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Le ossessioni di Patrizia – Centro di Igiene Mentale – CIM nr.12 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

Ossessività: una forte esperienza soggettiva di sofferenza che non fa clamore ma nasconde un terrore profondo - Storie dalla Psicoterapia Pubblica

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 22 Lug. 2014

 

– CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #07

Le ossessioni di Patrizia

 

 

– Leggi l’introduzione –

Si soffre per qualcosa e si soffre perché ci si ritiene folli e folle il motivo per cui si soffre. Di questa categoria il miglior esempio sono gli ossessivi che, non a caso nei vangeli sono descritti come indemoniati. Non fanno clamore, non accorrono carabinieri e ambulanze, non spaventano i vicini. Se tuttavia ci si sporge al parapetto che dà sul loro animo si distingue nettamente il profilo del baratro infernale che da la vertigine alle menti più sofisticate.

Una volta era semplice. Gli psicotici sono gravi, gravissimi e praticamente incurabili, i nevrotici invece si curano. La differenza sta nell’esame di realtà e consapevolezza di malattia. Per uno psicotico due più due può fare tre o cinque o nove. Per un nevrotico invece fa quattro ma gli dà molto fastidio: così si insegnava nelle scuole di psichiatria.

La realtà, come al solito, è molto più complessa. La gravità  è concetto multiforme. E’ grave ( dal latino “pesante”) il paziente che assorbe molte risorse, fa continue richieste, mobilità continuamente il CIM ed altre istituzioni: insomma quel tipo di pazienti che si scaricano volentieri agli altri. E’ grave il paziente che ha una diagnosi  a prognosi cronica o negativa. La gravità è moltiplicata dalla carenza di risorse relazionali, culturali e, si purtroppo, anche economiche e infine dalla mancata consapevolezza di malattia che ostacola la richiesta di aiuto e la collaborazione alla terapia.

Poi c’è una gravità esprimibile in termini di sofferenza soggettiva in cui, paradossalmente, la coscienza di malattia può fare da moltiplicatore. Si soffre per qualcosa e si soffre perché ci si ritiene folli e folle il motivo per cui si soffre. Di questa categoria il miglior esempio sono gli ossessivi che, non a caso nei vangeli sono descritti come indemoniati. Non fanno clamore, non accorrono carabinieri e ambulanze, non spaventano i vicini. Se tuttavia ci si sporge al parapetto che dà sul loro animo si distingue nettamente il profilo del baratro infernale che da la vertigine alle menti più sofisticate.

Il dubbio sta lì invitante a chiamare a risolverlo. Fatto il primo passo con la bussola rivolta alla certezza assoluta la trappola scatta. Il terreno sprofonda. Il dubbio dilaga sullo stesso ragionare. Ogni sicurezza partorisce cucciolate di possibilità sconosciute. Ogni bivio si ramifica in decine di altri e la strada è perduta.

Patrizia Rufolo aveva 32 anni quando Silvia Ciari aveva bussato alla porta della sua camera e da circa due anni non usciva più di casa. La madre Maddalena aveva chiesto aiuto al CIM contro il parere del padre Rodolfo che non amava mettere in piazza gli affari della famiglia. Doveva essere stata una bella ragazza  quando tredici anni prima aveva lasciato il paese per andare a Roma all’università.

Ora l’inquietudine degli occhi catturava lo sguardo dell’interlocutore trasmettendo angoscia, smarrimento. I capelli una volta biondi e ricci circondavano ampie zone di alopecia. Un panno di adipe sotto la cute giallastra nascondeva un corpo originariamente longilineo che era stato oggetto di desideri per molti compagni del liceo scientifico di Vontano. Diplomatasi con 60/60 quando era il massimo dei voti si avventurò alla Sapienza per conquistare la laurea più prestigiosa. Sarebbe diventata dottoressa, forse pediatra, altrimenti endocrinologa. Era l’orgoglio dei genitori con il compito di riscattare una famiglia colpita dalla sorte. Il nonno paterno carcerato per contrabbando aveva spinto il padre a emigrare a Monticelli dove aveva sposato Maddalena ragazza bella ma con poco mercato perché molto chiacchierata come l’omonima del vangelo. Dopo un anno di matrimonio era nata Olimpia, una bambina down affidata a cinque anni ad un istituto di Varese. Ormai trentacinquenne era venuta a casa soltanto tre volte e costituiva un altro vergognoso segreto della famiglia.

