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Dentro la mia follia: la diversità di Alberto – CIM Nr. 20 – Psicoterapia Pubblica

Centro di Igiene Mentale: Alberto, la sua goffaggine e il suo vissuto di marziano privo del manuale di istruzione sul funzionamento degli esseri umani

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 10 Feb. 2015

 – CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #20

Dentro la mia follia: la diversità di Alberto

 

 

– Leggi l’introduzione –

La presunta imprevedibilità dei matti crea intorno a loro un alone di apprensione, timore e sospettosità che riflette esattamente il loro vissuto nei confronti dei cosiddetti normali. Alberto attraversa a lunghe falcate la piazza del paese per raggiungere il bar, ha addosso gli occhi di tutti. 

Il ragazzino che sta in porta ferma la palla e volge lo sguardo, ancora scevro di pregiudizi ostili ma carico di curiosità. Gli altri monelli (dal libro cuore non si usava più questo termine) orfani dell’azione lo accompagnano mentre con le mani sui fianchi riprendono fiato, sudati e rubizzi . Gli uomini ai tavoli esterni abbassano il tono e infittiscono i commenti la cui gamma va dalla riprovazione alla pena attraversando il consueto terreno delle critiche alla legge ed alla sanità pubblica colpevole, ad un tempo, di abbandonare e permettere. Le donne allungano il passo e svoltano nelle stradine laterali. Se troppo vicine temono di recare offesa cambiando marciapiede o semplicemente di essere notate e provocare qualche reazione e allora si fermano a contemplare insulse vetrine aspettando che scorra alle loro spalle. Se in compagnia si serrano a capannello infervorandosi in una discussione calorosa indipendentemente dalla futilità dell’argomento con, però, un radar acceso a registrare l’allontanamento che le consentirà il ritorno alla normalità. Le due guardie municipali (uomo e donna) sedute nell’auto di servizio che hanno avuto a che fare poco cordialmente con Alberto per le due ordinanze del sindaco che ne decretavano il trattamento sanitario obbligatorio e avevano raccontato per mesi l’esperienza come una delle più epiche della loro carriera, si rassicurarono vicendevolmente sulla tranquillità della situazione.

Lui, Alfio Tomini 55 anni, per il ruolo di caposquadra anziano avendo sentito montare l’allerta per un sensibile aumento del tono muscolare, si era sentito in dovere di poggiare una protettiva mano sulla coscia di Patrizia Lari 33 anni, praticamente una delle ultime arrivate considerato il blocco delle assunzioni. Conoscendolo fu quel gesto ad aumentare in lei l’allerta ma non disse nulla salvo che sarebbe andata al bar per tenere sott’occhio la situazione e con scopo di deterrenza. Al contrario la presenza delle istituzioni con il loro aspetto esteriore pomposo, l’alfa di servizio tirata a lucido e l’elegante divisa estiva che mal celava la prorompente fisicità mediterranea della vigilessa, e la sostanziale impotenza poteva costituire il detonatore di lamentele e critiche.

Ma non è di questo che ci stiamo occupando ma del vissuto speculare del matto, in questo caso interpretato da Alberto. Anche lui guarda gli altri senza sapere cosa attendersi. E’ sempre stato così sin da quando era piccolo. No, in famiglia con mamma Anna, papà Arturo e il suo gemello Alfonso (tutta una famiglia di “A”) non lo aveva avvertito.

L’estraneità era arrivata con la prima elementare. Gli altri bambini giocavano ad un gioco di cui non conosceva le regole e lo scopo. Non sapeva cosa fosse lecito e cosa no. Non sapeva quando fosse il suo turno e quando quello degli altri. La sera con Alfonso parlando sul letto a castello si erano fatti persuasi di essere di una specie diversa, superiore, forse extraterrestre. Se ne erano convinti a tal punto che avevano fatto domande trabocchetto ai genitori ed avevano rovistato negli album fotografici per trovare immagini dei loro genitori prima della loro nascita. Forse avrebbero trovato un modulo metallico sulla superficie di Marte invece della bifamiliare in contrada “La Ripa” nella periferia nord di Monticelli.

