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Tracce del Tradimento III: Ossessioni d’amore e perdita dell’amore

Rubrica Tracce del Tradimento - 03 - In realtà l’esperienza dell’ossessione amorosa è pur sempre un’esperienza squisitamente umana, formativa e molto ricca.

Di Roberto Lorenzini, Sandra Sassaroli

Pubblicato il 03 Apr. 2015

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – 03

Ossessioni d’amore e perdita dell’amore

Il dolore che arriva nei nostri studi dovuto al tradimento cercato e fatto è sicuramente ciò che ci ha portato a scrivere. La quantità e la durata della sofferenza che troviamo nelle relazioni d’amore ci colpisce sempre e -quasi- ci spezza il cuore.

Le sofferenze del sentimento rappresentano una parte importante del racconto terapeutico. Se la gelosia patologica rientra nella nosografia psichiatrica solo marginalmente (delirio di gelosia), la sofferenza d’amore, la sofferenza dovuta alla impossibilità di essere in pace in una relazione reciproca è al centro dell’intervento dei terapeuti. Anche se non è diagnosticata.

L’ossessione per la minaccia di perdita del partner è un punto importante della passione d’amore e del nostro lavoro quotidiano. La passione è sinonimo di ossessione, e dipende dalla minaccia della perdita di controllo sul partner. Solo se non c’è sicurezza, se c’è minaccia di perdita può esservi ossessione d’amore. Tuttavia non tutti di fronte alla minaccia di abbandono d’amore reagiscono allo stesso modo. Alcuni soffrono di più, sono colti da uno stupore straziante e temono di morire di questo dolore, non lo ritengono neanche affrontabile e si prestano a qualsiasi umiliazione pur di procrastinare o annullare l’abbandono del partner.

Non crediamo che la differenza sia tanto nella quantità della sofferenza e nemmeno che sia dovuta alla grandezza o alla potenza del sentimento in gioco.

Crediamo semmai che essa stia tutta nella rappresentazione che di fronte alla separazione le persone fanno di se stesse. Se essi si raccontano l’abbandono come la fine dell’esistenza o come un fallimento irrimediabile, sarà molto più difficile affrontarlo.

 

 

Da dove derivano queste diverse posizioni di fronte al vedersi abbandonato o tradito?

Gli studi sulla relazioni familiari suggeriscono che una relazione con i propri genitori, calda, emotivamente appagante e rispettosa (in termini tecnici: un attaccamento sicuro; Bowlby, 1988), sia un protettivo generico dalla costruzione di se come incapace o poco amabile o fallito di fronte al tradimento. Aver avuto dei genitori non critici, non esageratamente invadenti o trascuranti o maltrattanti non garantisce né il benessere psicologico né la felicità, ma facilita in genere la costruzione di una rappresentazione di se come persone decenti e capaci e degne di essere amate e una rappresentazione dell’altro come qualcuno con cui si possa entrare in rapporto in modo reciproco e non spaventosamente minaccioso. Un buon attaccamento non garantisce dalle sofferenze dell’amore, dalle ossessioni amorose, ma le rende curabili e superabili.

 

L’ossessione amorosa

In realtà l’esperienza dell’ossessione amorosa è pur sempre un’esperienza squisitamente umana, formativa e molto ricca. Aver mancato nella vita questa esperienza non è proprio vantaggioso. Ma sappiamo anche che questa sofferenza può essere estremamente distruttiva quando al dolore d’amore si aggiunge una idea di sé come incapace a sopravvivere, una percezione della propria fine, di incapacità ad affrontare il dopo, a ricostruirsi un’esistenza, così come può essere tragico se di fronte all’abbandono d’amore si reagisca con rabbia e ostilità e incolpando il partner dell’abbandono interpretato come un atto malevolo.

Può improvvisamente nascere un sentimento d’impossibilità alla guarigione e alla ricostruzione del futuro. Questo accade per una propria incapacità emotiva e psicologica (e nei casi estremi si può arrivare al suicidio) o per una ostilità mortale verso l’altro che abbandonandoci, non amandoci ci distrugge (e nei casi estremi si può arrivare a ucciderlo).

Di solito le cose non sono però così tragiche e quello che vediamo in terapia è una tendenza alla ripetizione di scelte sentimentali e comportamenti che procurano dolore a se stessi o al partner in modo ripetitivo ma non mortale. Chi ha imparato da qualche parte questa attitudine tende a ripeterla.

Il problema non è quindi la quantità di sofferenza per l’ossessione amorosa ma la sua ossessività correlata insieme a una costruzione di sé come privi di senso e di futuro, al di là dell’ossessione che si sta vivendo.

 

Serena era cresciuta in una famiglia di diplomatici russi che vivevano a Parigi. Un padre esplosivo e anaffettivo aveva da sempre avuto verso di lei un comportamento squalificante e umiliante, la ignorava e se lei si avvicinava per chiedere affetto si allontanava da lei con un viso pieno di disgusto. Egli non aveva però lo stesso comportamento verso sua sorella che invece amava con dolcezza e che riempiva di lodi. Serena era una persona razionale e molto contenuta, così aveva presto imparato a non contare sulla famiglia arrivando a chiedere, al momento delle iscrizioni alle scuole medie, di essere mandata in collegio. La vita di collegio l’aveva rassicurata, anche se sempre più si vedeva capace di affidarsi a se stessa più che ad altri. Aveva vissuto in collegio da sola fino alla laurea. E durante questo periodo i genitori non erano mai andati a trovarla. Si era laureata ed era andata a vivere a Roma dove aveva incontrato un uomo di cui si era infatuata, dopo un breve periodo di seduzione. Egli aveva molto spinto perché lei lasciasse le sue difese e si fidasse di lui lasciandosi andare al rapporto. Lei con grande fatica, illudendosi di aver trovato un grande amore e finalmente un appoggio nella sua vita solitaria, si era lentamente lasciata andare. Improvvisamente, però, quest’uomo, senza alcun motivo comprensibile, era divenuto fisicamente violento e aveva cominciato a tradirla con le poche amiche che lei si era fatta. Lasciando tracce dei tradimenti esplicite e indiscutibili. Tracce di rossetto sulla camicia, messaggi al cellulare. Serena aveva letto questo comportamento come una conferma del suo destino di solitudine e dell’impossibilità di “non essere soli” e aveva fatto, una sera di novembre, un tentativo di suicidio. Soltanto l’ostinazione di un lontano conoscente che non si era spiegato il suo mancato arrivo a una cena di lavoro -lei così scrupolosa e attenta a tenere con tutti rapporti formalmente ineccepibili- le aveva salvato la vita.

 

  • BOWLBY, J. (1988), A Secure Base. Routledge, Londra. Una base sicura. Tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1989.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

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Sandra Sassaroli
Sandra Sassaroli

Presidente Gruppo Studi Cognitivi, Direttore del Dipartimento di Psicologia e Professore Onorario presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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