando i piani spontanei autogenerati. Si crea così un circuito di mantenimento dei problemi interpersonali.

È interessante sottolineare come sia possibile rintracciare nel soggetto più schemi interpersonali e come, all’interno di uno stesso schema, possano coesistere più motivazioni, ad esempio la persona desidera essere accettata, considerata degna perseguendo mete autonome, ma si rappresenta l’altro deluso, giudicante, rabbioso, che invia un messaggio del tipo “Ti accetto soltanto se ti conformi alle regole, ai valori di cui io mi faccio portavoce”; in risposta, la persona può decidere di scegliere trasgredendo i valori, le regole, le norme sociali di cui l’altro si fa rappresentante sentendosi in colpa e indegno innanzi alla reazione negativa dell’altro.

Le strategie che il soggetto sviluppa nel tempo per adattarsi all’aspettativa su come l’altro tratterà i suoi desideri elicitano, a loro volta, nell’altro delle risposte emotive e comportamentali che spesso, inconsapevolmente, confermano le credenze negative iniziali della persona, generando, in tal modo, un ciclo interpersonale patogeno che contribuisce a mantenere il disturbo. Si pensi, ad esempio, alla tendenza comune nel DOCP a sovraccaricarsi di impegni, di compiti, con grande difficoltà a delegare o a chiedere aiuto. A quel punto, non vedendosi aiutato (non avendolo chiesto) il paziente percepisce l’altro come disattento, senza la volontà di fornirgli aiuto.

L’altro da parte sua, non ascoltando le richieste d’aiuto, e anzi fronteggiando l’autosufficienza obbligata del paziente con personalità ossessivo-compulsiva, preferisce tenersi a distanza sentendo il proprio aiuto inutile e i propri interventi come inadeguati e criticabili. Il paziente però in alcuni momenti, sovraccarico dal lavoro e irritabile per la fatica, scoppia rabbiosamente alla vista dell’altro che non lo supporta e protesta per il supporto che, immoralmente, gli è stato negato. L’altro a questo punto si sente facilmente criticato ingiustamente e reagisce alle accuse in modi che diminuiscono la sua disponibilità a dare l’aiuto stesso. 

Coerentemente con le informazioni raccolte dall’esperienza clinica, è possibile delineare nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità una serie di schemi interpersonali che muovono da motivazioni diverse:

– motivazione dominante: attaccamento. In questo caso lo schema porterà la persona verso il desiderio di essere vista, amata, apprezzata, ma si rappresenta l’altro come freddo, rifiutante, disattento. In risposta si attiva il sistema del rango sociale: queste persone sperano che verranno amate se il loro valore sarà considerato adeguato dalle figure di riferimento. A quel punto quindi si impegnano, si organizzano, pianificano, cercano di farsi trovare sempre preparate, di dare il massimo, di essere impeccabili, perfette, e aderenti alle regole;

– motivazione: autostima. La persona desidera essere capace, adeguata, ma si rappresenta l’altro come critico, invalidante; in risposta, la persona prova rabbia, si sente triste, fallimentare e sviluppa il tratto ossessivo come strategia volta a sopperire al senso di inefficacia personale. Ne conseguono stati di sovraccarico, di affaticamento fisico e psichico che spesso si esprimono attraverso una serie di sintomi psicosomatici piuttosto rilevanti a cui si abbinano preoccupazioni ipocondriache e che includono, ad esempio, gastrite, sindrome del colon irritabile, dolori addominali e intercostali;

– motivazione: autonomia/esplorazione: le azioni e le scelte della vita quotidiana non sono associate alla sensazione di essere internamente generate. I soggetti con DOCP, infatti, sono guidati, perlopiù, dai loro standard elevati e inflessibili di etica e performance, ma hanno difficoltà a riconoscere che hanno desideri, intenzioni, scopi che nascono dalle loro più intime inclinazioni e a lasciarsene guidare senza giudicarsi. Ne consegue un’inibizione del sistema esploratorio e una carenza di agency. Una possibile origine storica, dedotta dai racconti di molti pazienti con DOCP è che quando provavano ad esplorare e a perseguire piani autonomi, abbiano dovuto confrontarsi con figure genitoriali invalidanti, facilmente deluse,  critiche o aspramente punitive. In risposta, hanno provato paura, hanno perso convinzione nel desiderio, rinunciando all’esplorazione e bloccando i piani spontanei autogenerati.

I pazienti con DOCP, inoltre, a causa della difficoltà a stabilire priorità tra i propri compiti, spesso si sentono come bloccati, sospesi, ritenendo che il tempo non sia mai sufficiente e l’impegno profuso mai abbastanza e come conseguenza faticano a rispettare le scadenze.

