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La disciplina interiore del terapeuta

Si tratta di una funzione imprescindibile del terapeuta, ma più che una tecnica pratica rappresenta un assetto interiore sufficientemente stabile

Di Giampaolo Salvatore

Pubblicato il 20 Mar. 2015

Gli allievi rientrano in classe. Una ventina. Ultimo anno di specializzazione in psicoterapia cognitivo-comportamentale. Una fase esistenziale di passaggio, non semplice. Professionisti scolari. Genitori figli. I maschietti soffrono una schiacciante minoranza. Riprendono posto senza mostrare la minima fretta. La pausa caffè è uno dei motivi essenziali per cui ci si iscrive a una scuola di specializzazione. Lancio uno sguardo privo di messa a fuoco sulle sagome sedute sulle sedie stile college americano, quelle con la mini-scrivania fissata come una protesi sul bracciolo. – Chi  vuole portare un caso?

Guardano con estremo interesse un punto a caso dello spazio, basta che sia fuori del perimetro della mia figura.
Ricordo benissimo quello che passa per la mente degli allievi in quel momento, perché ci sono passato tantissime volte stando dalla loro parte: dopo che per tre minuti d’orologio nessuno si sarà fatto avanti per portare un caso in supervisione, la probabilità che il docente si scocci, o si senta troppo imbarazzato dal silenzio generale, e scelga proprio te, praticamente costringendoti a parlare di un caso clinico, anche inventandotelo, è legata all’eventualità che incontri il tuo sguardo. Come alle scuole medie e al liceo. Io per esempio, se percepivo che lo sguardo del docente stazionava su di me per più di mezzo secondo, facevo in modo da sembrare impegnatissimo ad annotare una riflessione decisiva per la comunità scientifica. A quel punto il docente giungeva alla conclusione che ero troppo scemo per poter affrontare in modo sensato qualsiasi argomento, figuriamoci un caso clinico. Comunque, l’avevo scampata.

Un’allieva seduta in prima fila ha uno scatto improvviso del collo. Si guarda attorno per far vedere agli altri che si sta immolando, e per farsi investire dalla ola invisibile di sollievo e gratitudine che percorre la classe. Inizia a descrivermi il caso con abilità collaudata. Le hanno insegnato un protocollo espositivo per riordinare le sciagure umane nell’opportuna gerarchia. L’emulazione un po’ taroccata dell’anamnesi medica. In un contesto, la psicopatologia, che con la medicina non ha mai avuto alcunché da spartire.

Ascolto con la stessa attenzione che di solito presto alla pubblicità per gli assorbenti interni. Quasi subito, a scuoteremi dal mio imbambolamento è il pensiero che farebbe parte del mio lavoro qui capire perchè mi sono imbambolato. E infatti lo capisco. Non sto vedendo il paziente, nè chi me lo racconta. E quando mi succede questo, la mia coscienza va sempre in stand by. La interrompo più gentilmente che posso. La ringrazio per l’accuratezza della descrizione. Le chiedo se ora possiamo provare a focalizzarci sul motivo che l’ha spinta a portare il caso in supervisione. Il macrorganismo sinciziale della classe si anima con un mormorio che sembra sottolineare che la mia domanda ha una ragione ovvia; anche se manco il macrorganismo sinciziale sa quale sia.

L’allieva tortura i fogli dei suoi appunti senza mettere a fuoco nemmeno una riga. Vorrebbe non essere lì in quel momento; arrivare col pilota automatico alla prossima pausa caffè, magari per commentare coi colleghi quanto io oggi stia rompendo le scatole con le mie domande. Le chiedo se le venga in mente un momento specifico in cui si è sentita in difficoltà col paziente. Ci riflette, mentre cenni leggerissimi di ‘sì, sì, ho capito’ con la testa, come Massimo Troisi nella scena della chiesa in “Non ci resta che piangere”, scandiscono le associazioni mentali. Descrive la scena che fino a quel momento le si era nascosta dietro agli occhi.

– In realtà c’è stato un momento, non nell’ultima seduta, in quella precedente, ma non so se è veramente importante.
Con la faccia le dico ‘è importante’. Con la faccia mi dice ‘ok, se lo dici tu’.

– Mi ha chiesto di prendere un caffè insieme.

Mormorio prolungato di soddisfazione del microrganismo sinciziale. Di quelli che fanno da sottofondo alle sit com americane. Lei ha il viso di chi uno a cui hanno appena cavato un dente. Una miscela strana di rabbia e riconoscenza che mi intenerisce.

– Capisco. Che hai provato?

La risposta è un riflesso patellare verbale.

– Beh, mi sono arrabbiata molto…

Penso che ora mi dirà: ‘…ma ho disciplinato la mia rabbia’.

– …ma ho disciplinato la mia rabbia.

