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Un excursus storico sul rapporto dell’Italia con la guerra

L'Italia è spesso uscita sconfitta dalle guerre o vittoriosa solo grazie all'aiuto di alleati e anche nelle guerre interne spesso nessuno ha prevalso.

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 28 Mag. 2015

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta del 24/05/2015

 

In Italia, naturalmente, l’argomento è totalmente tabù. Esperienze positive poche. Sappiamo bene che nel Risorgimento non ce l’avremmo fatta senza Napoleone III e i francesi e l’innegabile valore di testimonianza della Resistenza non nasconde che militarmente non ce l’avremmo fatta senza gli anglo-americani.

L’Italia e la guerra? Bel tema e bel problema. Anche perché il direttore rifiuta programmaticamente di darmi chiarimenti. Come un direttore d’orchestra jazz, pensa che il bello stia nel dare il minimo di istruzioni agli umili orchestrali. Alla mia richiesta: Italia in guerra con chi? Con se stessa o con gli altri? Mi risponde che già questa domanda è un bell’inizio. Sta bene, accetto l’imbeccata. È vero. L’Italia ha un problema con la guerra, sia che la faccia agli altri che a se stessa.

Tuttavia, chi ormai non ha un problema con la guerra? L’ultima generazione che si sia sognata di avere una visione eroica della guerra furono i giovani che si slanciarono nella fornace della prima guerra mondiale. Poi venne Ypres e la guerra di trincea. La gioventù tedesca entusiasta di precipitare in battaglia assaggiò il Kindermord bei Langemarck, la strage degli innocenti di Langemarck: quattro corpi d’armata tedeschi costituiti di giovani volontari si lanciarono alla carica per tre giorni e per tre giorni furono falciati a mucchi dalle mitragliatrici. Erano tutti volontari e molti studenti, interi battaglioni composti da compagni di classe di poco più che vent’anni, con la testa piena di romanticismo e ardore eroico e patriottico. Il trauma penetrò nella coscienza collettiva e dissolse l’aura romantica della guerra.

La guerra non piace a nessuno, non solo agli Italiani. Conta il trauma della guerra moderna, con il suo inaudito gettito di sangue e distruzione, ma non facciamoci illusioni. Conta anche il più egoistico fatto che i paesi europei sono tutti usciti con le ossa rotte dalle guerre del ‘900. Quando scrivo paesi europei escludo il Regno Unito. Nei paesi anglo-sassoni le cose potrebbero essere parzialmente diverse. Basta sostare in un qualunque aeroporto e gironzolare nelle librerie dei gate per notare il ricco scaffale dei libri di storia militare dei vari paesi di lingua inglese.

L’esito felice e (diciamolo) giusto della seconda guerra mondiale ha ridato un po’ di onore alla guerra in quei paesi, producendo un’abbondante letteratura, accademica e divulgativa. La crescente tendenza poi della cultura di lingua inglese alla leggibilità, alla suspence e al coinvolgimento emotivo rende questi libri particolarmente attraenti. La complessiva positività delle figure storiche, a cominciare da Churchill, facilita le cose. Infine Hitler, il cattivone perfetto, rende il tutto definitivamente appetibile.

Le cose si complicano di nuovo con le guerre successive. I regimi comunisti –malgrado Stalin e i Gulag- non furono mai del tutto il cattivo perfetto. Il loro idealismo li protegge e le limitazioni alla libertà di quei paesi non hanno mai assunto l’aura luciferina dei nazisti, con buona pace della grandezza di Solgenizin. Anzi, tutte le ingiustizie dei paesi comunisti (raccapriccianti, a leggere sul serio Arcipelago Gulag) fanno sempre la figura di un pasticcio di una banda di incompetenti trovatisi al potere. Nulla di confrontabile con l’assassina efficienza dei nazisti.