Dal punto di vista emotivo, i soggetti con DOCP sono convinti che le proprie sensazioni e le proprie emozioni debbano essere sempre controllate, fondamentalmente perché considerate come intrinsecamente sbagliate, un segno di debolezza morale.

L’idea di sperimentare qualcosa che ritengono indegno li espone, nella loro mente al rischio di biasimo, accuse e alla fine, abbandono da parte degli altri o punizione. Nel complesso quindi tentano di controllare i loro affetti e appaiono, rigidi, formali e difficilmente si lasciano andare, tanto da essere definiti “freddi” e  “poco espansivi”.

L’esperienza soggettiva di tali pazienti è caratterizzata da senso di colpa all’idea di avere agito irresponsabilmente e avere quindi arrecato danno a sé e/o agli altri; senso di inefficacia, ansia, paura di essere criticati e/o puniti per eventuali errori commessi. Spesso provano rabbia verso se stessi quando non rispettano gli standard o verso gli altri quando non si comportano con il dovuto zelo. La loro rabbia non è esplosiva, è più trattenuta, controllata, affiora nel viso e nel tono di voce più ancora che nel linguaggio. Il dovere guida la loro vita e quando affiorano desideri di giocare e rilassarsi, da un lato si criticano e si sentono in colpa, dall’altro si sentono costretti e tendono a ribellarsi a chi impone dall’esterno i doveri.

La comprensione dei propri pensieri, di quelli degli altri e delle proprie emozioni oscilla, nella stessa persona, al variare della qualità delle relazioni. Ricordiamo che nei pazienti con disturbi di personalità la metacognizione dipende in larga parte dal contesto emotivo e dalla qualità della relazione (Dimaggio et al., 2013).

La metacognizione è la capacità di un individuo di sintetizzare vari aspetti della conoscenza mentale in un quadro complessivo che permetta di dare significato alle nostre azioni; si riferisce all’insieme di abilità che permette all’individuo di:

– identificare e attribuire, a sé e agli altri, stati mentali,

– pensare, riflettere e ragionare sugli stati mentali propri (autoriflessività) e pensare, riflettere e ragionare sugli stati mentali altrui (comprensione della mente altrui). L’autoriflessività comprende la capacità di identificare i propri pensieri e le proprie emozioni (monitoraggio), la capacità di assumere una distanza critica dalle proprie convinzioni e di comprendere che i nostri desideri hanno un impatto limitato sulla realtà (differenziazione) e l’abilità di mantenere una visione unitaria di sé, indipendentemente dal fluire e alternarsi nella coscienza di stati mentali diversi o contraddittori, e indipendentemente dalla variabilità dei nostri comportamenti in contesti differenti (integrazione), 

– utilizzare le conoscenze e le riflessioni sugli stati mentali propri e altrui per prendere decisioni, risolvere problemi o conflitti psicologici e interpersonali e padroneggiare la sofferenza soggettiva (mastery) (Semerari et al., 2003).

Nei pazienti con disturbi di personalità, mancando l’abilità necessaria ad identificare e a riflettere sugli stati mentali, vi è una marcata difficoltà a formare delle strategie di problem-solving basate sulle informazioni mentali: negoziano i loro desideri ed i loro scopi attraverso la relazione con colleghi, amici, parenti o ne fanno fronte con notevole stress (Carcione et al., 2010; Dimaggio & Lysaker, 2011).

In generale, nei pazienti con disturbi di personalità la metacognizione è disfunzionale e vi sono difficoltà nell’autoriflessività, per esempio nella consapevolezza emotiva, nell’abilità di distinguere tra fantasia e realtà e nell’integrazione di molte, e spesso contraddittorie, rappresentazioni di sé e degli altri; nella comprensione della mente altrui, per esempio il formarsi delle idee su cosa l’altro pensa e prova anche attraverso il comportamento non-verbale; nella capacità di mastery, ossia l’abilità di utilizzare le conoscenze mentalistiche per formare delle strategie adattive ed efficaci per far fronte allo stress e risolvere problematiche sociali. Le persone con disturbi di personalità anticipano mentalmente le reazioni negative degli altri, hanno un’attenzione selettiva ai segnali di giudizio e di rifiuto e costruiscono dei cicli negativi in cui le reazioni degli altri confermano le loro aspettative negative (Safran & Muran, 2000).

In uno studio di Semerari e colleghi (2014) che ha analizzato la correlazione tra specifiche difficoltà metacognitive e specifici stili di personalità, le difficoltà metacognitive possono essere considerate un fattore patogenetico comune per i disturbi di personalità.

