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La Terapia Metacognitiva Interpersonale e le domande stupide

La Psicoterapia Metacognitiva Interpersonale è uno dei modelli cosiddetti di terza ondata che negli ultimi anni stanno cambiando il modo di fare terapia...

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 25 Feb. 2015

Il senso di direzione e di obiettivo condiviso con il paziente, la possibilità di trasmettere al paziente qual è il vero focus terapeutico, ovvero un modo diverso e non intellettualistico di raccontarsi e di vivere come potrebbe essere nel caso della TMI, oppure – come è già nel caso della MCT – un modo diverso di gestire l’attenzione, danno alla terapia una forte marcia in più e diminuiscono il senso di caoticità insito in tutte le terapie.

La Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) di Dimaggio, Popolo e Salvatore è uno dei modelli cosiddetti di terza ondata che negli ultimi anni stanno cambiando il modo di fare terapia. Ho potuto, durante l’ultimo fine settimana, godermi l’esposizione diretta del modello da parte di uno dei tre autori in persona, Raffaele Popolo. È stato un bel seminario, stimolante e anche divertente (VEDI EVENTO). Sono emerse le differenze tra la TMI e la MCT di Wells, ma anche rispetto alle fasi precedenti di sviluppo della TMI, quando ancora non aveva un nome proprio ed era il prodotto del gruppo coordinato da Antonio Semerari e del Terzo Centro, dove lavoravano Dimaggio e Popolo.

Rispetto alla fase precedente, la TMI presenta una maggiore enfasi sugli elementi metacognitivi. In particolare, almeno dal mio punto di vista, nella TMI si accentua l’intervento di modifica dei processi di pensiero. Per Dimaggio e i suoi collaboratori, il problema funzionale dei pazienti con disturbo di personalità e/o psicotico (i bersagli clinici preferiti della TMI) è uno stile di pensiero peculiarmente intellettualizzato, astratto, generico e al tempo stesso contorto, in certo senso ideologico e poco capace di descrivere con semplicità i propri stati mentali e –ancor meno- quelli altrui. Questa disfunzione gioca nella TMI lo stesso ruolo che gioca la disfunzione attentiva nella Metacognitive Therapy (MCT) di Wells. E, come accade nella MCT di Wells, il riaddestramento della TMI mira a ricostruire uno stile di pensiero congruo ed emozionalmente regolato.

Non è solo teoria. Dimaggio e collaboratori hanno fatto passi avanti nella capacità di concepire e gestire un protocollo efficiente. Hanno capito l’importanza terapeutica di un modello di funzionamento condiviso con il paziente. Non è ancora chiaro quanto abbiano capito come faccia bene alla terapia condividere in maniera insistente ed esplicita questo modello con il paziente. Mentre nelle spiegazioni di Popolo l’importanza del modello era chiara, negli spezzoni audio di seduta sembrava che il terapista tendesse ad agire in maniera più coperta, alla Fonagy, ovvero guidando delicatamente il paziente verso la costruzione dello stile di pensiero più funzionale ma senza descrivere con chiarezza dove si va a parare. O almeno non subito.

In altre parole, Dimaggio, Popolo e Salvatore danno molta importanza alle cosiddette “domande stupide”, domande che essi oppongono alle elucubrazioni astratte dei loro pazienti incoraggiandoli a essere più concreti e precisi nei loro discorsi, a preferire la descrizione accurata delle situazioni e degli stati mentali piuttosto che offrire generiche spiegazioni intellettualizzanti. Questo si ottiene attraverso domande volutamente semplici e concrete.

Per esempio, di fronte a un paziente paranoico che ammannisce la sua visione ostile e diffidente degli altri, magari espressa nella forma povera, irrigidita e stereotipata di un proverbio come potrebbe essere “fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio” oppure ingannevolmente ricca ma al fondo altrettanto misera di logorroiche considerazioni sapienziali sulla miseria umana, il terapista TMI oppone costantemente domande come: “mi può fare un esempio in cui le è capitato di pensare queste cose?” “mi può raccontare una situazione che le ha fatto pensare queste cose che mi ha detto?” “Mi scusi, prima di volermi spiegare il senso di questo episodio, mi dica: quando è avvenuto tutto questo? Che periodo era? Che giorno? Dove di trovava? Chi c’era con lei?” e così via. L’obiettivo non è confutare il paziente, ma accompagnarlo a una visione più complessa degli episodi che vada oltre i suoi stereotipi, incoraggiandolo a produrre narrazioni, racconti, memorie autobiografiche la cui ricchezza emotiva e interpersonale non possa essere ingabbiata in un proverbio popolare o in una visione ideologica del mondo.   

