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Dalla parte del nemico: la sindrome di Stoccolma

La sindrome di Stoccolma consiste nel creare un legame emotivo con l'aggressore, come possibile strategia di sopravvivenza in situazioni di pericolo.

Di Redazione

Pubblicato il 19 Dic. 2014

Davide Di Vitantonio

La sindrome di Stoccolma non viene considerata un vero e proprio disturbo, bensì un insieme di attivazioni emotive e comportamentali peculiari nel funzionamento di alcuni soggetti sottoposti a eventi particolarmente traumatici, come un rapimento o una lunga serie di abusi fisici e mentali.

 

Stati Uniti, 18 Settembre 1975.
Dopo una caccia all’uomo durata 19 mesi l’FBI arresta la ricca ereditiera Patricia Hearst, assieme alla compagna Wendy Yoshimura. L’uomo che le stringe le manette ai polsi si trova di fronte a una donna che per più di un anno aveva partecipato ad attacchi dinamitardi e a violente rapine che avevano comportato l’uccisione di civili.
Tutto ciò con al fianco degli stessi personaggi che il 4 Febbraio del 1975 avevano fatto irruzione nella sua abitazione di Berkeley (California) e l’avevano trascinata nel bagagliaio di una macchina; un rapimento a fine di riscatto, attuato dall’Esercito di Liberazione Simbionese.  Al processo la difesa sostenne la tesi del “lavaggio del cervello”; la personalità della vittima era stata manipolata attraverso l’esposizione a condizioni disumane, l’umiliazione per la propria condizione di ricca privilegiata e un riferimento martellante agli ideali del gruppo.

Al di là delle considerazioni giuridiche, ciò che balza agli occhi è un quadro comportamentale noto da tempo: la Sindrome di Stoccolma, che prende il nome dalla città omonima presso la quale a seguito del rapimento di alcune persone, gli ostaggi manifestarono, dopo la liberazione, dei sentimenti positivi verso i criminali, sentendosi in debito per la gentilezza e la generosità dimostrate. Tale sindrome non viene considerata un vero e proprio disturbo, bensì un insieme di attivazioni emotive e comportamentali peculiari nel funzionamento di alcuni soggetti sottoposti a eventi particolarmente traumatici, come un rapimento o una lunga serie di abusi fisici e mentali. Le interviste cliniche hanno mostrato come il legame emotivo con l’aggressore rappresenti una vera e propria strategia di sopravvivenza messa in atto dalla vittima. Tale legame si sviluppa secondo le seguenti attivazioni emotive:
– Sentimenti positivi della vittima verso l’aggressore, generati dalla consapevolezza che dall’ altro dipenda la propria vita e dalla percezione di essere risparmiati.
– Sentimenti negativi verso la propria famiglia e le forze dell’ordine, percepite come minacciose nei confronti del legame instauratosi.
– Identificazione con il punto di vista dell’aggressore (generato in determinati casi dalla preponderanza dei riferimenti ideologici).
– Incapacità di mettere in atto comportamenti che potrebbero garantire la liberazione (gli operatori sul campo sanno bene che non è raro incontrare resistenze da parte degli ostaggi all’ atto della liberazione).

Chiaramente non vi è correlazione diretta fra l’atto di violenza e il manifestarsi della sindrome; in questo senso sono stati rilevati quattro fattori maggiormente predittivi nei confronti delle reazioni descritte:
1) I soggetti devono percepire un imminente minaccia all’integrità fisica e psicologica, e mantenere per un determinato periodo di tempo la credenza che l’aggressore potrebbe realizzarla in qualunque momento.
2) Alternanza di comportamenti minacciosi e piccole gentilezze o concessioni. Da sottolineare come i soggetti intervistati riportino spesso di aver percepito come forma di gentilezza la semplice mancanza di violenza fisica o psicologica; in questo senso, la differenza che intercorre fra le peggiori fantasie delle vittime e la realtà oggettiva, prepara il terreno per lo sviluppo di sentimenti positivi verso l’aggressore.
3) Incapacità di isolarsi dal punto di vista dell’aggressore esplorando altre possibilità. La dipendenza che si sviluppa fra vittima e carnefice, originatasi dall’istinto di sopravvivenza (la vita della vittima è nelle mani dell’altro), impedisce che ci si concentri sul punto di vista dei soggetti estranei alla situazione presente (famigliari e forze dell’ordine).
4) Forte vissuto di impotenza relativo a possibilità di fuga. Se liberarsi autonomamente non è possibile, le risorse cognitive si focalizzano sull’evitare che nel qui e ora si verifichino eventi temuti; le vittime tendono dunque a mantenere un atteggiamento docile e remissivo al quale seguono feed-back positivi da parte dell’altro rinforzando così il circolo; risulta necessario sottolineare come gli effetti della Sindrome coinvolgano anche gli aggressori, che finiscono per sviluppare sentimenti positivi verso le vittime.

La Sindrome di Stoccolma non è codificata in nessun manuale diagnostico, in quanto come evidenziato in precedenza, non viene considerata un disturbo a tutti gli effetti. Eppure, in un’ottica di psicologia clinica sarebbe interessante tentare di approfondirne le cause, indagando gli stili di attaccamento e i profili comportamentali dei soggetti che hanno vissuto lo stato di identificazione vittima-carnefice, così da permettere agli operatori della salute mentale di guardare con occhi diversi situazioni analoghe identificate dagli studi: membri di sette, personale carcerario, donne maltrattate e, naturalmente, gli ostaggi.

 

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