Andando avanti sempre peggio: le rivolte coloniali, il Vietnam, Cuba, insomma cattivi sempre meno antipatici, sempre più simpatici, etnici e tropicali. E poi tutto il cinema dalla parte degli indiani pellerossa contribuiva a insinuare dubbi perfino negli innocenti ragazzoni americani. Infine la crisi finale con l’inestricabile pasticcio medio-orientale in cui ormai tutti sono e non sono tutto e niente. Tutti buoni e tutti cattivi, nessuno simpatico e nessuno nemmeno irreparabilmente odioso come un nazista: arabi e israeliani, musulmani e non musulmani, americani e non americani.

Un grande regista come Clint Eastwood riesce ancora a trovare accenti omerici e pensosi, ma la guerra è ormai un argomento di conversazione out. Il che vuol dire che è anche un argomento out nella nostra coscienza. Forse è stato così da sempre; forse anche tra i greci antichi se la cantava Omero bene, altrimenti parliamo d’altro.

Insomma forse, molto forse, nei paesi anglo-sassoni alcune esperienze positive ed eroiche in qualche modo rendono l’argomento guerra ancora affrontabile. O forse no, sono tutte balle che ci raccontiamo: l’anno scorso ero al congresso psicologico americano e finii a cena con i soliti colleghi italo-americani che, per nostalgia etnica, sono meno difensivi con me e –mi pare- non mi considerano uno straniero con il quale non parlare troppo male del loro paese. Il discorso finì sul Vietnam e fu una cosa penosa, diventò una cena a base di t-bone e senso di colpa. Dopo un po’ tornammo a parlare dei loro nonni italiani.

In Italia, naturalmente, l’argomento è totalmente tabù. Esperienze positive poche. Sappiamo bene che nel Risorgimento non ce l’avremmo fatta senza Napoleone III e i francesi e l’innegabile valore di testimonianza della Resistenza non nasconde che militarmente non ce l’avremmo fatta senza gli anglo-americani (senza contare il dettaglio che avevamo iniziato dall’altra parte).

Rimarrebbe la prima guerra mondiale, evento militare in cui in fondo siamo andati benino. Il problema è che la prima guerra mondiale è stata per tutti i paesi europei un suicidio, un irrazionale storico, un buco nero che, lungi dall’entrare nell’immaginario, lo distrugge ed è incapace di creare coscienza comune. Ogni comune italiano (e credo anche europeo: ne ho visti in Francia e in Germania) ha il suo monumento ai caduti, ed è anch’esso un buco nero di pietra bianca nella piazzetta del paese. Sta lì, a ricordare l’inutile strage alla quale nessuno voleva partecipare e che si portò via tanti uomini mai tornati, i cui nomi se ne stanno scolpiti lì, a raccontare tristi storie che nessuno ricorda più.

A Gravedona sul lago di Como ho visto scolpito sul monumento un nome incredibile: “Troppo Tardi”. Proprio così: questo caduto, quest’uomo si chiamava Troppo Tardi. Questo giovane italiano morto chissà dove, chissà se sul Piave o sulle Alpi, era evidentemente nato inaspettatamente da genitori in età avanzata che, spiritosamente, lo avevano chiamato Troppo Tardi. Forse una coppia di eccentrici un po’ anarchici come se ne trovavano in Romagna. Poi Troppo Tardi era morto presto, a poco più di vent’anni.

Di mio nonno che aveva il mio stesso nome e che partecipò a quella guerra non so nulla se non che fu chiamato diciassettenne al fronte sul Piave a fermare gli austriaci dopo Caporetto. So anche un’altra cosa: che decenni dopo, negli anni ’50, dopo averne passate tante come soldato e poi carabiniere, avrebbe voluto raccontare qualcosa di quegli anni ai suoi figli: mio padre e i suoi due fratelli e miei zii.

E loro niente, appena accennava a parlarne lo zittivano. Come faccio a saperlo? Me lo raccontò mio padre, pentendosene. Pentendosi di non aver voluto mai ascoltare i racconti di quel vecchio che aveva combattuto nelle trincee sul Piave. Come dicevo la Grande Guerra è un buco nero che non genera memoria ma la fa sparire. Chissà quante storie voleva raccontare mio nonno a mio padre, storie tristi e terribili, ma forse anche allegre.

