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La terapia cognitivo comportamentale per il perfezionismo clinico Report dal Workshop di Firenze

Il 7 e 8 maggio è stato organizzato a Firenze un workshop avanzato sulla terapia cognitivo-comportamentale del Perfezionismo Clinico condotto da Roz Shafran

Di Gianpaolo Mazzoni

Pubblicato il 11 Mag. 2015

Aggiornato il 27 Gen. 2016 16:22

Il 7 e 8 maggio l’Istituto di psicologia e psicoterapia cognitivo-comportamentale (Ipsico) ha organizzato a Firenze un workshop sulla terapia cognitivo-comportamentale (CBT) del Perfezionismo Clinico, condotto dalla Prof.ssa Roz Shafran, autorità mondiale in campo scientifico, Professor of Translational Psychology at Univesity College London and founder of the Charlie Waller Institute of Evidence-Based Psychological Treatment.

“La Tirannia dei dovrei…”. Con questa espressione Horney già negli anni ’50 del ‘900 descriveva un costrutto come quello del Perfezionismo, che è divenuto oggi, all’ interno della psicoterapia cognitiva, uno dei terreni di confronto e dibattito più accesi da parte di clinici e ricercatori di tutto il mondo.

Allettato dall’idea di poter venire a contatto con una grande esponente della CBT anglosassone, mi reco a questo corso di formazione specialistico. La partecipazione a questo evento ha fornito all’uditorio la possibilità di assaporare un prezioso spaccato di internazionalità: una lente di osservazione e un modello di lavoro con il paziente che è spesso lontano dallo stile del terapeuta cognitivista italiano.

La docente ha mostrato gli aspetti teorici del suo costrutto di perfezionismo e le implicazioni cliniche sul trattamento. Il perfezionismo infatti invade trasversalmente molti quadri clinici quali ad esempio i Disturbi d’ansia, il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC), i Disturbi Alimentari, la Depressione ecc.

Shafran accenna inizialmente al dibattito scientifico in corso sul perfezionismo chiedendosi: [blockquote style=”1″]Cosa è il veramente il perfezionismo?[/blockquote] Nella sua risposta, l’autrice, a partire dal funzionamento cognitivo del DOC, definisce il suo modello di perfezionismo clinico come di tipo non multidimensionale, ma più “lineare”, come [blockquote style=”1″]la dipendenza eccessiva dalle autovalutazioni, dalle aspettative molto esigenti che sono autoimposte, in più di un campo, pur nella loro persistenza delle conseguenze spiacevoli[/blockquote] e sottolinea, differenziandosi da altri modelli psicologici e ribadendo con la sua aderente alla CBT, che il perfezionismo non è un tratto di personalità (“non tutti gli ambiti infatti sono invasi….esistono aree libere”).

Entrando più nel dettaglio, a partire dall’idea di “autostima eccessivamente centrata sul risultato”, a seguito della quale i soggetti definirebbero i loro alti standard da perseguire (“Devo e Dovrei…”), partirebbe un modello a due vie: da una parte il caso del fallimento degli obiettivi autoimpostisi (“Mai abbastanza”, Egan & Wad, 2012) con conseguenti emozioni sgradevoli e la messa in atto di comportamenti di contrapposizione (es. comportamenti di controllo nel DOC), evitamento oppure procrastinazione. Dall’altra parte è previsto un percorso più flessibile e adattivo, in cui esiste la possibilità di modifica e ridefinizione degli standard perseguiti dal soggetto.

La Shafran definisce pertanto la differenza tra perfezionismo “sano” e perfezionismo clinico prendendo come modello di funzionamento non patologico quello dell’atleta, un individuo capace – in caso di insuccesso – di ridefinire gli obiettivi e modificare i propri scopi. Diversamente, nel perfezionismo patologico, il fallimento degli alti e rigidi standard, sommato alle tipiche distorsioni cognitive (“biases”) e associato ad una valutazione non corretta della prestazione porterebbe l’individuo all’ autosvalutazione di sé e di conseguenza ad autorinforzare gli aspetti di autocritica.

Il protocollo illustrato da Roz Shafran è breve (6-10 sedute previste nel Sistema Sanitario Inglese) e caratterizzato dalla somma di interventi ben definiti: l’assessment e il monitoraggio dei comportamenti perfezionistici, la formulazione del caso, la psicoeducazione e gli esperimenti comportamentali finalizzati alla disputa delle credenze disfunzionali. Infine, nel processo terapeutico che affronta il perfezionismo clinico, l’autrice sottolinea l’importanza della relazione terapeutica e del rischio di droup-out, consigliando di rassicurare il soggetto che l’obiettivo della terapia non sarà quello di abbassare i suoi standard, bensì di partire dalle aree libere da questo “meccanismo perverso”.

Dal workshop quindi emergono, come linee guida di intervento, la necessità di fornire un trattamento limitato nel tempo, evidence-based e pertanto molto focalizzato sull’ obiettivo. La docente ha saputo fornire molti esempi clinici, con la visione di sedute in cui la terapeuta indagava le “regole di vita” del paziente proponendo interventi di distanziamento e ristrutturazione. Da queste due intense giornate di lavoro teorico, clinico ed esperienziale emergono pertanto come elementi cardine della CBT del perfezionismo, l’importanza sia della rigorosità nella formulazione del caso, sia dell’utilizzo di un modello teorico e di intervento che venga applicato con empatia, così da non perdere il contatto clinico con il paziente e con il suo mondo interno.

 

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