Pazienti con DOCP correlavano con gli stili di personalità rigido e che aderisce inflessibilmente alle regole. Lo stile rigido correlava con problemi metacognitivi nelle aree di differenziazione e integrazione, ma in modo inverso rispetto alle attese, ovvero una maggiore presenza di queste caratteristiche era legata a migliore metacognizione.

Secondo Baron-Cohen (2006), un modo per esplorare le funzioni interpersonali è attraverso il meccanismo di sistematizzazione e la capacità di empatia. La sistematizzazione permette al cervello di predire che un evento X occorrerà con una probabilità P. Dal momento che il cuore della patologia del DOCP include il perfezionismo e le sue associazioni con la rigidità e l’aggressività che portano alle difficoltà di interazione con gli altri (Hemmelen, Wilberg, Pederen, Sigmund, 2008) e alla difficoltà di predizione degli eventi: gli individui con DOCP dovrebbero presentare un’alta sistematizzazione ed una bassa empatia.

In effetti Aycicegi-dinn, Dinn, Caldwell-Harris (2009) hanno osservato che vi è un decremento nell’attività del sistema di empatizzazione, sistema che abilita alla comprensione della motivazione intenzionale relativa al comportamento umano, e un incremento nel meccanismo di sistematizzazione, sistema che abilita alla comprensione delle cause e degli eventi non intenzionali. Sembra quindi che siano necessari studi più approfonditi per comprendere se esistono difficoltà metacognitive nei pazienti con DOCP e quali esse siano, anche se lo studio sulla ridotta empatia suggerisce che esista un problema nel comprendere gli altri e risuonare con loro.

 

La psicoterapia del Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità

Le implicazioni cliniche, di tutti questi studi, sono molto interessanti poiché è possibile lavorare, a livello terapeutico, incrementando la capacità di tenere conto del punto di vista altrui e aumentare la capacità di rispondere agli stati emotivi in modo fluido ed appropriato (Dimaggio et al., 2011).

Molti studi (Ekselius, von Knorring, 1998; Ng, 2005; Strauss, Hayes, Johnson, Newman, Brown, Barber, 2006) hanno osservato l’efficacia di una Terapia Cognitiva che riduce considerevolmente la gravità dei sintomi del disturbo di personalità, l’ansia e la depressione. La Terapia Cognitiva-Comportamentale riduce la sintomatologia ansiosa, aumenta l’estroversione, l’assertività e la stabilità emotiva (Enero, Soler, Ramos, Cardona, Guillamat, Valles, 2013).

La Terapia Interpersonale ha successi nella riduzione della sintomatologia depressiva (Barber, Muenz, 1996). In ogni modo, un’alleanza terapeutica buona tra paziente e terapeuta, la gravità degli stati ansiosi così come anche la variabilità dell’autostima, costituiscono fattori predittivi importantissimi dell’efficacia del trattamento del DOCP.

La Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI; Dimaggio, Montano, Popolo e Salvatore, 2013) è stata manualizzata negli ultimi anni per trattare vari disturbi di personalità incluso il DOCP. La TMI pone costantemente l’attenzione sulla relazione terapeutica al fine di lavorare in una atmosfera estremamente cooperativa con le minime rotture nell’alleanza, sull’assunto fondamentale che tutto ciò dovrebbe aiutare il paziente ad utilizzare pienamente i propri schemi metacognitivi. Con il progressivo aumento della metacognizione, è più facile per il paziente ed il terapeuta avere una comprensione reciproca delle proprie menti e lavorare insieme per raggiungere gli obiettivi condivisi.

Se una persona ha difficoltà nella comprensione delle proprie emozioni è poco utile aiutarla immediatamente a comprendere gli schemi relazionali internalizzati nella vita di tutti i giorni e nelle relazioni sociali, è invece molto importante indagare le variazioni di arousal che sono emotivamente correlate e che poi sfociano negli stati somatici. La consapevolezza di come e perché il paziente pensa, prova ed agisce è fondamentale per la promozione del cambiamento di pensiero e dei pattern comportamentali sviluppando così una diversa prospettiva di pensiero, di emozione e di azione.

I miglioramenti nella metacognizione sembrano essere segni che portano ad un buon esito terapeutico (Dimaggio, Procacci, et al., 2007; Lysaker, et al., 2010). Quando in terapia emergono le emozioni, ma i loro antecedenti sono opachi al narratore è impossibile per il terapeuta interrompere il processo cognitivo-emotivo disfunzionale perché le credenze non sono chiare: le rappresentazioni disturbate di sé e degli altri lasciano le persone con disturbi di personalità senza un punto di vista alternativo. La TMI cerca inizialmente di rendere i pazienti dei propri schemi ricorrenti di significato ed aiutarli ad adottare nuove prospettive mentre cercano di accedere ai desideri. Il terapeuta, insieme con il paziente, cerca di comprendere come vedere da una diversa angolazione le diverse rappresentazioni disfunzionali di sé e dell’altro ed utilizza la conoscenza metacognitiva per far fronte alla sofferenza e per trovare nuove strade percorribili nella vita quotidiana.

