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Adulti Asperger inclini a pensieri suicidi: che influenza ha la società?

La depressione sembra imputabile non tanto ad una condizione neurobiologica ma ad una realtà sociale caratterizzata da isolamento e mancanza di servizi

Di Ilaria Cosimetti

Pubblicato il 05 Nov. 2014

Aggiornato il 25 Mag. 2022 11:30

Il quadro clinico di depressione secondaria negli Asperger è imputabile all’isolamento sociale, alla mancanza di servizi di qualità e alla difficoltà che questi adulti riscontrano nel mantenere una soddisfacente vita lavorativa oltre che affettiva.

Uno studio di coorte condotto dall’University of Cambridge ha evidenziato la maggior presenza di pensieri suicidi negli Asperger piuttosto che nella popolazione neurotipica. Una conclusione piuttosto scontata per chi vive questa condizione di neurodiversità e forse anche per le persone a lui più vicine.

La sindrome di Asperger, menzionata per la prima volta nel DSM IV e non più presente nel DSM V, si differenzia dal quadro clinico di Autismo per l’assenza di ritardi clinicamente significativi nello sviluppo cognitivo e del linguaggio, delle capacità d’autonomia e del comportamento adattativo pur presentando le caratteristiche tipiche di difficoltà nell’interazione sociale e la tendenza a comportamenti ripetitivi o a sviluppare interessi ristretti.

E’ gia strato dimostrato come questa condizione si correli frequentemente alla depressione ma pochi studi fino ad ora avevano indagato la presenza di ideazione suicidaria in questi soggetti.

Illustri nomi in materia di autismo, la dott.ssa Cassidy ed il Prof. Baron-Cohen, hanno sottoposto un questionario a 374 soggetti diagnosticati Asperger da adulti tra il 2004 e il 2013 nel Regno Unito, con l’intenzione di verificare la presenza, nel corso della loro vita, di depressione, ideazione suicidaria, piani e tentativi di suicidio.

I risultati sono stati ovviamente comparati con i dati riguardanti l’ideazione suicidaria tra la popolazione generale neurotipica ed i pazienti psicotici.

I ricercatori hanno riscontrato che ben il 66% degli intervistati Asperger ha riferito di aver pensato al suicidio, contro il 17% della popolazione generale e il 59% degli psicotici. Di questo 66% inoltre, il 35% ha dato seguito a questi pensieri pianificando o addiritura tentando il suicidio.

La presenza di depressione nella storia di vita dell’adulto Asperger è risultata essere un fattore determinante nel promuovere pensieri e comportamenti suicidari. Nel dettaglio chi ha una storia di depressione è quattro volte più a rischio di imbattersi in pensieri suicidari ed è due volte più probabile che pianifichi o tenti il suicidio.

Il Prof. Baron-Cohen sottolinea opportunamente che il quadro clinico di depressione secondaria negli Asperger è imputabile all’isolamento sociale, alla mancanza di servizi di qualità e alla difficoltà che questi adulti riscontrano nel mantenere una soddisfacente vita lavorativa oltre che affettiva. In attesa che ulteriori studi confermino la presenza di altri fattori coinvolti nella predisposizione all’ ideazone suicidaria, faremmo bene a prendere atto di questi primi dati.

Noi tutti potremmo, per esempio, ridurre il nostro egocentrismo, iniziare a considerare la neurodiversità una disabilità perchè in relazione con un mondo che abbiamo plasmato a nostro uso e consumo, governato da regole sociali che promuovono l’esclusione di chi ad esse non sa naturalmente aderire.

In questo scenario le proposte di aiuto per la popolazione Asperger, sin dall’infanzia, risultano troppo spesso un violento tentativo di nascondere la neurodiversità sotto un buon programma di addestramento neurotipico, pensato da neurotipici, per una società neurotipica che non contempla la possibilità di ristrutturarsi per accogliere la neurodiversità e svincolarla dal preconcetto di disabilità.

Perchè molto spesso, ciò che rende depresso e a rischio di suicidio un Asperger, non è la sua condizione neurobiologica ma una realtà sociale che imputa ad essa la responsabilità di una condizione psicologica come la depressione e di conseguenza non è in grado di offrire un servizio di sostegno psicoterapeutico adeguato.

Solo recentemente si sta cercando di adattare la terapia cognitivo-comportamentale alle caratteristiche di funzionamento autistico ma anche in questo caso il grosso limite di cui tener conto è che sono ancora una volta i neurotipici a farlo.

Tutto ciò crea un enorme sbilancio culturale a cui dovremmo porre rimedio perchè, ad oggi, questi individui hanno fatto molti più passi nella nostra direzione di quanti ne abbiamo fatti noi e forse anche questa è la ragione per cui ci ritroviamo a leggere gli spiacevoli esiti di ricerche come queste.

 

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