Come magari di un commilitone lombardo che, pensa un po’, si chiamava Troppo Tardi, proprio così! Divertente, no? Può darsi, ma poi che succedeva? Avrebbe potuto chiedere mio padre. Niente, poi Troppo Tardi è morto. Forse mio padre sapeva che le storie del nonno finivano così. Chiaro che poi non aveva voglia di starlo a sentire.

Un unico ricordo di guerra è sopravvissuto alla strage della memoria. Una licenza di pochi giorni, un viaggio lunghissimo in treno dal fronte fino a Sessa Aurunca, luogo di origine della famiglia Ruggiero. E trenta chilometri a piedi dalla stazione di Capua fino a casa sua percorsi da mio nonno nella notte della campagna. Spero per lui che la licenza non fosse nel periodo invernale e che quindi quel soldato meno che ventenne percorse quei trenta chilometri nel tepore della notte estiva, nel silenzio della campagna e finalmente lontano dai colpi di cannone che probabilmente lo rintronavano al fronte.

Lasciamo da parte la guerra agli altri, che non sappiamo fare (ed è meglio così, lasciamo da parte questa abilità che è tutta satanica), e passiamo alla guerra a noi stessi. Campo nel quel si dice siamo bravi. Almeno questa è la vulgata. Si sa: l’Italia dei liberi comuni, i guelfi e i ghibellini, l’eterna discordia, l’incapacità di fare squadra, la difficoltà a fare sistema. Sappiamo, solite cose. E sicuramente in parte è vero. O forse no.

Una mia piccola convinzione me la sono fatta, in questi anni in cui ho collaborato con vari gruppi stranieri. Non ho visto tutta questa spontanea capacità di comprendersi e capirsi. Ho visto, questo sì, una volontà di organizzarsi. E quando? Ebbene, dopo una guerra dura, senza quartiere e senza prigionieri. Sto parlando di guerre tra gruppi scientifici, sia chiaro. Niente sangue. Dicevo, ho visto una volontà di organizzarsi dopo guerre spietate con un gruppo scientifico vincitore che stabiliva un paradigma indiscusso. Di qui poi la cosiddetta volontà di collaborare e così via.

In Italia, per ragioni storiche o anche perché è andata semplicemente così (che poi questo significa il parolone “ragioni storiche”: è così perché è andata così; e tanti saluti alle inesistenti cause esplicative) il vincitore unico spesso manca. Il paese è policentrico, ingombro di ostacoli geografici e culturali. I guelfi e i ghibellini ci sono perché nessuno infine prevalse, non per un’atavica tendenza alla divisione. Altrove non ci sono perché qualcuno vinse definitivamente la guerra tra potentati e stabilì il governo unitario: i Tudor o i Borbone o quel che volete.

Da noi il conflitto non è sfociato in un esito chiaro. Conta anche il terrore che il vincitore unico sia poi per sempre, che sclerotizzi la sua vittoria blindandola, come poi è effettivamente accaduto nel ventennio fascista. Ci si accontenta di compromessi al ribasso, il cui svantaggio è la carenza di regole comuni, di capacità di fare squadra. E poi si sopravvaluta la politica come mezzo per affrontare tutti i problemi e, ancora peggio, e si sopravvaluta l’appartenenza politica come mezzo per capire e giudicare le persone.

Almeno finora è stato così. Anche questa parziale verità, però, rischia di diventare luogo comune. Più che tra loro, gli italiani hanno l’abitudine di fare la guerra a se stessi. Ogni italiano é arrabbiato forse soprattutto con se stesso e con le sue insoddisfazioni. Cerchiamo nella politica un compenso alle nostre insoddisfazioni e quando non troviamo questo compenso rischiamo di andare in guerra, contro gli altri ma ancor di più contro noi stessi.

 

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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