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Apro un bar in spiaggia ai Caraibi: la psicologia della “seconda vita”

La possibilità di una seconda vita è un'occasione di libertà, per uscire dalle secche del proprio destino ed è una possibilità profondamente moderna

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 25 Mar. 2015

Un articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta del 22 Marzo 2015

 

La possibilità di una seconda vita è la possibilità della libertà. È la libertà di uscire dalle secche del proprio destino. È la possibilità psicologica della libertà, ed è una possibilità profondamente moderna, la libertà di essere assolutamente individui sciolti da ogni contingenza, la possibilità di liberarsi di tutte le convenzioni, di tutti ruoli in cui siamo quotidianamente costretti e di tutte le aspettative degli altri in cui siamo incappucciati.

Fu Benjamin Constant, nel suo discorso “La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni” a notare come l’individuo antico non concepisse nemmeno una simile possibilità: sparire e rifarsi una vita altrove. Socrate rifiuta la possibilità di fuggire dal carcere in cui attende l’esecuzione a morte, tanto per lui è inconcepibile la vita al di fuori della comunità in cui è cresciuto. Le comunità antiche, che fossero le città stato greche o le tribù barbariche, erano comunità totalitarie, in cui il singolo era sempre asservito, in ogni sua azione, alle attese sociali. Gli organi sociali e politici avevano grandi poteri di controllo sulla vita del singolo, il quale di buon grado li accettava. Constant fa l’esempio dell’ostracismo, strumento della democrazia ateniese aberrante per la sensibilità moderna. Con l’ostracismo si poteva esiliare con facilità disarmante un cittadino verso il quale il popolo nutrisse sospetti di tirannia. Non vi erano garanzie, né vi era una giurisprudenza che, attraverso un giusto processo, valutasse la fondatezza fattuale del sospetto. Ciò che contava era l’opinione della comunità, e se questa decretava che un certo cittadino non svolgeva il suo ruolo sociale, essa lo espelleva.

Questi controlli e lacci della libertà personale erano leniti dall’intenso grado di partecipazione dell’individuo antico alla vita pubblica. Che si trattasse della città stato greca o della tribù barbarica, l’individuo faceva politica tutto il giorno. L’individuo antico non era disperso nelle moltitudini leviataniche degli stati moderni, e aveva la possibilità di partecipare in prima persona a molte occasioni politiche: assemblee, consigli, giudizi, elezioni. Viveva una vita quindi più eroica e meno comoda della nostra, meno dedita alla sicurezza e più all’azione, più politica e guerriera e meno privata. Poiché infatti il criterio di cittadinanza sia delle città stato greche e italiche che delle tribù dell’Europa celtica e germanica era la capacità combattere, di portare le armi. E l’organo politico primigenio di quegli antichi stati cittadini e tribali era l’assemblea, l’adunanza degli uomini atti a portare le armi.

Insomma, gli antichi vivevano in comunità guerriere in cui non c’era spazio privato. Enormi caserme. Il caso di Sparta era il più eclatante, ma il modello era applicabile perfino ad Atene. Entrambe democrazie totalitarie di liberi guerrieri che non lavoravano, ma combattevano e facevano politica tutto il giorno. Libertà politica e schiavitù sociale.
Nel mondo moderno la libertà è diventata qualcosa di molto diverso dai tempi antichi. È diventata la libertà di usare e perfino abusare a piacimento del proprio giardino, senza che nessuna autorità esterna o superiore possa intromettersi, per qualsiasi interesse superiore e comune.

È il “let me alone!”, il “lasciami in pace!”  del cittadino americano. È la libertà negativa di Isaiah Berlin composta dal complesso delle garanzie che permettono una vita quanto più possibile indipendente, che custodisce e assicura il godimento dei beni man mano scelti liberamente dall’individuo nella sua esistenza, piuttosto che nella partecipazione attiva e costante a compiti comunitari.

Tutto bene, quindi? Di una seconda vita non ce ne sarebbe bisogno, essendo insita nella nostra libertà quotidiana? Lasciati liberi di coltivare il nostro giardino come vogliamo, che bisogno abbiamo di sognare rinascite in un altrove?
Non è così semplice. Liberi dalle costrizioni sociali degli antichi, abbiamo dovuto sottostare a una nuova schiavitù: il lavoro. È appunto il lavoro che ci rende schiavi e liberi al tempo stesso. Siamo più indipendenti degli antichi rispetto alla società e proprio per questo dobbiamo guadagnarci il pane. Non più costretti a seguire un percorso evolutivo rigido come il guerriero tribale o cittadino antico, ognuno di noi deve inventarsi un mestiere, trovarsi un lavoro. Non ci sono schiavi che lavorino al posto nostro, per fortuna.

Il paradosso della modernità è proprio questo sogno di libertà assoluta, di potersi teoricamente ogni giorno reinventare e la necessità di accettare i limiti della vita lavorativa adulta. Una promessa che si infrange contro il muro della necessità. Di qui il rifugiarsi di ognuno di noi nel sogno privato. Non siamo più membri da secoli, anzi da un paio di millenni, di tribù o città stato in cui tutti conoscevano tutti. La formazione dei grandi organismi statali in cui la partecipazione politica non è più diretta ma si riduce allo sporadico rito del voto stimola il rifugiarsi dentro se stessi, nel dialogo interiore.

