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Neurobiologia e aggressività reattiva e strumentale

La criminologia e la psicopatologia forense si stanno occupando dello studio del rapporto tra atto aggressivo e funzionamento di determinate aree cerebrali.

Di Giampaolo Salvatore

Pubblicato il 28 Apr. 2015

La scienza criminologica e la psicopatologia forense pongono in questi ultimi anni sempre maggiore enfasi sullo studio del rapporto tra atto aggressivo-violento e funzionamento di determinate aree cerebrali.

In questo cotesto, Stracciari, Bianchi e Sartori (2010) notano come le funzioni psichiche riconducibili alle categorie giuridiche della capacità di intendere e di volere rispetto all’atto aggressivo-violento siano tutte in qualche modo legate alla funzionalità del lobo frontale. Più specificamente, Blair e collaboratori hanno osservato che gli psicopatici, caratterizzati da una scarsa capacità empatica, sono predisposti a forme di “aggressività strumentale” e non a quelle di tipo “reattivo” (Blair, Mitchell e Blair, 2005); una distinzione questa, da tempo accettata dalla comunità scientifica, su cui è il caso di spendere qualche parola in più.

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Nell’aggressività reattiva è un evento frustrante o minaccioso ad attivare il soggetto suscitando frequentemente rabbia. Per contro, l’aggressività strumentale è quella finalizzata a uno scopo, che in genere non riguarda la sofferenza della vittima ma, piuttosto, il dominio su quest’ultima, o l’ascesa nella gerarchia di un gruppo.

Aggressività reattiva e strumentale sembrano mediate da due differenti sistemi neurocognitivi. L’aggressività reattiva è l’esito della risposta animale a una minaccia percepita come ineludibile. Infatti, in generale, se la minaccia è modesta, l’animale risponderà col cosiddetto freezing, ossia paralizzandosi come se fosse istantaneamente congelato. Se la minaccia è più grave e pericolosa, l’animale tenterà la fuga.

A livelli estremi, quando la minaccia è imminente e la fuga impossibile, l’animale attiverà una risposta aggressiva di tipo, appunto, reattivo. Anche l’uomo può aggredire reattivamente perché percepisce uno stato di minaccia reale o perché è insufficiente la regolazione dei sistemi neuronali che mediano questa forma di aggressività.

Una terza possibilità è che la minaccia non sia reale ma sia percepita come tale, in associazione con un’iperattivazione dei sistemi neurali a base filogenetica che mediano la risposta alla minaccia percepita. Come già detto, invece, la maggior parte delle condotte antisociali (frodare, rubare, rapinare, nonché procurare lesioni o uccidere) è di carattere strumentale, e quando un soggetto le mette in atto è probabile che attivi gli stessi sistemi neurocognitivi chiamati in causa per ogni altro agire finalizzato a raggiungere uno scopo (Blair, Mitchell e Blair, 2005; Ceretti e Natali, 2009).

Per approfondire ulteriormente le differenze tra violenza reattiva/impulsiva e strumentale e i loro correlati neurobiologici occorre fare una breve digressione sulle cosiddette capacità di regolazione emotiva, limitando il campo a come questo aspetto viene analizzato nell’ambito più prettamente criminologico.

Dazzi e Madeddu (2009) riportano la fondamentale suddivisione delle capacità di regolazione emotiva in processi involontari e volontari. Nel primo caso si tratta delle risposte automatiche del soggetto agli stimoli emozionali. I processi volontari si riferiscono invece all’abilità del soggetto di utilizzare risorse percettive (come l’attenzione) e di inibire risposte comportamentali al fine di regolare comportamenti ed emozioni. È ovvio che processi involontari e volontari si integrano in una capacità regolatoria complessa: soggetti con alta reattività (quindi con bassa soglia di eccitabilità neurovegetativa) possono bilanciare questa vulnerabilità se in grado di esercitare funzioni volontarie di controllo.

Tornando ora alla distinzione tra aggressività reattiva e strumentale, è possibile affermare che il deficit delle funzioni regolatorie e di controllo emotivo rappresenti il substrato biologico dell’aggressività reattivo-impulsiva, tipico dei disturbi di personalità “esplosivi”, delle patologie da discontrollo degli impulsi episodico e di parte dei disturbi antisociali (Dazzi e Madeddu, 2009). Un deficit nell’area dell’apprendimento e della capacità di comprensione mentalistica della mente altrui sarebbe invece il substrato per l’aggressività strumentale, non reattiva, tipica della psicopatia.

I correlati neuropatologici dell’aggressività prevalentemente reattiva trovano sempre maggiore conferma nei dati di neuroimaging funzionale. Si è visto per esempio che due pazienti con danno a livello della corteccia prefrontale subìto nella prima infanzia mostravano comportamenti apertamente violenti (Anderson et al., 1999). Le regioni cerebrali compromesse in questi soggetti includevano più specificamente le aree ventrale, mediale e aspetti polari della corteccia prefrontale.

