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Agorafobia: la paura dell’attacco di panico nella grande città

La paura che proviamo quando ci sentiamo persi è un'esperienza emotiva fortissima, simile ad una reazione arcaica in situazioni di pericolo antichissime

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 08 Apr. 2015

Aggiornato il 05 Set. 2016 10:05

Un articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta del giorno 4/04/2015

 

È che forse la grande città moderna riproduce la giungla arcaica in cui ci si poteva improvvisamente perdere, non conoscere più i punti di riferimento, i sentieri per tornare al proprio villaggio, allo stesso modo in cui nelle metropoli prendendo la volta sbagliata possiamo all’improvviso non sapere dove siamo e quali pericoli stiamo correndo.

Esistono fobie e follie urbane? Tra tutte, l’agorafobia potrebbe essere la più adatta a descrivere la moderna angoscia di vivere in spazi metropolitani, il sentirsi dispersi in uno spazio impersonale ed estraneo, senza nessun punto di riferimento sicuro.

L’agorafobia è proprio il desiderio di fuggire via dalla pazza folla? È anche questo, ma forse è qualcosa di più.

Etimologicamente, il termine proviene dal greco “αγορά” (piazza) e “φοβία” (paura): “paura della piazza”. Ovvero degli spazi aperti e/o affollati. E fin qui ci siamo: piazza, agorà. Ci sono i soliti greci, antichi, ma già cittadini e quindi modernamente angosciati quasi come noi. E questo basti per la parola. La storia del concetto psicologico che sta dietro questa parola ha il suo fascino, e vedremo che esso ci parla non solo di angosce moderne, ma anche di paure arcaiche.

Nella cultura popolare il termine sembra essere usato per indicare una generica paura di uscire fuori casa. Ad esempio, nella letteratura gialla il detective Nero Wolfe risolve i casi senza uscire dalla sua villa.

La definizione tecnica usata dagli psichiatri è però differente: è il timore di trovarsi in luoghi dove – secondo il giudizio della stessa persona agorafobica – potrebbe avvenire un attacco di panico.

È una definizione meno intuitiva e immediata di quella popolare. In parole più semplici, si ha paura degli spazi aperti perché si teme che sia probabile avere degli attacchi di panico. E perché negli spazi aperti o affollati sarebbe più probabile avere attacchi di panico? È un errore di valutazione della persona che soffre o c’è qualcosa di vero? E il panico? È solo una grande paura, o qualcosa di diverso? E cosa c’entra il panico col timore degli spazi aperti e delle folle? E, infine, questi spazi aperti e queste folle temute dall’agorafobico sono gli spazi e le folle della metropoli moderna?

Il panico è una condizione emotiva di paura e terrore, in cui però prevalgono gli aspetti corporei e fisiologici della paura: il cuore palpita, il corpo trema e suda, si percepisce un malessere al petto o all’addome. Inoltre ci si può sentire bizzarramente estraniati dalla realtà e perfino da se stessi. Si ha paura, ma non si capisce bene di cosa. Forse del proprio star male, in una condizione che è terrificante, in cui si tocca con mano la sensazione di impazzire.

LEGGI ANCHE: ATTACCO DI PANICO COS’E’ E COME FUNZIONA

Queste sensazioni corporee corrispondono a un preciso assetto fisiologico che è uno dei tre sistemi biologici innati (gli altri due sono la fuga e l’attacco) che abbiamo a disposizione per reagire a un pericolo o a una minaccia: il “freezing”, ovvero il raggelarsi a imitare la freddezza della morte.

Questa reazione è qualitativamente diversa dalla paura che porta alla fuga ed è innescata da un pericolo terrificante in cui non vi sono vie di fuga. In questi casi tanto vale paralizzarsi in una condizione di estremo rallentamento delle funzioni vitali, che è l’assetto fisico migliore (o meno peggiore, a essere realistici) per affrontare situazioni estreme, che siano disgrazie naturali o anche attacchi di predatori, che magari potrebbero risparmiarci proprio perché ci scambiano per cadaveri. A volte si scampa in questa maniera alle fucilazioni di massa: svenendo e –naturalmente- avendo la fortuna di non essere colpiti dalle sventagliate di proiettili e di non essere seppelliti subito vivi ma lasciati li, morti apparenti in compagnia dei veri cadaveri.