Di qui il sogno di una rinascita, di una seconda vita, che sembra un riproporsi secolarizzato della promessa cristiana di morte e resurrezione. In fondo questo fu “il cristianesimo, che è la forma presa dal problema della libertà alla fine del mondo antico” (Momigliano, 1996). Libertà da tutto, perfino dalla stessa razionalità. Un cristiano, Agostino, vescovo della città di Ippona in Africa, è il primo che riflette sulla volontà come principio di azione distinto dalla ragione. Mentre l’ideale del cittadino greco e poi romano è quello dell’Etica Nicomachea, l’uomo nobile che tiene a bada le passioni e le risolve tutte nella attività politica e pubblica. Ha una interiorità, ma essa non è mai dispiegata, ma semmai prosciugata e resa lineare, asciutta, in uno sforzo intenso di selezione e di separazione: solo le passioni nobili, prima di tutte l’orgoglio e l’amor proprio, sono accettate, mentre i moti più ignobili dell’animo non sono riconosciuti, ma ritenuti propri solo della plebe.

E mentre per i filosofi greci la volontà è sempre “appetizione razionale”, cosicché gli stati emotivi e impulsivi non sarebbero a rigore volontari, in Sant’Agostino troviamo una concezione della volontà come principio di azione che ha il suo fondamento proprio in questa libertà di poter decidere di fare e desiderare di essere tutto piuttosto che in un mero calcolo razionale. Agostino osservò che la volontà è in tutti gli atti mentali degli uomini, anzi tutti gli atti mentali degli uomini sono niente altro che volontà (De Civitate Dei, XIV, 6). Ogni atto è sempre volontario, che sia o meno ascrivibile a una decisione razionale o a un impulso di piacere. Mi rendo conto, e me ne scuso con il lettore, che qui vado in un argomento molto tecnico, ma questa intuizione di Agostino somiglia alla concezione modernissima di Adrian Wells (2002) per la quale l’attenzione non è un esito, una conseguenza di un ragionamento, ma è a monte del ragionamento. A posteriori noi giustifichiamo, ragionandoci sopra, quello a cui abbiamo dato importanza e attenzione  (per approfondire, intervista a Adrian Wells).

Purtroppo questa libertà di decidere e dare attenzione ci inebria, ma alla fine ci delude. L’uomo moderno è libero di tentare di diventare tutto, ma sarà inevitabilmente capace di diventare solo una cosa. Una simile libertà può inebriare, ma anche schiacciare, e determinare quella tensione tra la propria piccolezza individuale e l’astratta e impersonale totalità della vita sociale.

Torniamo ancora agli antichi. I nostri antichi non dovevano affrontare e mettere ordine, come noi, in un eccesso di possibilità, rischi, libertà, e occasioni. Per un libero cittadino greco o romano il corso da seguire era difficile e carico di oneri, ma anche ben più predeterminato del nostro. Si rischiava precocemente la vita, ma mai l’anonimato, l’oscurità, se si nasceva nelle famiglie dell’aristocrazia o del ceto equestre. Vi era quindi un senso della vita più pieno e più pratico, meno afflitto da intellettualismi e razionalismi, crisi di coscienza, interiorità tormentate e irritabili. Tutto era risolto nella vita pubblica, ricca di onori e di avventure che riempivano la vita e la ancoravano solidamente all’esterno (Meier, 1982).

È plausibile che il distacco dell’uomo moderno dalla vita pubblica, il suo ritirarsi dagli spazi aperti del Foro o dell’Agorà, il suo dedicarsi al lavoro e alla realizzazione di sé, il suo sperdersi in un oceano di individui tutti liberi (laddove l’uomo antico greco o romano splendeva di luce propria e di senso al di sopra di una massa indistinta di non cittadini confinati in mansioni schiavili o lavorative) abbia favorito una attitudine dapprima religiosa e poi filosofica sempre più consapevole della propria consapevolezza, sempre più cosciente della propria coscienza, e quindi disperata e solipsistica.

Non a caso noi moderni siamo, rispetto agli antichi, molto più consapevoli della libertà che godiamo nella nostra interiorità mentale. Mentre gli antichi pensavano che ogni stato mentale provenisse dall’esterno, da ispirazioni magiche, noi siamo consapevoli dell’indipendenza assoluta della nostra vita mentale cosciente.

È proprio tipico della mente la capacità di produrre rappresentazioni alternative, scenari immaginari, realtà mentali virtuali non sottoposte ai limiti esterni della realtà fisica e a quelli interni delle reazioni emotive. In tal modo la mente si sottrae alla schiavitù dell’istinto e diventa in grado di auto modificarsi e auto-manipolarsi. L’attività mentale cosciente è intrisa di sconfinata libertà, connessa con le infinite potenzialità immaginazione. Nell’atto di coscienza possiamo decidere di evocare la rappresentazione di qualunque oggetto, creando immagini mentali, producendo un discorso interno, o anche immaginando suoni, rumori, odori e qualunque percezione esterna o interna al corpo. Nella coscienza l’Io esperisce l’unica quinta che non lo limita. Nel chiuso della mente il controllo volontario è assoluto, non inceppato né dalla pesantezza della carne, né dai limiti dello spazio, e nemmeno dai cancelli del tempo.

Lo stato di consapevolezza cosciente permette atti di volontà, di deliberazione che non sono riducibili a puro calcolo. La deliberazione nasce da uno scarto, un salto oltre i limiti della razionalità calcolante, un atto non fondato ma piuttosto fondante. Il soggetto che sceglie non lo fa sempre in base a dei presupposti calcolati e razionali, ma piuttosto sceglie volta per volta quali sono i suoi principi cognitivi e morali nel momento in cui decide cosa fare, cosa pensare, cosa credere o in che cosa credere, da che parte stare.

Alla base di tutto questo riposa il sogno di piantare tutto, lavoro, coniuge e figli e aprire un baretto su una spiaggia caraibica.

 

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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