Rodolfo lavorava all’ufficio postale, Maddalena era casalinga ed avevano il sogno di una figlia dottoressa col camice bianco all’ambulatorio sulla piazza del comune. Ora quella figlia promessa di riscatto era il loro più grande cruccio e quasi ne nascondevano l’esistenza. Il ritiro era stato progressivo, un indisposizione, troppe ore sui libri, le vecchie amicizie giudicate superficiali, il tempo trascorso in bagno per prepararsi sempre più lungo. Tre ore prima di uscire e due ore al ritorno. Ormai Patrizia usciva soltanto una volta a settimana per accompagnare la madre a portare le buste pesanti della spesa. Sulla scrivania della sua stanza il “Sobotta” di Anatomia aperto a pagina 783 da sette mesi.

Ai genitori diceva che non poteva distrarsi perché era un esame molto difficile. Quando non era in bagno impegnata in misteriose pratiche o china inconcludentemente sul Sobotta fissava il piccolo televisore Brionwega in bianco e nero regalo dei diciotto anni. Non badava a quale fosse il programma, restava incantata dalle immagini in movimento.

Alla dottoressa Filata con cui iniziò una psicoterapia confessò che il programma migliore era quello dopo l’una di notte in cui un suono costante monotono e rassicurante accompagnava uno scorrere sullo schermo di antenne e reti fin quando tutto si oscurava e quello era il segnale che poteva dormire. Non voleva che si entrasse in camera sua e la madre lo faceva di nascosto mentre lei era in bagno. Controllava il Sobotta e quel 783 ormai immobile da sette mesi era il segno della gravità che non si poteva ignorare oltre.

L’avventura romana era iniziata trionfalmente. Fisica 29, Chimica 28, Biologia 30 e statistica medica 29. Ansiosa lo era sempre stata e per timore di far tardi la mattina arrivava alla fermata dell’autobus mezz’ora prima del necessario. Non voleva perdere una lezione e raccontava affascinata di Roma e della Sapienza come una continua allegra confusione simile al giorno di carnevale a Monticelli. Per la famiglia non c’era dubbio doveva aver incontrato delle cattive compagnie. Infatti Maddalena che ogni sera passava in rassegna il contenuto della borsa di Patrizia mentre lei dormiva, aveva trovato un pacchetto di sigarette ed un accendino. Per Rodolfo era stato come trovare la figlia a prostituirsi lungo la salaria. Aveva sbriciolato tutte le sigarette nel letto di lei. L’aveva insultato definendola una ragazza facile e per una settimana gli aveva vietato di uscire e di andare all’università. Poi la mediazione di Maddalena aveva avuto successo e Patrizia era potuta tornare all’università ma non poteva fermarsi in biblioteca a studiare. I suoi orari di lezione e quelli degli autobus erano rigidamente controllati.

La ricostruzione del vissuto interiore di Patrizia di quel periodo fu  possibile solo grazie alla collaborazione tra la dottoressa Mattiacci che seguiva l’aspetto farmacologico con incontri quindicinali e la dottoressa Filata che la incontrava settimanalmente per un ora di colloquio. Fu scelto di proporre due figure di riferimento per la difficoltà di Patrizia di affidarsi ad una sola persona per il timore dell’abbandono.

Anche le ipotesi diagnostiche erano due. La Mattiacci propendeva di più per uno sviluppo paranoideo, la Filata per un grave disturbo ossessivo. Ad entrambe aveva parlato dell’evento che lei considerava scompensante ma sul significato che vi aveva attribuito le due divergevano probabilmente ognuna mettendoci del suo.

Sull’importanza di indagare non i semplici fatti ma il senso soggettivo attribuitogli Biagioli aveva ricordato alle due una sua lontana esperienza. Un signore cinquantenne aveva presentato improvvisamente un disturbo da attacchi di panico dopo la notizia che la amatissima moglie era affetta da un carcinoma intrattabile e sarebbe morta nel giro di otto mesi. Per Biagioli non c’erano dubbi, l’evento scatenante era la previsione di un distacco, una perdita. Siccome però la terapia non portava risultati Carlo tornò a ricostruire esattamente cosa avesse pensato al momento della notizia. Ebbene il candidato vedovo aveva pensato “adesso non posso più lasciarla”. Non che avesse intenzione di farlo, si amavano e non l’aveva mai tradita ma nella sua mente la porta era sempre aperta. In quel momento invece la porta si era chiusa e lui si era sentito soffocare.

