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Se ti chiedo aiuto raccontami te stesso!

Il terapeuta può facilitare la comunicazione nei pazienti più reticenti attraverso la self-disclosure e l'analisi del comportamento non verbale del paziente

Di Giancarlo Dimaggio

Pubblicato il 13 Ott. 2014

Aggiornato il 13 Apr. 2017 12:53

Articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sul Corriere della Sera, Domenica 12 Ottobre 2014

Chi presta aiuto, deve facilitare la comunicazione nei più reticenti. Come? Innanzitutto creando un senso di comunanza.

Non date per scontato che se chiedete aiuto, allo psicoterapeuta, all’amica fidata, al prete, racconterete quello che è necessario a chi vi ascolta.  In presenza di un problema si alza il senso di allarme: riceverò attenzione? Mi rifiuterà? Penserà di me che sono un idiota, un inetto, che sono debole, si approfitterà di me? Se vi trovaste in difficoltà e doveste chiedere aiuto a Frank Underwood –  sì, lui il protagonista di House of Cards – avreste anche ragione.

Il risultato, nel complesso, è che in presenza di dubbi, paure e diffidenza la possibilità di chiedere aiuto e beneficiarne diminuisce drammaticamente. Chi presta aiuto (stesse categorie di prima), deve facilitare la comunicazione nei più reticenti. Come? Innanzitutto creando un senso di comunanza. Noi psicoterapeuti usiamo una strategia che chiamiamo self-disclosure (autosvelamento). Raccontiamo qualcosa di nostro, di vero, che ci sembra simile al problema del paziente. L’effetto di tale comunicazione: riduce la differenza di rango, il curante scende dal piedistallo, rinuncia al potere, l’altro si rilassa. Se aveva timori di umiliazione si ridurranno. Un altro effetto: se chi ci ascolta ci percepisce simili, immagina la nostra mente più ricca, piena di idee e sentimenti che lui stesso pensa e prova. Se ci percepisse diversi, ci fantasticherebbe stranieri e per lui diventeremmo un fantasma minaccioso o uno stereotipo. Agli stereotipi non si chiede aiuto mica tanto volentieri.

Altra strategia: non badiamo troppo alle idee che una persona ha sul perché il suo mondo va in malora. Le opinioni sono buone per i talk show. A me di solito annoiano. A noi interessano fatti, episodi. Precisi. E quelli chiediamo. Facilitiamo il racconto dettagliato di episodi autobiografici. E mentre la persona racconta, al minimo cenno di chiusura, con un guizzo portiamo l’attenzione al comportamento non-verbale. Le espressioni facciali. Una nube di tristezza che vela gli occhi. Una scarica di rabbia che contrae le labbra. La nostra prontezza è dire: vedo qualcosa nel suo sguardo. È paura? Ha chinato il capo, si vergogna? Ricordate Tim Roth in Lie to Me? “C’è rabbia lì”. Qualcosa del genere, solo che rispetto a lui siamo meno sfacciati, più gentili e soprattutto vogliamo aiutare, non smascherare la menzogna.

Ultimo strumento. Di fronte a ogni cenno di malinteso, difficoltà,  chiusura, non puntiamo il faro sull’altro: “Lei è chiuso, ostile, che le succede?”. Al contrario assumiamo noi per primi la responsabilità dell’impasse comunicativa. “Sento che è irritato con me? Ho fatto qualcosa che può averla ferita?”. Tutto quello che segue è negoziazione nella relazione. Nello studio dello psicoterapeuta, almeno lì dentro, funziona. Fuori da lì?

 

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Giancarlo Dimaggio
Giancarlo Dimaggio

Psichiatra e Psicoterapeuta - Socio Fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva-Interpersonale

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