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Psicoterapia cognitiva: quali scopi, quali processi e quali credenze?

Il tema di questo dibattito è il rapporto tra processi, scopi e credenze cognitive e vengono messi a confronto i punti di vista di diversi psicoterapeuti.

Di Gabriele Caselli

Pubblicato il 24 Mar. 2015

Il tema di questo dibattito è il rapporto tra processi, scopi e credenze cognitive.

Un dibattito acceso qui su State of Mind che delinea quanto il cognitivismo italiano e internazionale stia attraversando una fase di riflessione critica circa i propri limiti, figlia anche dei recenti sviluppi scientifici legati a metacognizione e a nuove forme di psicoterapia.

Il tema di questo dibattito è il rapporto tra processi, scopi e credenze cognitive.

Giovanni Ruggiero (https://www.stateofmind.it/2015/03/psicoterapia-cognitiva-processi-credenze/) sottolinea tra i limiti del cognitivismo standard la concezione di cognizione come una struttura monolitica rappresentata in modo fisso nella mente dell’individuo, una visione a tratti ideologica che non ha ricevuto un sostegno scientifico stabile nel tempo (Teasdale & Barnard, 1993). Si oppone ad essa una crescente attenzione ai processi cognitivi: il pensare come flusso dinamico e strategico che ha un impatto sia sugli stati emotivi che sulle credenze relative a sé e al mondo. In un recente articolo sottolineo come le credenze negative su di sé possano essere il frutto e non la causa di una tendenza ruminante e di uno stato depressivo (https://www.stateofmind.it/2015/02/depressione-ruminazione/).

Il ruolo dei processi cognitivi concede di uscire da  uno strutturalismo monolitico che strizza l’occhio a una prospettiva per cui i pazienti sarebbero, almeno temporaneamente, deficitari o  malfunzionanti, quindi nella condizione di dover essere riparati o riabilitati. L’alternativa è una prospettiva funzionalista in cui l’attivazione di determinati processi cognitivi e comportamentali, anche quando costosi e controproducenti, ha una funzione appresa o sorretta da regole, credenze e scopi.

Un esempio è il rimuginio, vale a dire la tendenza a preoccuparsi di ciò che può accadere di brutto in situazioni di incertezza. Questo processo cognitivo è percepito spesso come automatico e incontrollabile nonostante sia sorretto da regole implicite per cui preoccuparsi aiuta ad essere pronti, a prevenire il peggio, a trovare soluzioni.

I processi cognitivi sono quindi sorretti da scopi (proteggersi, ridurre il disagio) e credenze (preoccuparsi mi è utile o anche se inutile non riesco a smettere di farlo). Poi questi processi divengono controproducenti e rinchiudono nella gabbia di un disturbo psicologico.

Per esempio, nel Disturbo di Panico il paziente si concentra costantemente e monitora propri segnali fisici. Questo automonitoraggio corporeo ha la funzione (scopo) di cogliere prima possibile segnali di minaccia per proteggersi ma ottiene l’effetto indesiderato di aumentare la percezione dei segnali corporei minacciosi.

Francesco Mancini (https://www.stateofmind.it/2015/03/psicoterapia-cognitiva-scopi-disposizioni/) suggerisce come il vero vulnus dell’approccio cognitivista in generale e dei filoni di ricerca citati da Ruggiero è proprio la mancanza di attenzione al concetto motivazionale di scopo, e ancora che il concetto di scopo è cruciale per la spiegazione della sofferenza psicopatologica mentre processi e credenze non sono sufficienti.

Se il ruolo degli scopi è stato trascurato dal cognitivismo standard di Beck (1967), molti ricercatori e clinici cognitivo-comportamentali tra cui lo stesso Francesco Mancini hanno avuto il merito di sottolineare il ruolo di questa componente nella genesi e mantenimento dei disturbi psicologici.

Su questo punto Giancarlo Dimaggio (https://www.stateofmind.it/2015/03/scopi-motivazioni-metacognizione/) ribadisce come diversi cognitivisti hanno considerato il concetto di scopo. Quello che differenzia gli autori citati da Dimaggio è la priorità a diverse categorie di scopi. Francesco Mancini cita come prioritari, gli scopi (motivazioni) connessi all’evitamento di situazioni temute (la perdita di coscienza nel Panico, la brutta figura nel Disturbo d’Ansia Sociale, la colpa nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo e così via).

