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Trauma prolungato e Dissociazione: I più deserti luoghi (2015) di Silvana Gandolfi

Nel romanzo la realtà si intrufola camuffata nei processi onirici e dissociativi che caratterizzano il gioco dei protagonisti, fatto di scenari fantastici

Di Giancarlo Dimaggio

Pubblicato il 27 Mar. 2015

Non è paranoia, mi dico da clinico. È dissociazione in pieno. Personaggi immaginari che iniziano a muoversi nell’immaginazione senza controllo, come i nemici che ti sono in casa quando sei tornato dalla guerra in Iraq.

I traumi in ambito relazionale frammentano la mente, la disgregano, disintegrano. Lo hanno insegnato, sulle orme di Janet, i lavori di Van der Hart, Liotti, ce lo confermano i lavori sperimentali degli ultimi anni (una menzione a quelli fatti in casa SITCC da Farina e colleghi). La letteratura non può mancare di pescare in questo processo.

IL TRAUMA

Recentemente il romanzo “I più deserti luoghi” (Ponte alle Grazie) di Silvana Gandolfi, ne offre un esempio. Una donna, quarantasette anni, si occupa del fratello disabile, un danno cerebrale nella prima infanzia. Lo accompagna da sola, lo accudisce, a loro modo sono una coppia isolata dal mondo. Del padre si sa che è fuggito in Australia con l’ultima squinzia, la madre è morta dopo lunga malattia del sangue. Come traumi non è roba da poco. Aggiungete che il ruolo di caregiver poi, quando ci si confronta con situazioni estreme, non fa benissimo alla salute psichica.

Ce n’è abbastanza per far dissociare la protagonista? Teorie alla mano direi di sì. E alla protagonista questo succede. Inventa un “gioco” col fratello, nient’altro che un esercizio compulsivo di uso della proiezione.

LA DISSOCIAZIONE

Il fratello è cieco e parla a fatica. E lei gli fa vedere persone intorno, descritte con mille sfumature, lo fa scrivere in modo forbito, teme che lui possa leggere il diario in cui parla della “Casa della Strega”, di un luna park che vide dall’infanzia e che forse avrà preso dal Popolo dell’autunno  di Ray Bradbury. Teme che lui legga il diario e si dice, giustamente, che sta diventando paranoica. Non è paranoia, mi dico da clinico. È dissociazione in pieno. Personaggi immaginari che iniziano a muoversi nell’immaginazione senza controllo, come i nemici che ti sono in casa quando sei tornato dalla guerra in Iraq.

E la cosa peggiore in questi casi è il senso di colpa. Se il malato dipende da te, come te ne stacchi? Puoi farti una vita se hai un fratello in carrozzina? No. La mente regge un’esperienza del genere? No. Che resta da fare? Dissociare direi.

Creare un mondo alternativo, con un interlocutore vitale: “Ma io so che dietro l’apparenza inerte, pensieri vividi vengono elaborati e vagliati dalla sua mente”. L’alternativa: abbandonare, istituzionalizzare, ascoltare il senso di colpa, lasciarlo andare via, vivere. In tanti casi operazioni semplicemente impossibili. Il “Gioco”. Lui sceglie un luogo, un itinerario. Lei lo abita. Un gioco padrone/schiava in realtà, in cui la schiava avrebbe pieno potere, ma è il malato che comanda, un tiranno eletto in piena volontà.

La realtà si intrufola camuffata nei processi onirici e dissociativi. Olga, la protagonista, nota che il fratello non mette mai esseri umani nei suoi scenari fantastici. Ci mette tsunami, vegetazione in abbondanza. Segno direi, che riconosce che nella mente del fratello c’è vita ma fino a un certo punto. La comparsi di un granchiolino sembra già un successo, un segno di evoluzione.

Il romanzo si sviluppa così, il “Gioco” nasconde personaggi letterari (benvenuta Anna Karenina), ricordi, fantasmi, morti, sadismo psicologico, vita e ancora prigione. Leggerlo da clinico è un gioco di un altro livello: analizzare la mente della protagonista e riflettere su come gli eventi della vita abbiano disgregato la sua mente e come il processo narrativo la aiuti a tenere insieme i pezzi. Ci riesca o no, non è mio compito svelarlo al lettore. Si chiamerebbe spoiler.

 

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Giancarlo Dimaggio
Giancarlo Dimaggio

Psichiatra e Psicoterapeuta - Socio Fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva-Interpersonale

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