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Attaccamento, regolazione emotiva e depressione: qual è la relazione tra queste componenti?

La relazione tra attaccamento ansioso e presenza di sintomi depressivi passa per il tipo di strategia usata per gestire le emozioni, di tipo iper-attivo...

Di Chiara Manfredi

Pubblicato il 20 Feb. 2015

L’attaccamento è uno dei costrutti più conosciuti e utilizzati nell’ambito della psicologia cognitiva, sia da un punto di vista diagnostico che prognostico, che esplicativo della psicopatologia.

In sostanza, quando nasciamo siamo portati in modo innato a mettere in atto una serie di comportamenti al fine di assicurarci la vicinanza con chi ci fornisce le cure (solitamente la mamma); diciamo che questa è la strategia di elezione che tutti noi proviamo a utilizzare per sopravvivere.

Nella migliore delle ipotesi i caregiver rispondono in un modo adeguato e pertinente alle richieste del figlio, aiutandolo a regolare le emozioni, alleviando il suo disagio e proteggendolo dai pericoli. Fin qui insomma tutto bene: io ho bisogno, la mamma c’è, mi costruisco nel tempo un’idea di me come al sicuro, dell’altro come disponibile e del mondo come un posto interessante da esplorare.

Quando invece la mamma per qualche motivo non è in grado di rispondere in modo consono alle richieste di vicinanza del bambino, questo mette in atto il piano B, che consiste in strategie di regolazione delle emozioni (cioè strategie per non rimanere angosciati a lungo) diverse dalla ricerca dell’adulto e che possono sfociare in una relazione di attaccamento che viene definita insicura (Main, 1990).

In particolare, si possono aprire due strade: il bambino può sviluppare un attaccamento ansioso o evitante. Un bambino con un attaccamento ansioso si iper-attiva richiedendo continuamente vicinanza e cura, in uno stato sempre iper-vigile verso i pericoli esterni e con una continua preoccupazione nel tentativo di anticipare possibili pericoli. Purtroppo, questa strategia solitamente ha l’unico esito di aumentare il disagio e l’angoscia che il bambino sente.

Dall’altra parte, un bambino che ha percepito una mamma distante e non disponibile si sposterà verso un attaccamento evitante, caratterizzato dalla tendenza a arrangiarsi e a contare solo su di sé, nella sensazione generale che le relazioni di vicinanza siano in realtà una fregatura inutile e pericolosa; in quest’ottica, svilupperà delle strategie di gestione delle emozioni che portano a una distanza dall’altro, insieme al tentativo di sopprimere ricordi dolorosi e brutti pensieri (lontano dagli occhi lontano dal cuore).

Si è poi visto che questi tre stili di attaccamento (sicuro, ansioso e evitante) vengono imparati dal bambino e immagazzinati  come modelli che influenzano a loro volta il modo in cui una persona adulta cerca di gestire le proprie emozioni e i propri comportamenti, e che si riflettono nelle relazioni significative da grandi.

Le persone con un attaccamento evitante si porteranno dietro un’idea negativa degli altri, che renderà per loro difficile stare emotivamente vicino alle altre persone e praticamente impossibile dipendere emotivamente da qualcun altro. D’altra parte, le persone con un attaccamento ansioso si porteranno dietro un’idea negativa di sé in termini di basso valore personale, e di conseguenza nelle relazioni tenderanno a ricercare in modo continuo la vicinanza dell’altro, a preoccuparsi e a rimuginare.

A un certo punto diventiamo grandi. Quando siamo adulti, volenti o nolenti, in qualche modo le emozioni impariamo a gestirle. In questo senso si parla di “regolazione emotiva” per descrivere quel processo con cui moduliamo le emozioni, e cioè impariamo a non farci sopraffare dal dolore di una perdita e a non andare nel panico se siamo preoccupati per qualcosa. Ci sono sostanzialmente due tipi di regolazione emotiva: quella utile (adattiva) e quella non utile (maladattiva).

Un esempio di regolazione emotiva utile si ha quando cerchiamo il lato positivo delle situazioni, quando analizziamo le cose in modo costruttivo, quando sappiamo mettere in campo le nostre capacità di problem solving. La regolazione poco utile (e a volte dannosa) consiste invece per esempio nella soppressione delle emozioni e dei pensieri e nell’evitamento, così come nella tendenza a mantenere un’eccessiva distanza dagli altri o nella propensione a concentrarci sui problemi facendoci le domande sbagliate, che non ci portano a risolverli ma a affondarci dentro.

Quest’ultimo è il caso della ruminazione, che è stata definita come un processo di pensiero ripetitivo che riguarda l’umore depresso, le sue cause e conseguenze (Nolen-Hoeksema, Wisco, Lyubomirsky, 2008). Molte ricerche hanno sottolineato la relazione tra attaccamento insicuro (ansioso o evitante) e sintomi depressivi sia in adolescenza (Cooper, Shaver, Collins, 1998) che nell’età adulta (Mickelson, Kessler, Shaver 1997).

D’altra parte, la depressione è spesso considerata come un disturbo che deriva da strategie inutili di regolazione delle emozioni, prima tra tutti proprio la ruminazione (Nolen-Hoeksema, 2000).  Ma in che relazione stanno esattamente l’attaccamento, la regolazione emotiva e i sintomi depressivi?

Da questa domanda si sono mossi tre autori (Malik, Wells, Wittkowski, 2015) che in un articolo pubblicato quest’anno dal Journal of Affective Disorders hanno rivisto la letteratura finora esistente, per capire meglio quale fosse la relazione tra queste due componenti (l’attaccamento e la regolazione emotiva) e i sintomi depressivi.

A quanto pare, mentre ci sono evidenze discordanti sul rapporto tra attaccamento evitante, strategie di regolazione emotiva e sintomi depressivi, c’è una certa concordanza in letteratura circa il ruolo di mediatore delle strategie di iper-attivazione nella relazione tra attaccamento ansioso e sintomi depressivi.

Questo significa che in qualche modo la relazione tra l’attaccamento ansioso e la presenza di sintomi depressivi passa per il tipo di strategia che usi per gestire le emozioni, in particolare una strategia che ti iper-attiva, cioè ti rende molto attento e fa di te un esagerato pensatore, con lo scopo di analizzare le situazioni e cercare di anticipare eventuali difficoltà.

Questo risultato da una parte esclude un pericoloso pseudo-determinismo. Visto che non abbiamo molta possibilità di decidere noi quale tipo di attaccamento sviluppare nell’infanzia, il fatto che quello non determini lo stato emotivo adulto ci dà qualche speranza. Dall’altra parte, da un punto di vista clinico, questo ci dice che è preferenziale, in terapia, insegnare al paziente strategie diverse e più utili di regolazione delle emozioni, piuttosto che addentrarci in interventi ben più intensivi (e delicati per il paziente) finalizzati a correggere gli effetti di esperienze di attaccamento precoci.

Come dire, per capire dove stiamo andando è importante sapere da dove veniamo, ma è più importante sapere dove siamo ora e che strada possiamo imboccare.

 

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Chiara Manfredi
Chiara Manfredi

Teaching Instructor presso Sigmund Freud University Milano, Ricercatrice per Studi Cognitivi.

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