Fermiamoci un attimo. Autori guru come Safran (Safran & Segal, 1990; Safran & Muran, 2000) hanno descritto la disciplina interiore del terapeuta come funzione imprescindibile in casi come questo. Il  terapeuta si arrabbia perchè il paziente l’ha invitata a prendere il caffè? O si irrita perchè il paziente improvvisamente mette il broncio? O si annoia perchè il paziente risponde a monosillabi?

Il terapeuta allora attiva delle procedure interne di regolazione delle proprie emozioni negative evocate dal paziente per evitare che esse lo spingano a compiere interventi nocivi per la relazione e per le sorti della terapia. Se queste procedure hanno successo, esse collocano il terapeuta in una posizione vantaggiosa per operare un intervento efficace. Esplorare la dinamica interna del paziente senza esserne parte. Aiutare il paziente a osservarla da una nuova prospettiva.

Roba fortissima. Potentemente transteoretica. Di più: ateoretica. Maledettamente pratica. Perchè allora quasi sempre gli allievi, anche avanzati (e qualche volta, i terapeuti avanzati) quelle procedure non le eseguono efficacemente (anche se studiano Safran)? Una risposta, un po’ ingenua, abbastanza radicale, io me la sono data. Ma per spiegarla al meglio dobbiamo tornare in classe.

– Sono sicuro che tu l’abbia disciplinata. Ma aiutami a capire meglio. Rabbia legata a cosa? Ci arriviamo insieme dopo venti minuti faticosi. Le servono soprattutto per rassicurarsi sul fatto che io e la classe faremo buon uso di ciò che fa fatica a dire a se stessa:

– Lo ammetto, una parte di me aveva voglia di prendere un caffè con lui. In fondo mi affascina. Ma nello stesso tempo mi sono sentita poco rispettata.

Ci prendiamo il tempo necessario per scendere più in profondità. Nella classe, il silenzio assoluto della totale identificazione con la collega. L’esatto opposto dell’attitudine giudicante. Questo significa esser diventati una bella classe. Fino a quando arriva il momento di dirle, lentamente:

– Sentire che è solo un altro a decidere se abbiamo valore o no?!

La scossa che serve le arriva alla pancia:

– Non lo so decidere da sola, eh!?

Ormai in questa classe un po’ mi conoscono. Alcuni immaginano quale sarà la prossima domanda:

– Dove ti porta questo? Ti viene in mente una scena?

Le viene in mente. E quello che le viene in mente è essenziale per vedere con nitidezza disarmante (vedere, non capire) quanto il paziente non ne sappia niente della storia del terapeuta che ha di fronte (e non sia tenuto a saperne); non sappia niente di quanto, per esempio, possa essere stato periglioso il percorso che ha condotto il suo terapeuta a strutturare un’immagine stabile di sè e del proprio valore. Il paziente lo ha solo invitato a prendere un caffè.

La capacità del terapeuta di comprendere il significato profondo che si cela (e si palesa) in questo invito – in eventi come questo, così densi  di implicazioni per le sorti di una terapia – decade istantaneamente nel momento in cui la mente del terapeuta stesso inizia a impegnare tutte le risorse di cui dispone per attutire un contraccolpo.

Respingere l’onda d’urto della propria vulnerabilità, personale, storicamente fondata, che entra prepotentemente nel campo terapeutico e confonde le acque. Induce nel terapeuta un delirio in miniatura a difesa di un senso un po’ finto di stabilità interiore: ‘Il paziente mi manca di rispetto’. ‘Il paziente non rispetta il confine’. O, per i più sofisticati: ‘Il paziente cerca di controllarmi per reificarmi, così da disincarnarmi, in modo da de-soggettivizzarmi, con l’intento sottile, vitale per la sua economia psichica, di rendermi non esistente e quindi mai potenzialmente abbandonante’.

Intendiamoci, capita spesso che la sofferenza emotiva del terapeuta appaia semplicemente come il precipitato della patologia dell’altro. Che il terapeuta sia chiamato a disciplinare processi interni problematici per lo più innescati dal funzionamento del paziente. La conosciamo, la sensazione ansiosa di “camminare sulle uova”, nel confronto con la diffidenza di un paranoide grave; il pensiero insistente, semi-dissociativo, di spiagge caraibiche, come antidoto alla noia imbarazzata scatenata dai monosillabi di un grave evitante; la voragine in cui precipita l’autostima – e la rabbia che ne consegue – nel confronto col disprezzo del narcisista; la sensazione che Kernberg quanto a bravura terapeutica ci fa un baffo, quando un paziente dipendente ci fa sentire indispensabili.

Il controtransfert patologia-specifico esiste; è un fondamentale marcatore diagnostico; una guida euristica imprescindibile.

Però, mettete tre terapeuti con lo stesso paziente, che so, paranoide. Ciascuno di essi avrà il proprio modo di “camminare sull uova”; per ciascuno di essi percepire quel particolare tipo di ansia avrà come substrato un peculiare, autobiografico, scenario interno, che prende forma dietro la porta della coscienza ogni volta che quell’individuo si imbatte in una seria difficoltà. Magari per il primo sotto quell’ansia ci sarà il timore di percepirsi fallimentare, per il secondo la conferma dell’immagine paventata di sè come irresponsabile, che arreca danno, per il terzo lo spettro di una frammentazione interna. Per ciascuno dei tre, la vera disciplina inizia con l’accesso a quelle percezioni.