Quello che è interessante è che la maggior parte degli animali posti in un ambiente non familiare mostrano immediatamente un incremento di indicatori di freezing, a dimostrazione che lo spazio aperto e gli ambienti non familiari racchiudono in sé un’informazione emozionalmente significativa. Che significa? Come si spiega l’attivazione di un sistema emotivo così arcaico e primitivo in questa condizione modernissima, come il sentirsi dispersi in una grande città?

È che forse la grande città moderna riproduce la giungla arcaica in cui ci si poteva improvvisamente perdere, non conoscere più i punti di riferimento, i sentieri per tornare al proprio villaggio, allo stesso modo in cui nelle metropoli prendendo la volta sbagliata possiamo all’improvviso non sapere dove siamo e quali pericoli stiamo correndo.

Un momento però: stiamo parlando di panico. Non di agorafobia. Quindi cosa c’entra la grande città e le sue follie con il panico? Il panico è questa reazione arcaica a un pericolo estremo. Qual è la connessione con una paura moderna come l’agorafobia? E qui torna utile la storia accidentata del termine agorafobia. Vi è a discrepanza tra il significato popolare della parola e il significato tecnico.

La psichiatria lega panico e agorafobia: l’agorafobia non è solo paura degli spazi aperti, ma timore di poter aver il panico in quegli spazi aperti.

Unendo insieme tutto quello che abbiamo detto sul panico come senso di disorientamento in situazioni di pericolo, la relazione tra panico e agorafobia e quella tra perdita di direzione sia in situazioni antichissime che modernissime, ecco che tutto assume un senso.  E spiega gli aspetti cittadini e urbani delle varie forme di agorafobia; la nevrosi da strada (street neurosis) o la fobia del supermarket.

Questo significa che lo sgomento che proviamo quando siamo perduti (in tutti i sensi) nella foresta urbana o quando lo eravamo nelle foreste inurbane è un’esperienza emotiva fortissima, che è elaborata da circuiti neuronali pre-consci (ma mai del tutto inconsci). È l’ipotesi di Jaak Panksepp (LEGGI: Archeologia della Mente di Jaak Panksepp e Lucy Biven – Recensione), che ha immaginato la mente come un fenomeno evolutivo con multipli livelli di emergenza, da quello semplice e immediato della sensazione/azione pura, ovvero la paura/fuga, la rabbia/attacco e il panico/freezing, per passare alla capacità di rappresentarsi queste esperienze motorie e percettive in termini di immagini, fino ad approdare alla forma più evoluta di coscienza che coincide con la capacità di rappresentazione simbolica-linguistica dell’esperienza.

Questa evoluzione però non elimina le forme emotive precedenti. Viviamo nelle grandi città, ma la nostra prima reazione è ancora quella della foresta. Quindi non ci limitiamo a essere un po’ preoccupati di perderci in città, o essere un po’ a disagio in un ambiente impersonale in cui non si conoscono i passanti e non si hanno rapporti con i condomini.

Percepiamo tutto questo come una minaccia terrificante, simile a quella che coglieva il nostro antenato quando si allontanava dal villaggio. Con il paradosso però che questa angoscia noi la viviamo il villaggio e non al di fuori, ovvero nella città, diventata ignota come un tempo lo erano gli spazi aperti oltre la palizzata del villaggio.

A questo punto potremmo avere nostalgia del villaggio, del vecchio “tutti conoscono tutti” e così via. Nostalgia in parte fondata, naturalmente. Non dimentichiamo però che anche dietro quel “tutti conoscono tutti” c’erano altri problemi: l’assenza di privacy, il forte controllo sociale, i limiti che le società tradizionali ponevano alla libertà del singolo. Sono questi limiti cui abbiamo rinunciato volentieri che, improvvisamente, ci rendono con la loro mancanza vulnerabili all’angoscia urbana.

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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