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Psicologi in ospedale. Percorsi operativi per la cura globale di persone di Alberto Vito (2014) – Recensione

La pratica medica può essere coniugata con quella psicologica dando vita ad una medicina attenta ai bisogni sia emotivi che fisici dei pazienti - Psicologia

Di Annalisa Bertuzzi

Pubblicato il 21 Gen. 2015

Il filo rosso del testo si identifica con il mostrare come si coniuga, sul piano operativo, la pratica medica con la pratica psicologica, dando vita ad una medicina che sia più consapevole ed attenta ai bisogni emotivi dei pazienti non meno che a quelli fisici.

“Che luogo è un ospedale?” si chiede e ci chiede Alberto Vito, lo psicoterapeuta autore e curatore del libro, nell’introduzione; una domanda che non può non chiamare in causa, nel tentativo di dare una risposta, le sue e le nostre esperienze in merito. L’ingresso in un ospedale è legato ad un ruolo: degente, parente, amico.
E se, invece, parliamo di ruoli professionali? Ci vengono in mente i medici, il personale infermieristico…e lo psicologo? Lo psicologo in un ospedale cosa può fare? Allo psicologo non compete unicamente il trattamento delle variabili emotive connesse alle patologie organiche e, di certo, egli non può, da solo, modificare gli assetti organizzativi che governano, di solito, gli ambienti ospedalieri. Ciò non toglie che, come scrive Vito, “ il nostro contributo è imprescindibile”.

Nella mia personale esperienza, e mi riferisco al privato, l’ospedale rappresenta spesso un “non luogo”, asettico sia come ambiente fisico sia nell’ atmosfera emotiva, in cui è un eufemismo dire che scarseggia l’attenzione ai bisogni emotivi dei pazienti, dei familiari e, anche, del personale.
A questo proposito l’autore mette a fuoco tre aspetti che sono, a mio parere, molto significativi:
– l’ospedale spesso cura la malattia ma “obbliga il paziente a regredire, imponendo una dipendenza molte volte eccessiva”;
– l’assetto organizzativo da cui buona parte degli ospedali è caratterizzato “forma il paziente alla malattia come estranea da sé, non offrendogli altro spazio che ascoltare passivamente senza essere ascoltato”;
– tutti gli ospedali, anche le strutture più moderne e confortevoli, rimandano “alla condizione di essere malato, sradicato dal proprio contesto, in attesa di un percorso che può portare alla morte come alla salute”.

Il filo rosso del testo si identifica con il mostrare come si coniuga, sul piano operativo, la pratica medica con la pratica psicologica, dando vita ad una medicina che sia più consapevole ed attenta ai bisogni emotivi dei pazienti non meno che a quelli fisici. In questo quadro diviene fondamentale valorizzare l’impatto che i fattori emozionali e relazionali esercitano sul decorso delle patologie organiche: scompare la concezione della malattia come unico oggetto del trattamento a favore di un’ottica sistemica, in cui la relazione è il nodo centrale nei processi clinici.
Ci si interroga su quali caratteristiche debba avere un ospedale che possa definirsi “psychologically correct”: come impostare la pratica medica facendo in modo di ricordare che dietro ogni malato c’è un nucleo familiare e che ogni malattia ricade, quindi, sia sul singolo, ma anche sul contesto che lo circonda?

Il volume, che si compone di vari contributi, non si fonda su dichiarazioni di principio, ma sulla descrizione di una concreta realtà, quella dell’Azienda “Ospedali delli Colli” di Napoli; gli autori sono gli psicologi che operano in tale realtà, collaborando con le altre figure professionali negli ambiti più vari: trattamento del tabagismo, sostegno ai genitori nel reparto di neonatologia e terapia intensiva neonatale, psico-oncologia, trapianti cardiaci, pazienti che hanno subito laringectomie, psicoterapie ambulatoriali in ambito ospedaliero, terapia del dolore, elaborazione del lutto e formazione del personale sanitario.
La psicologia ospedaliera va ad intervenire sullo stress, osservabile sia a livello individuale che a livello familiare, correlato ad ogni patologia organica e sullo stress aggiuntivo determinato dalle strategie che vengono messe in atto per affrontare la malattia.

Possiamo definire, in grandi linee, tre ambiti di intervento:
– operare sulla reazione psicologica alla comunicazione della diagnosi, sostenendo il paziente nel processo di accettazione, adattamento e reazione alla patologia;
– ridurre il disagio personale e la sofferenza emotiva che, se non vengono trattati in modo adeguato, incidono significativamente sull’ andamento del quadro clinico;
– presa in carico non solo del paziente, ma anche del sistema familiare in cui egli è inserito.

Si parla spesso della necessità di umanizzare i processi di cura, calandoli nella realtà e nella soggettività, ma se ne parla come se si trattasse di qualcosa di accessorio, un abbellimento tutt’altro che essenziale alla buona riuscita delle terapie; in parole povere, se il medico, oltre che essere bravo, è anche gentile e disponibile all’ascolto tanto di guadagnato, altrimenti pazienza, non è poi la cosa più importante.
Probabilmente è per questo che, se anche vi sono numerose realtà in cui avviene una bella e produttiva integrazione tra la medicina e la psicologia, la strada da percorrere, a livello di consapevolezza e di attuazione concreta, rimane lunga.
Dato che, come ci insegna Lewin, non c’è nulla di più pratico di una buona teoria, bisognerebbe operare un cambiamento culturale, passando da “una medicina impersonale incentrata sulla cura della singola malattia, a una medicina che identifica nel malato l’obiettivo prioritario”.

 

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L’ intervento clinico ad orientamento cognitivo-costruttivista nel contesto sanitario ospedaliero – Congresso SITTC 2014

BIBLIOGRAFIA:

  • Vito, A. (2014). Psicologi in ospedale. Percorsi operativi per la cura globale di persone. Milano: Franco Angeli.  ACQUISTA ONLINE
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Annalisa Bertuzzi
Annalisa Bertuzzi

PSICOLOGA PSICOTERAPEUTA AD INDIRIZZO UMANISTICO - INTEGRATO

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