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Autismo e Religione: ecco cosa ne pensa la dr.ssa Luisa di Biagio

Per la cultura autistica, la trasmissione di contenuti religiosi è mediata dalla difficoltà di accesso al canale comunicativo non verbale implicito

Di Ilaria Cosimetti

Pubblicato il 02 Apr. 2015

Solo attraverso un percorso educativo sostenuto da una profonda conoscenza del funzionamento autistico è possibile guidare un autistico alla conoscenza della religione e concedergli la possibilità di accoglierla o rifiutarla criticamente e in piena libertà.

L’autismo non è una cultura nel senso antropologico stretto della parola ma funziona come una cultura in quanto incide sui modi in cui tutti gli individui autistici si comportano, comprendono e comunicano con il mondo. Da diversi anni si parla infatti di “cultura autistica” per indicare l’insieme di parametri percettivi e comunicativi che accomunano le persone autistiche di tutto il mondo. Il primo a fare uso di questi termini è stato Theo Peeters, uno dei massimi esperti di autismo al mondo e sicuramente tra i più dediti alla profonda comprensione del funzionamento della mente autistica.

È bene a tal proposito ricordare che l’autismo è uno dei tanti modi di essere persona umana, un modello di organizzazione neurologica che accoglie al suo interno manifestazioni patologiche e non. Ciò che differenzia maggiormente questo modo di essere dalla più comune organizzazione tipica è un sistema sensoriale molto più raffinato che influenza tutti i processi percettivi, compresi quelli che interessano le competenze sociali e comunicative.

Se fino a due secoli fa i criteri comunicativi permettevano alla maggior parte della popolazione autistica di inserirsi senza difficoltà nel tessuto lavorativo, affettivo, politico e sociale, negli ultimi anni i criteri comunicativi si sono ristretti, guidati da una cultura tipica che da prevalente è diventata totalizzante. Bambini che un tempo sarebbero stati ritenuti semplicemente bizzarri ora sono considerati disabili e le proposte terapeutiche a loro indirizzate ambiscono spesso a una normalizzazione di aspetti cognitivi che in realtà dovrebbero essere riconosciuti come punti di partenza per favorire il benessere dell’individuo.

Tra le differenze più marcate tra la cultura tipica e quella autistica vi è una diversa rilevanza attribuita all’implicito e al canale non verbale. Questo canale comunicativo è prioritario per i neurotipici mentre inaccessibile per la maggior parte degli autistici. 

È facile immaginare quindi come la trasmissione di contenuti religiosi, affidata in gran parte alla comunicazione implicita, precluda agli autistici l’intera mole di informazioni culturali religiose.

Altre volte potrebbe invece raggiungerli sotto forma di indottrinamento non libero con il rischio di un’interpretazione letterale di messaggi spesso metaforici, con evidenti conseguenze negative in termini di benessere e salute mentale. Pensate per esempio all’effetto che può avere un messaggio verbale come “il nonno è morto ma ti guarda da lassù” rivolto a un bambino autistico che si attiene al significato letterale della frase. Potrebbe addirittura indurre in lui comportamenti che i clinici meno esperti ricondurrebbero ad un quadro psicotico con conseguenze nefaste per il bambino e la famiglia.

Due sole le conseguenze di tale scenario: rinuncia alla possibilità di godere degli arricchimenti della religione o aderenza letterale, ai limiti del fanatismo, ai precetti religiosi codificati alla lettera senza possibilità di flessibilità o evoluzione.

La persona ne esce comunque privata della libertà di scelta e della possibilità di usufruire liberamente della ricchezza di una vita spiritualmente solida, ove ritenuto liberamente un valore.

Solo attraverso un percorso educativo sostenuto da una profonda conoscenza del funzionamento autistico è possibile guidare un autistico alla conoscenza della religione e concedergli la possibilità di accoglierla o rifiutarla criticamente e in piena libertà. Attualmente chi si occupa di veicolare i valori religiosi, a scuola così come nelle sedi religiose, lo fa secondo parametri neurotipici, ignorando completamente gli aspetti di vulnerabilità degli autistici rispetto a questi temi, tra cui il potenziale fanatismo, la tendenza al rigore normativo e l’inclinazione alla repressione fino all’autolesionismo.

Anche in questo caso la soluzione è una: l’utilizzo di criteri divulgativi fruibili anche dalla popolazione autistica, espressione di una concreta inclusione nella società delle persone con organizzazione neurologica diversa.

 

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