Al primo trimestre le maestre caldeggiarono una separazione dei due gemelli per facilitare la socializzazione e Alberto restò solo a non capire usanze e codici di quella tribù scalmanata. Sarebbe passato col crescere aveva sentenziato lo psicologo della scuola. In adolescenza, se possibile fu anche peggio. I riti si complicavano. L’unica tribù si era divisa in quella dei maschi e quella delle femmine con regole d’ingaggio molto precise quanto sconosciute ad Alberto che dalla iniziale categoria degli esclusi scivolò rapidamente in quella degli sfigati, emarginati e derisi nella quale si ritagliò il ruolo di molestatore.

Le poche imprese che lo portavano vicino al suo bersaglio, il corpo o gli indumenti delle sue compagne, avevano due immancabili conseguenze. La prima, severe punizioni dall’autorità costituita: insegnanti, presidi, genitori delle compagne e, una volta, persino un burbero magistrato del tribunale minorile con intollerabile vergogna per una famiglia medio borghese che aveva nel perbenismo e nelle apparenze il proprio credo . La seconda decisamente migliore, interminabili sedute masturbatorie a quattro mani con Alfonso alimentate dai racconti predatori di entrambi. Sembravano avviati ad una carriera di devianza e delinquenza. Servivano soluzioni drastiche. L’unico punto di forza di Alberto era il rendimento scolastico soprattutto nelle materie scientifiche.

I genitori decisero d’autorità e compiuti i 15 anni presentarono domanda solo per Alberto (lo scopo di tenerli separati era ormai acquisito) alla scuola militare aeronautica “Giulio Douhet” un istituto secondario a carattere scientifico con sede a Firenze all’interno della scuola di guerra aerea, situato nel magnifico parco delle Cascine. Qui gli allievi stanno a convitto e ricevono una istruzione gratuita e di buon livello con l’unico obbligo di una ferma volontaria di tre anni al compimento del sedicesimo anno d’età che rappresenta una facilitazione nel caso intendessero poi continuare la carriera militare.Il vissuto di estraneità si era consolidato durante l’esperienza della scuola. Senza altre prospettive aveva firmato la ferma volontaria con sergente e preso servizio al piccolo aeroporto militare di Vontano sede della scuola dell’aviazione leggera dell’esercito.

Di recente, durante i colloqui di psicoterapia con il Dottor Irati, iniziati con la presa in carico del CIM per i fatti che narrerò tra breve era, per la prima volta riuscito a spiegare con un’immagine il suo vissuto di marziano privo del manuale di istruzione sul funzionamento degli esseri umani. Lo spunto glielo aveva fornito la pubblicità del “campari soda” in cui un gruppo di avventori di un bar, presumibilmente colleghi, si rapportano gli uni agli altri in perfetto sincronia. Le sedie si infilano perfettamente sotto i sederi che si abbassano per sedersi, i bicchieri volano con precisione da una mano all’altra, la scena appae come un balletto gaio e perfettamente sincrono in cui i movimenti di ciascuno si incastrano perfettamente con quelli di tutti gli altri.

Per Alberto era esattamente il contrario. La parola si sovrapponeva sempre a quella dell’altro oppure si creavano pause interminabili nella conversazione superate con un ennesimo sovrapporsi. Persino stringersi la mano necessitava di un coordinamento mentale, di una decisione cosciente che lo rendeva un compito faticoso e spesso fallimentare. Non parliamo poi di dove poggiare lo sguardo e di quale espressione scegliere per commentare le frasi altrui. Guardava le normali interazioni umane con invidia e nel tentativo di scoprirne le segrete regole. Tutto per gli altri sembrava facile e spontaneo, lui invece doveva ragionarci. Quando le regole effettivamente c’erano Alberto vi si atteneva scrupolosamente con il terrore di sbagliare. Se fosse stato perfetto gli altri lo avrebbero apprezzato. Quella sarebbe stata la sua strategia per convivere con gli umani.