Tra altri ricercatori il concetto di scopo ritorna rispetto al ruolo dei sistemi motivazionali e scopi basilari come attaccamento, accudimento, rango sociale, inclusione nel gruppo (Liotti, Gilbert, Farina) fino all’importanza di quelli che potremmo definire scopi e desideri interpersonali nella Terapia Metacognitivo Interpersonale di Dimaggio e colleghi (2013).

E infine la prospettiva metacognitiva, che conosco meglio, per cui lo scopo sostiene la patologia se è (1) autoregolatorio e (2) irrealistico. Uno scopo autoregolatorio irrealistico implica il tentativo di mantenere uno stato di quiete interna attraverso monitoraggio e prevenzione, risoluzione o soppressione di certi stati mentali, emozioni, sensazioni corporee o pensieri (autovalutazioni, ossessioni) che vengono considerati alla stregua di dati di realtà (es. la sensazione di perdere il controllo diventa un dato  affidabile di una imminente perdita di controllo) per cui importanti, pericolosi, da eliminare.

Tuttavia, l’importanza data a pensieri automatici e sensazioni corporee porta a incrementare frequenza, intensità e durata nella percezione soggettiva con il risultato che lo scopo autoregolatorio viene costantemente frustrato. Inoltre questa attenzione focalizzata sulla propria esperienza interna (a scopo autoregolatorio) ostacola l’acquisizione di una distanza critica dai propri stati mentali, vale a dire la percezione di una differenza tra “mi odia” ed “ecco che mi vengono pensieri paranoici”.

 In sintesi, credenze, processi e scopi hanno ruolo rilevante in numerose prospettive. Il dibattito scientifico però non si chiude con questa consapevolezza.

Primo, occorre spiegare quali sono gli scopi rilevanti per la psicopatologia e in che modo sostengono il malessere. Scopi di evitamento del danno, scopi e desideri interpersonali, scopi anche di fama e successo sono tutti comprensibili componenti della natura umana.

Secondo, non è chiaro quale sia la differenza negli scopi tra persone con disturbo psicologico e persone senza un disturbo psicologico. Cosa degli scopi discrimina le due popolazioni?  È possibile ipotizzare che popolazioni cliniche e non cliniche condividano simili scopi ma siano diverse per caratteristiche con cui questi vengono selezionati, perseguiti, abbandonati?

Terzo, se simili scopi sono condivisi da individui che non soffrono, allora quali sono caratteristiche che rendono uno scopo problematico? La problematicità degli scopi risiede nei contenuti o nel modo in cui vengono regolati?

Per citare alcune possibili caratteristiche: (1) criteri irrealistici, troppo stretti per considerare uno scopo raggiunto o troppo lassi per considerarlo compromesso, (2) difficoltà a disingaggiarsi da uno scopo quando necessario o quando definitivamente compromesso, (3) rigidità nel perseguirlo ignorando altri scopi pur rilevanti per l’individuo, (4) uso di strategie attentive e cognitive (processi) per soddisfare lo scopo che in realtà lo danneggiano, (5) convinzioni circa la possibilità di poter governare la propria reazione a una minaccia o compromissione di uno scopo.

Queste domande rilevano che anche gli scopi potrebbero essere sussunti a credenze circa il sistema di regolazione dei propri scopi, la selezione degli scopi prioritari, i criteri di compromissione e raggiungimento, le strategie utilizzate per soddisfarli.

Uno spunto riconosciuto da Dimaggio quando afferma che gli esseri umani agiscono guidati da scopi e desideri e da credenze sulle condizioni che permetteranno o meno di realizzarli e dall’interesse di Francesco Mancini per il problema secondario che può essere letto come una prospettiva auto-regolatoria a ridosso del problema primario. Forse il cerchio si potrebbe chiudere in futuro, ma è solo un’ipotesi, con la palla nelle mani di un certo tipo di credenze (metacognitive) che definiscono regole e criteri con cui il sistema si autoregola rispetto ai propri scopi, indipendentemente da quali siano.

 

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Gabriele Caselli
Gabriele Caselli

Direttore scientifico Gruppo Studi Cognitivi, Professore di Psicologia Clinica presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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