Questa, ripeto, è la parte più interessante. Che andrebbe forse accentuata. Le porzioni del modello dedicate ai cicli interpersonali e alla relazione terapeutica, pur affascinanti, andrebbero a mio parere ridimensionate. In una visione scientificamente economica, riempirsi la testa di modelli interpersonali potrebbe essere controproducente per il terapeuta. In fondo un protocollo è sempre fatto di un’idea clinica semplice cui corrisponde un intervento altrettanto semplice che si può e si deve proporre e riproporre al paziente ripetutamente. Nel caso della TMI, l’intervento caratterizzante è questa idea delle domande “stupide” corroborata dall’ipotesi dello stile di pensiero non ideologico e non giudicante come cura ai processi disfunzionali del border, che tendono al generico razionalizzante.  

Mi chiedo anche se sia proprio necessario somministrare questo intervento al paziente in una forma che mi pare prevalentemente non esplicita. Ovvero senza comunicare chiaramente al paziente che buona parte del suo problema è questo continuo elucubrare astratto (che della scuola di Sassaroli chiameremmo “rimuginare”), elucubrare che va interrotto sostituendolo con uno stile più vicino alla semplicità e all’immediatezza dell’esperienza emotiva.

Forse Dimaggio esercita già questo livello di condivisione esplicita con i suoi pazienti, o forse no. In uno stile di terapia protocollata, immagino che una seduta TMI dovrebbe iniziare sempre con la condivisione forte del modello, del tipo:

[blockquote style=”1″]Finora abbiamo visto che il suo problema è che, in situazioni per lei problematiche, lei si rifugia in uno stile di pensiero che abbiamo chiamato insieme intellettuale e astratto, pieno di spiegazioni, valutazioni e giudizi e povero di racconti e di vita; in questa terapia stiamo apprendendo a raccontare e rivivere le situazioni che la fanno soffrire in maniera meno giudicante e più narrativa. Anche in questa seduta la invito a raccontarmi alcuni episodi della settimana, stando attento al suo stile di pensiero e di racconto, oltre che agli episodi in sé…[/blockquote]

In uno stile più narrativo e rapsodico probabilmente il terapeuta non dà istruzioni, o non le dà sistematicamente e in maniera formalizzata a inizio seduta ma lascia le mosse d’apertura al paziente, riservandosi poi di aggiustare il tiro giocando più di rimessa, insomma reagendo al paziente in uno stile di guida “from behind”.

Un secondo accorgimento che forse differenzia una terapia protocollata da una più libera è la valutazione quantitativa effettuata in ogni seduta o quasi. Sono i famigerati “quindici questionari a seduta somministrati al paziente” che Dimaggio rimprovera a Wells. Non è così, il numero è più basso per fortuna. Fosse così, effettivamente l’accorgimento sarebbe inattuabile, oltre che intollerabilmente sadico e gravoso. In realtà il questionario è uno solo e consta di una decina di domande, domande del resto molto simili tra loro, che ben presto si riducono a due o tre e che occupano nel peggiore dei casi solo gli ultimi cinque minuti di seduta.

Una simile operazione, me ne rendo conto, è molto lontana dalla nostra esperienza di terapisti, non solo in Italia. Anche in UK si tratta di un accorgimento ancora non così diffuso al di fuori dei grandi centri universitari dove si fanno le terapie protocollate. Detto questo nella mia esperienza con l’MCT l’accorgimento, se eseguito bene, con autorevolezza e concisione – ovvero poche domande mirate che concentrano in due tre dati il livello di progresso del paziente- mi è diventato ben presto un alleato prezioso, da che mi era sembrato nei primi tempi un goffo tentativo di quantificazione e una sgradevole interruzione del flusso della conversazione.

Il senso di direzione e di obiettivo condiviso con il paziente, la possibilità di trasmettere al paziente qual è il vero focus terapeutico, ovvero un modo diverso e non intellettualistico di raccontarsi e di vivere come potrebbe essere nel caso della TMI, oppure – come è già nel caso della MCT – un modo diverso di gestire l’attenzione, danno alla terapia una forte marcia in più e diminuiscono il senso di caoticità insito in tutte le terapie.

Comprendo bene la possibile maggiore difficoltà di applicare questi accorgimenti ai pazienti TMI con disturbo di personalità, tendenzialmente meno alleati rispetto a quelli con disturbi emotivi di I asse. Comprendo anche che forse nel caso della TMI una scala di valutazione sarebbe più indicata di un questionarietto, trattandosi di valutare stili di pensiero e non metacredenze. Rimane il dubbio che parte delle difficoltà siano generate non solo da barriere create dal paziente, ma anche da una semplice disabitudine dei terapisti a gestire in maniera meno rapsodica e libera la seduta. Questi dubbi me li chiarirò nel prossimo seminario sulla TMI, stavolta condotto da Dimaggio in persona. Tenetevi in contatto.  

 

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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