In effetti la prima segnalazione al Cim era stata fatta dal comando della base di Vontano per comportamenti bizzarri che, tuttavia si connotavano come eccesso di zelo. Parcheggiare la sua vettura negli appositi spazi richiedeva un notevole tempo perchè doveva assicurarsi con un centimetro che fosse su tutti e quattro i lati alla stessa distanza dalla linea bianca. I resoconti obbligatori dell’attività svolta durante la giornata che per gli altri consistevano in mezza paginetta, per Alberto non erano mai inferiori alle 10 pagine riportando praticamente tutti i gesti compiuti. Siccome il regolamento prevedeva 8 effettive ore di lavoro da cui erano esclusi i tempi per attività personali (necessità fisiologiche, ecc.) in una prima fase Alberto per non essere inadempiente si presentava a mattino alle 6,30 ovvero un’ora e mezza prima dell’apertura della base e alla sera usciva circa un’ora dopo tutti gli altri. Eccesso di lavoro, pensava non poteva che essere encomiabile. I superiori lo avrebbero notato favorevolmente. Invece, forse a causa delle proteste del servizio di portineria (nessuno glielo avrebbe mai tolto dalla testa) qualche mese dopo uscì una circolare che vietava, per problemi di risparmio qualsiasi orario straordinario.

Da quel momento Alberto attaccava puntualmente alle 8,00 e aveva sempre in mano un cronometro che attivava per ogni attività personale (quando andava in bagno, per il caffè nel thermos che si portava da casa come pranzo, più un dieci minuti al giorno forfettari per soffiarsi il naso, grattarsi soprattutto nel periodo delle allergie, pulirsi gli occhiali ed altre amenità del genere).Questi comportamenti nella loro bizzarria si limitavano a preoccupare il comando come possibili segni premonitori di più gravi e imprevedibili stranezze. Tutto qui.

Ciò che creava vero disagio era la meticolosità sul lavoro. Non c’era motore che fosse sottoposto alla verifica di Alberto che non fosse rispedito in officina con un elenco di ulteriori controlli e aggiustamenti da fare. Il comandante della base colonnello Gianrico Cottone si era appellato alla vecchia amicizia che aveva con Biagioli per aver fatto il servizio di leva insieme per chiedergli di presenziare alla visita trimestrale di idoneità. Alberto appariva come un automa di un metro e ottantacinque, capelli a spazzola color topo anemico, occhi marroni vistosamente miopi ingigantiti da lenti spesse come fondi di bottiglia in una montatura tartaruga che doveva essere costata il carapace di molte bestiole. Le mani ricoperte di spessi peli neri che, più in alto, univano le sopracciglia in un unica linea delimitante insieme ad un’attaccatura dei capelli particolarmente bassa una fronte più adatta ad un progenitore del paleolitico.

Pensando che a tali individui fosse affidato il controllo dei motori degli aerei Biagioli si ripromise di rinunciare per sempre a quel genere di mezzo di trasporto. La sola presenza di Alberto con la sua goffagine, in effetti, creava tutto intorno un senso di imbarazzo. La visita ebbe come risultato l’obbligo per Alberto di una ulteriore valutazione specialistica e testistica da eseguirsi presso il CIM di Monticelli, nonostante lui non avesse manifestato alcun disagio e nulla gli fosse stato contestato.

Al contrario di quanto il colonnello e Biagioli si aspettavano Alberto non si meravigliò e accettò di buon grado segnando sul suo telefonino giorno e orario dell’appuntamento.. Era convinto che “loro” si fossero finalmente convinti ad iniziare il vero addestramento. Del resto erano giorni che gli mandavano segnali inequivocabili. I genitori non lo chiamavano da tre giorni e ciò significava che doveva abituarsi a fare a meno di loro anche per lunghi periodi durante le future missioni. A mensa la cameriera gli aveva detto che l’ampolla era sul tavolino ad indicare che tutto andava liscio come l’olio e non c’erano più ostacoli. La macchina al mattino aveva stentato a mettersi in moto, offesa dalla consapevolezza che presto sarebbe stata sostituita da un nuovo mezzo di servizio pluriaccessoriato. Nella base tutti lo guardavano, chiaro segno che la voce della sua scelta si era diffusa. Carla una ragazza che aveva conosciuto l’anno precedente al mare le aveva scritto Tronto. Cos’altro poteva significare se non che venuta a conoscenza della sua nuova prospettiva di vita lo lasciava libero dalle promesse matrimoniali che gli aveva mentalmente fatto il giorno dopo aver trascorso una notte di passione con il suo costume sottratto dallo stendino dietro le cabine.