Provo allora a dare una risposta, la mia, alla domanda di prima. Perchè quasi sempre gli allievi, anche avanzati – non proprio raramente, i terapeuti avanzati – non eseguono  efficacemente le procedure di disciplina interiore?

Perchè non sono procedure. Non possono essere considerate tecniche. La disciplina interiore va secondo me intesa come un assetto interiore sufficientemete stabile. Uno stadio avanzato dello sviluppo di sè che, già che c’è, può essere utile anche nel mestiere di terapeuta, soprattutto col paziente “difficile”. Una posizione del sè che si basa sostanzialmente sul graduale affinamento della capacità di mettere tra parentesi se stesso. Aver osservato così da vicino le proprie zone di vulnerabilità, essersi allenati ad osservarle ogni giorno, sempre con uno sguardo benevolo, nel momento in cui si attualizzano nelle situazioni, da saper lasciare che si trasformino in un rumore di fondo.

Per cui, quando quelle vulnerabilità invadono il campo terapeutico, non generano più il bisogno urgente della mente di scotomizzarle spostando le ragioni del problema all’esterno. Sapersi dire, per esempio, al cospetto del paziente: ‘In questo momento sono arrabbiato non perchè chi mi sta di fronte sta violando il principio etico del rispetto del mio ruolo e questo non è giusto, ma perchè sento la mia autostima minacciata, e mi sento così perchè quando lui ha messo su quell’espressione sprezzante (o anche se semplicemente mi fa l’affronto di non migliorare) è come se avesse spinto la mia faccia davanti allo specchio e lì ci ho visto, come mi capita spesso da quando avevo tredici anni, che non valgo quanto vorrei’. Impossibile attivare oggi, al cospetto del paziente, il muscolo che produce consapevolezze del genere, se non l’ho allenato lungamente. Quotidianamente. La vera disciplina interiore secondo me è quella che viene messa in atto accidentalmente in psicoterapia.

Quel muscolo, ciascuno lo allena col metodo che preferisce.  Le strade ci sono. Una è quella intellettuale. Filosofi come Cioran (1956; 1973), forse superando Nietzsche, hanno mostrato la potenza creativa di un certo tipo di nichilismo.  Cioran dice che la nostra sostanza si sgretola momento per momento, ma noi dovremmo imparare a fare di questo consumarsi un principio di efficacia, come lo chiama lui. Trarre vantaggio dalla prospettiva di non essere che quel consumarsi lascia intravedere.

Non essere significa mettere l’io tra parentesi, e fare in modo di “vibrare al contatto del vuoto che è in noi”.

Regressione germinativa, la chiama lui, discesa verso le nostre radici. Morire, in un certo senso, per stabilire la nostra vera identità, svelando la nullità del tempo, che finisce per non avere più alcun potere su di noi. In psicoterapia, alcuni autori, che non so se hanno letto Cioran, si avvicinano a qualcosa del genere quando parlano di “autotrascendenza” (Travis & Shear, 2010).

Un’altra via maestra, le arti marziali, praticate con l’insegnante giusto. Un’altra ancora, la Mindfulness. Meglio ancora se ne recuperiamo le autentiche radici spirituali. Una di queste radici è la scuola del Vedanta, per la quale la meditazione non è necessariamente solo il momento in ci sediamo e incrociamo le gambe. Si può meditare ripetutamente, continuamente, in risposta alle situazioni, mentre le viviamo. Come insegna Nisargadatta Maharaj (2001). Secondo lui la mente produce continuamente idee diverse su noi stessi. Cambiamo continuamente la rappresentazione che abbiamo di noi e degli altri. Da un giorno all’altro, da un momento all’altro. L’immagine che abbiamo di noi stessi è la più mutevole di tutti, è la più vulnerabile, alla mercè della prima cosa che capita. Quella particolare frase del partner, perdere il lavoro, un lutto, un insulto, e l’immagine che abbiamo di noi, quel “vizio della mente che chiamiamo persona”, cambia, anche profondamente.

Dice Maharaj che per poter indagare chi siamo veramente dobbiamo prima di tutto osservare continuamente cosa non siamo. E certo non siamo quell’immagine così mutevole. Bisogna diventare semplici testimoni di qualsiasi sensazione, desiderio, emozione (iniziando da quelle problematiche) che transiti davanti al palcoscenico della mente. Osservarlo per un attimo e poi archiviarlo come cosa non corrispondente a sè. Dire di tutto: ‘Io non sono questo’. Prima col pensiero, poi con le emozioni, e poi con le azioni. Sembra una strada che conduce alla spersonalizzazione. È esattamente il contrario.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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