Similmente, Grafman e collaboratori (1996) hanno valutato 279 veterani della guerra del Vietnam riscontrando che il danno frontale è correlato con reazioni violente e aggressività. Anche Raine e collaboratori (2000) hanno rilevato che soggetti con personalità aggressiva impulsiva presentavano una riduzione dell’11% della sostanza grigia a livello della corteccia prefrontale. Il danno alla corteccia orbito-frontale correlerebbe quindi con l’aggressività di tipo reattivo, principalmente attraverso una disregolazione dei sistemi del tronco cerebrale, normalmente regolati dalla corteccia orbito-frontale, coinvolti nella mediazione delle risposte di base alla minaccia; questo danno quindi potenzialmente accresce il rischio di violenza reattiva alla minaccia/frustrazione. I pazienti con lesione orbito-frontale mostrano in effetti un rischio elevato di aggressività reattiva (Dazzi e Madeddu, 2009).

Così come le disfunzioni frontali hanno dimostrato la loro significatività nella disregolazione, disinibizione e inclinazione alla reattività, le disfunzioni a livello del sistema limbico, e in particolar modo dell’amigdala, hanno acquistato rilevanza come correlato neurale delle forme aggressive in cui prevale l’assenza di considerazione per l’altro o la disfunzione nella percezione della sofferenza altrui; elementi questi particolarmente chiamati in causa nell’aggressività strumentale (Dazzi e Madeddu, 2009).

A quanto pare quindi l’amigdala sarebbe chiamata in causa non solo, come è noto, nell’attivazione della paura, ma anche nel riconoscimento della paura e della sofferenza della vittima. L’ipoattivazione dell’amigdala impedirebbe quindi il controllo del comportamento basato sul riconoscimento della sofferenza dell’altro, ossia l’aggressività di tipo prevalentemente strumentale.

Non è pero forse possibile tagliare con l’accetta i correlati neurobiologici dell’atto aggressivo-violento. Sarebbe troppo semplicistico affermare che la violenza reattiva e impulsiva, una sorta di violenza “calda”, sarebbe il frutto del fattore A, e quindi del sistema neurale A1 (ipoattivazione o lesione della corteccia orbito-frontale), mentre la violenza strumentale, orientata a uno scopo, una sorta di violenza “fredda”, è il frutto del fattore B e quindi del sistema B1 (ipoattivazione o lesione dell’amigdala).

A conferma di questa necessità di avere uno sguardo più orientato al riconoscimento della complessità che al bisogno di semplificazione (anche a costo di una sincera ammissione del limite intrinseco delle ricerche), stanno alcuni studi di neuroimaging funzionale, che hanno studiato l’attivazione dei circuiti amigdalo-orbitofrontali durante l’information processing in pazienti con storia di aggressività impulsiva e reattiva, e non strumentale (Coccaro, McCloskey, Fitzgerald e Phan, 2007).

Amigdala e corteccia orbito-frontale condividono connessioni bidirezionali dirette e indirette, la cui efficienza è necessaria per la regolazione emotiva e il controllo dell’aggressività che si fonda, almeno in parte, sulla corretta decodifica del valore degli stimoli in entrata al fine di pianificare il comportamento più adeguato alla situazione.

Nei soggetti studiati l’amigdala reagiva eccessivamente in risposta alle facce rabbiose ma non ad altre espressioni emotive, mostrando che questi soggetti danno risposte aberranti in relazione a contesti minacciosi. L’iperattività amigdalica è “minaccia dipendente”, per cui l’iperarousal limbico non è generalizzato per tutti gli stimoli emotivi, a differenza di quanto avviene in altri disturbi di personalità come il borderline, nei quali si è visto che l’amigdala iper-reagisce a una varietà di espressioni facciali emozionalmente positive, negative e neutre.

Questi risultati suggeriscono che la disfunzione dell’amigdala sia da collegarsi anche all’aggressività reattiva, che si attiva in circostanze di provocazione sociale reale o percepita. Lo stesso studio ha mostrato che diverse regioni delle aree prefrontali risultavano ipo-responsive nei soggetti con aggressività reattiva. Una spiegazione possibile è che, nell’ambito del circuito orbitofronto-amigdaloideo, la corteccia orbitofrontale non veniva impegnata sufficientemente nell’interazione regolatoria con l’amigdala (sinistra), che era iperattiva nei soggetti aggressivi.

Tre tipologie di disfunzioni sono possibili: un’esagerata reattività dell’amigdala e una diminuita reattività orbitofrontale alle immagini visive che trasmettono minaccia; un’insufficiente connettività amigdalo-orbitofrontale durante un compito di riconoscimento; una correlazione diretta e positiva tra la reattività dell’amigdala ai volti rabbiosi e il grado di aggressività manifestata in passato. Nella sostanza, l’ipotesi di fondo sarebbe quindi che lo scollamento del circuito amigdala-corteccia orbitofrontale possa rappresentare il focus fisiopatologico nelle forme di aggressività e violenza di tipo reattivo (Dazzi e Madeddu, 2009).

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