I soggetti con DOCP, a causa della difficoltà a scaricare le proprie tensioni interne e della tendenza a reprimere le proprie emozioni, spesso cercano una terapia a causa di disturbi di natura psicofisiologica, come, ad esempio, attacchi d’ansia, impotenza sessuale, senso di stanchezza e sovraccarico. Per il trattamento del DOCP esistono vari approcci che prendono in considerazione aspetti diversi del disturbo. La Terapia Metacognitiva Interpersonale inizia di solito dal trattare i sintomi che portano i pazienti in terapia (ansia, attacchi di panico, depressione, somatizzazioni). Durante il trattamento dei sintomi il terapeuta inizia a raccogliere episodi narrativi dettagliati che illustrano come si svolgono le relazioni con gli altri, in modo da aiutare i pazienti a riconoscere le sfumature della propria esperienza soggettiva nel contesto dell’interazione sociale.

Questi pazienti hanno spesso uno stile narrativo intellettualizzante, teorizzante, il che rende difficile accedere alla loro esperienza soggettiva e alle loro emozioni. Il terapeuta quindi li invita a raccontare episodi narrativi, che li vedono relazionarsi con gli altri, demarcati nello spazio e nel tempo, e grazie a questi racconti esplorare insieme cosa il paziente abbia provato e pensato in quel momento e per quali motivi, e a dare i nomi alle emozioni in un contesto in cui queste sono accettate, riconosciute valide, non giudicate, parte inevitabile dell’esperienza degli esseri umani. Il terapeuta, pertanto, starà attento a che il paziente si senta “visto” in seduta; e si sintonizzerà con il mondo interno del paziente; coglierà nella struttura del racconto di questi eventuali cambiamenti delle espressioni facciali, del tono della voce e ricostruirà insieme a lui lo stato emotivo sperimentato in quel momento; normalizzerà e validerà i vissuti emotivi del paziente, giovandosi di un uso accurato dello svelamento.

Una volta raccolta una base di episodi che permettano a paziente e terapeuta di ricostruire la mappa del mondo interno del paziente, si tenta insieme di promuovere il cambiamento. I terapeuti che utilizzano la TMI sono attenti a qualsiasi segno di povera alleanza e devono essere veloci nel riparare o prevenire rotture nell’alleanza stessa; essi adottano una validazione costante e sono pronti ad analizzare qualsiasi segnale relazionale negativo mentre indagano sul loro contributo alla creazione di qualsiasi problema.

Tra gli obiettivi della TMI per il DOCP, molti dei quali coerenti con i principi della Terapia Cognitiva-Comportamentale, ci sono quelli di riconoscere come gli standard perseguiti siano solo tentativi di guadagnare l’accettazione da parte degli altri a condizione di essere perfetti, e lentamente sperimentare la possibilità che queste siano solo idee.

I pazienti sono guidati nello scoprire che è come se continuassero senza fine a cercare quasi ovunque l’approvazione delle loro figure genitoriali, e che esiste una via diversa, in cui possono pensare di essere accettati anche se sono imperfetti e commettono errori.

Allo stesso tempo i pazienti vengono guidati progressivamente ad esplorare stati di benessere, rilassamento, gioco e a capire come questo sia stato finora impedito dai sensi di colpa che li vessano. Identificare l’importanza del senso di colpa e aiutare i pazienti a metterlo da parte, non lasciarsene guidare è un altro elemento centrale della terapia. Il terapeuta presterà grande attenzione ad ogni segnale spontaneo, o guidato dalla conversazione terapeutica, in cui il paziente sia rilassato, provi benessere senza criticarsi e lo aiuterà a prestare attenzione a questo stato, sostandoci il più possibile durante la seduta.

Quando il paziente avrà colto come tale stato sia benefico e possa essere perseguito a buon diritto, lo si inviterà a ricercarlo nella vita quotidiana e a sperimentarlo. Durante gli esperimenti il paziente verrà facilmente preso da sensi di colpa e autoaccuse e questi verranno nuovamente ripresi in seduta e li si riconoscerà come non più segno di verità (sono indegno) ma di un riemergere degli schemi (penso di essere indegno ma mi rendo conto che è un mio schema: posso rilassarmi). L’obiettivo complessivo è aumentare l’espressione emotiva e utilizzare le proprie inclinazioni e desideri come sistema di scelta, dismettendo progressivamente il costante ricorso agli imperativi morali.

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