In numerosissime occasioni la parola svolta si era presentata quel giorno, nei giornali radio, nei commenti dei colleghi al campionato, nei segnali stradali. Più volte negli ultimi giorni gli era capitato di guardare l’ora quando i minuti erano pari alle ore (ad esempio 9.09; 11.11; 20,20) stando ciò a significare che l’ora era giunta o anche che non c’era un minuto da perdere. Nè il colonnello nèe Biagioli sospettavano la presenza di questo ricchissimo mondo delirante.

Se ne avvide l’azzimato dottor Iraci mentre sottoponeva Alberto ai test di personalità. Non tanto per il loro risultato ma perchè Alberto gli disse che nella sua distaccata freddezza( che al CIM veniva considerata odioso snobismo) aveva riconosciuto l’inconfondibile segno della razza superiore. Era lui dunque quello che sottoponendolo ad un ultimo esame lo doveva introdurre alla sua nuova vita . A questa affermazioni Irati ribatte che per tutto ciò avrebbero dovuto vedersi un certo numero di volte per conoscersi e prepararsi al meglio. Dopo tanti anni di professione Giuseppe ancora rimaneva affascinato dall’improvviso manifestarsi di un delirio dietro una facciata di normalità.

Quell’improvvisa epifania di un mondo altro gli incuteva rispetto, soggezione sconfinante con la paura di perdercisi e l’infinita curiosità che l aveva spinto a questa professione. Per un paio di mesi passeggiarono insieme nel rigoglioso giardino del suo delirio. Giuseppe aveva chiarito di comprendere perfettamente i problemi e le angosce di Alberto ma di non condividerne le spiegazioni che gli diceva esplicitamente frutto della sua follia. Dopo un po’ lo stesso Alberto che a dispetto della fronte neandertaliana non era affatto stupido, iniziò a chiamare, un po’ per scherzo un po’ sul serio “la mia follia” le varie interpretazioni deliranti.

Il lavoro che procedeva positivamente fu interrotto per un malaugurato incidente che esitò in un trattamento sanitario obbligatorio di 5 giorni allo scopo di evitare una denuncia per atti osceni in luogo pubblico che ne avrebbe pregiudicato il posto di lavoro. Alberto era stato sorpreso a masturbarsi, cronometro alla mano (per la questione del recupero del tempo lavorativo sottratto per questioni personali) nei bagni della base abbracciato teneramente agli anfibi del sottotenente medico Maria Lamantia di Cosenza una baffuta 35enne calabrese che avrebbe ricordato l’episodio come il vertice dell’eccitazione sessuale che avesse mai provocato in un uomo. La collega fu convinta da Irati a non sporgere denuncia e si dimostrò persino premurosa andando a trovare Alberto nei 5 giorni di ricovero all’SPDC. In fondo il ragazzone non era niente male.

La relazione terapeutica ne uscì rafforzata e il vagabondaggio nel mondo delirante proseguì ad esplorarne i confini. “Loro” erano in molti prevalentemente ben intenzionati e lo spingevano a comportarsi bene senza trasgredire alcuna regola. Tra loro c’era lo spirito dei genitori e di tutti i suoi insegnanti, maestri e catechisti. Sapevano del suo diavoletto trasgressivo e lo aiutavano a tenerlo a freno. Quando lo ostacolavano o facevano dispetti volevano semplicemente metterlo alla prova per rafforzarlo. Erano insomma una guida severa ma benevola che, ad esempio, non sollevavano nessuna biezione sulla masturbazione vista anzi come un mantenersi in allenamento in vista del matrimonio e della produzione di nipotini.

