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Morto un vecchio frac se ne fa un altro? – Musicoterapia

Quest'esperienza mostra come una canzone possa essere ricca di significati e letture diverse e possa diventare strumento di lavoro con pazienti psichiatrici

Di Gaspare Palmieri

Pubblicato il 18 Feb. 2015

Quel gruppo mi ha fatto riflettere per l’ennesima volta su come una semplice (ma non banale…) canzone possa essere ricca di significati personali e di letture diverse e possa essere uno strumento utile anche nel lavoro con persone affette da patologie psichiatriche gravi.

Non avevo mai ascoltato bene il testo della canzone Vecchio frac di Domenico Modugno (1955), fino a quando un paziente ha chiesto di ascoltarla durante il gruppo di musicoterapia che tengo settimanalmente nel reparto psichiatrico dove lavoro. Quella mattina il gruppo era iniziato in modo insolito, con due giovani pazienti che avevano pensato di farmi una sorpresa intonando a cappella, dall’inizio alla fine, la celeberrima Margherita di Cocciante (che non sentivo dai tempi delle gite in pullman alle medie). Oltre a portarmi vicino alla commozione, queste sorprese tendono a spiazzarmi e ad alleggerire di un bel po’ la pesantezza e la difficoltà dell’usurante lavoro nell’ istituzione psichiatrica, che per sua natura ha la tendenza a mettere la malattia davanti alla persona (“lunedì trovami un posto letto per uno psicotico”, “No signora, in questo reparto curiamo solo i disturbi del comportamento alimentare, che però non abbiano mai commesso gesti autolesivi”, etc.).

Il brano di Modugno racconta di quest’uomo elegantissimo, un po’ speciale e completamente immerso in una peregrinazione nella solitudine della notte. Tranne un gatto occasionale, gli altri personaggi della canzone sono tutti soggetti inanimati (strade, caffè, fanali, bastone, etc.) e senza quasi che te ne accorgi l’uomo va incontro leggero e fischiettante al tragico finale in cui il frac “se ne scende lentamente, sotto i ponti verso il mare, verso il mare se ne va…”, lasciandoti una sensazione di stupore e di lieve sgomento. Non mi sarei aspettato che nel lontano 1955 il grande Modugno potesse cantare di un suicidio in modo quasi spensierato, ispirato tra l’altro da un fatto reale (il suicidio del principe Raimondo Lanza di Traiba che si defenestrò da un hotel romano).

Il problema era che quella mattina nella sala, su dieci partecipanti al gruppo, almeno quattro avevano considerato seriamente il suicidio nell’ultimo periodo o l’avevano tentato e questo un po’ mi preoccupava, forse in nome del “primum non nocere”, uno dei principi cardine della medicina, che ti inculcano già dai primi anni di università. Capita infatti abbastanza frequentemente che certi brani, proprio per il potere evocativo della musica, possano causare forti reazioni emotive soprattutto nelle persone con la “pelle psichica” più sottile, come i pazienti con personalità borderline, con il rischio conseguente che in questi stati mentali commettano qualche agito.

Lo spettro del suicidio poi, anche solo tentato, aleggia costantemente nei luoghi di cura della psichiatria e nelle teste degli operatori psichiatrici, ben consapevoli in realtà che se uno è determinato a farlo, non può essere impedito neanche da un ricovero nell’ ospedale più sicuro del mondo.

In realtà quella volta, come spesso succede nel nostro lavoro, andò molto diversamente da come paventavo. La persona che aveva fatto la richiesta motivò la propria scelta dicendo che il brano risuonava con i propri pensieri di poter scomparire dal mondo e questo gli procurava una certa serenità e un senso di liberazione dalla sofferenza. Altre persone, anche quelle con recenti tentativi in anamnesi, condividevano lo stesso pensiero e non parevano per nulla turbate dalle parole di Modugno.

Mi pare che questo atteggiamento possa confermare le attuali tendenze psicoterapiche, sempre più ricche di evidenze, che considerano fondamentale l’accettazione anche dei fenomeni mentali più spaventosi. L’evitamento della sofferenza mentale e la tendenza a scappare dall’esperienza psicologica sgradita in realtà possono rappresentare dei fattori di rischio rispetto alla messa in atto di comportamenti suicidari (Luoma JB e Villatte JL, 2011). D’altra parte la sola presenza di ideazione suicidaria, pur meritando sempre la massima considerazione, può tuttavia essere presente in modo transitario in tantissime persone (in certi studi fino al 30%) della popolazione generale (ten Have et al., 2009), senza esitare in gesti autolesivi.

Tornando al gruppo di quella mattina, solo una voce si distingueva dal “coro”: quella di una delle ragazze che all’inizio mi aveva cantato la canzone di Cocciante. Anche lei pareva rasserenata dall’ascolto, ma per un motivo diverso. Nel brano trovava infatti la ricerca del nuovo, immaginando che il protagonista gettasse il proprio frac nel fiume, liberandosi di un pesante fardello per indossare un vestito diverso (“si chiude una porta e si apre un portone!”).

Leggendo il testo anche questa interpretazione ci può stare, perché letteralmente sono il frac e il cilindro a galleggiare, anche se poi nell’ ultima strofa si parla di un “Addio al mondo”, che potrebbe essere inteso (con un eccesso di ottimismo) come il vecchio mondo della persona, pronto a essere rinnovato. La ragazza era alla fine del ricovero e forse, anche grazie al percorso compiuto, mostrava un atteggiamento più positivo, più capace di rielaborare ulteriormente gli stimoli della canzone.

Il gruppo accolse bene anche questa diversa lettura del brano ed alcuni mostrarono un certo stupore.
La cosa curiosa è che tanti anni prima l’impietosa commissione di censura di Stato spingeva l’ascoltatore verso questa interpretazione, quando Modugno fu costretto a cambiare il verso ricorrente “chi mai sarà quell’uomo in frac” in “di chi sarà quel vecchio frac”.

A quei tempi non si parlava ancora di accettazione e mindfulness ed era ancora abbastanza fresco l’“effetto Werther”, l’imitazione dei comportamenti suicidiari ispirati dagli eroi della letteratura. Quel gruppo mi ha fatto riflettere per l’ennesima volta su come una semplice (ma non banale…) canzone possa essere ricca di significati personali e di letture diverse e possa essere uno strumento utile anche nel lavoro con persone affette da patologie psichiatriche gravi. La domanda nasce spontanea: più serenate e meno Serenase?

 

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