“Loro” erano comparsi per la prima volta durante la straziante solitudine nel periodo del collegio aeronautico e si limitavano ai tre familiari. Si ripresentarono poi arricchiti di numero nelle situazioni nuove con un doppio ruolo. Da un lato erano dei suggeritori che consigliavano come comportarsi spiegandogli il significato delle situazioni che a lui era oscuro. Dall’altro erano dei giudici severi che lo aiutavano a rigare dritto. La loro presenza si moltiplicava nei periodi in cui provava interesse per una donna. La donna , terreno completamente sconosciuto, incrementava le angosce di imprevedibilità e di non contenimento dei suoi colpevoli impulsi. Alberto non sentiva “loro” come minacciosi ma sentiva pesante questa continua presenza che ad un certo punto aveva iniziato a controllargli il pensiero. Rubarne alcuni e inserirne altri non suoi. A quel punto Irati provo a proporre l’utilizzo di farmaci ma rinunciò per non compromettere la relazione terapeutica.

Il lavoro psicoterapeutico si muoveva lungo tre principali direttrici. In primo luogo si trattava di riconoscere come propri gli impulsi negati tra cui primeggiava non quello sessuale ma di affiliazione, appartenenza, attaccamento che aveva dovuto disconoscere al momento del collegio. Ora ricordava intere giornate passate a piangere, una completa anoressia e la comparsa dell’enuresi. Tutte cose che non aveva mai detto ai genitori certo che sarebbero state motivo di riprovazione. A questo bisogno di accettazione andava ricondotto anche il perfezionismo e tutti i rituali ossessivi.

In secondo luogo evidenziare e allentare il rigido sistema di regole che governavano la sua esistenza che non conosceva il piacere ma esclusivamente il dovere. Le esperienze di abbandono erano un nodo irrisolto da cui si limitava a fuggire evitando qualsiasi intimità per il timore della perdita.

In terzo luogo il potenziamento dell’autostima che rendesse inutile il delirio narcisistico di essere destinato ad una missione speciale da supersoldato che riprendeva il tema coltivato sin da piccolo con il fratello di appartenere ad una razza superiore ed estranea. Un tentativo di migliorare le social skill , carenti sin da piccolissimo, con l’inserimento in un gruppo ad hoc fu interrotto per l’attivarsi di un comportamento di stalking nei confronti di Gilda che animava il gruppo.

Giuseppe Irati aveva predetto ad Alberto che un giorno se ne sarebbe andato senza salutare essendo per lui intollerabili i distacchi. E che ciò sarebbe avvenuto quando avesse sentito la relazione con lui profonda ed intima e dunque pericolosa. Avvenne esattamente così.

Il colonnello Cottone avvisò Biagioli che Alberto non si presentava al lavoro da una settimana e, nello stesso periodo aveva interrotto ogni contatto con il CIM. Temendo il peggio furono attivate delle ricerche da parte delle forze dell’ordine. irati si sentiva in colpa per il mancato uso dei farmaci. Si aspettava da un giorno all’altro la notizia del ritrovamento di un corpo.

Si dovette aspettare cinque anni prima che arrivasse una lettera dalla Norvegia. Dopo la morte improvvisa per incidente automobilistico dei suoi Alberto, riscossa la modesta eredità si era trasferito in una piccola base dentro il circolo polare artico dove faceva il meccanico per gli avventurosi esploratori. Passarono altri dieci anni prima che giungesse la lettera che permise la chiusura della cartella clinica. In uno stentato inglese diceva che il papà era precipitato durante un volo di collaudo e tra le sue cose Olof aveva trovato l’indirizzo del dr. Giuseppe irati con sotto scritto “ da ringraziare per quanto fatto”. Quando arrivò non molti si ricordavano del caso di Alberto. Biagioli pensò che in fondo era andato a vivere quasi tra i marziani e la scarsa densità della popolazione gli aveva consentito di trovare la distanza giusta dalle persone.

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