L’evento riguardante Patrizia era in sé ben poca cosa. Era una mattina di pioggia ed aveva escluso l’idea di farsela a piedi come talvolta accadeva. Per riuscire a penetrare sul tram stracolmo che l’avrebbe portata al policlinico si era attaccata con la destra ad una delle colonne verticali metallica e con la sinistra aveva accolto il sostegno offertole da un giovane di colore che con muscolose braccia le aveva fatto spazio nella calca. Le era rimasto accanto quasi a proteggerla dalla massa circostante. Ad un certo punto del viaggio Patrizia aveva sentito il sesso indurito del giovane premere insistentemente sulle sue natiche e poi improvvisamente sgonfiarsi. Per la Mattiacci la descrizione era così precisa e viva che doveva già trattarsi di percezione delirante attivata dal desiderio  rimosso (si noti che Patrizia, ancora vergine, aveva un immaginazione ed una attività autoerotica floridissime).

Patrizia disgustata scese alla prima fermata e prosegui a piedi. Ricordava perfettamente i pensieri che l’avevano accompagnata fino all’istituto di Anatomia di via Borrelli dove proprio in quei giorni stava familiarizzando con i cadaveri. Pensò che poteva rimanere incinta, il padre l’avrebbe cacciata di casa e si sarebbe ucciso per la vergogna. Considerando l’ipotesi dell’aborto si fermò in una farmacia per acquistare la pillola del giorno dopo che non le diedero senza prescrizione. Il solo averlo pensato però, per l’educazione cattolica ricevuta, la collocava tra gli assassini di innocenti a braccetto con Erode.

Certamente il figlio sarebbe stato Down come la sorella per punirla. La madre non avrebbe retto a questa nuova disgrazia e sarebbe morta di crepacuore. Lei che voleva diventare medico per curare era diventata un’assassina. Anche il ragazzo di colore  sarebbe stato condannato all’inferno, quale che fosse la sua religione per aver fecondato una donna senza sposarla ed aver abbandonato il figlio. Tutto per la sua leggerezza di porgergli la mano.

La notte si interrogava se quel suo gesto fosse stato mosso dal suo costante desiderio di copula e trovava mille prove a favore ed altrettante contrarie.  Ripassava alla moviola interiore gli attimi di quella disgraziata mattina. Cosa aveva pensato quando quel ragazzo le aveva teso la mano? Il suo odore avvolgente l’aveva eccitata oppure no? Aveva fatto dei movimenti e quanto volontari che avevano provocato lo sgonfiamento improvviso di quel sesso duro puntato su di lei? Più passava il tempo e più il dubbio dilagava. Forse aveva toccata la sua gonna nel posto incriminato e, così inumidita, si era poi massaggiata la vulva nei bagni di via Borrelli? In quella mattina di temporale come distinguere con certezza assoluta la pioggia dai fluidi corporei. La prova che fosse consenziente e responsabile dell’accaduto la ritrovava ogni sera. Il rimuginio popolato di mostri che precedeva il suo addormentamento cessava solo quando si dedicava ai suoi toccamenti fino ad esplodere in un orgasmo ogni sera più totale.

Dunque mentre la dottoressa Mattiacci sosteneva che l’episodio, catalogabile come molestia o abuso aveva convinto Patrizia della pericolosità del mondo favorendo dunque un paranoico ritiro precauzionale per Maria Filata era esattamente il contrario. Patrizia si era convinta di essere spregevole, colpevole e portatrice di morte. Il suo ritiro proteggeva gli altri dal danno e lei dalla colpa. I suoi stessi massacranti rituali di lavaggio acquistavano un significato di purificazione e andavano in direzione di un grave disturbo ossessivo compulsivo. Aggiungeva inoltre che il tema dell’indegnità morale per motivi sessuali aveva riguardato come si ricorderà anche la tanto chiacchierata Maddalena. Dopo il matrimonio con Rodolfo aveva avuto anch’ella un periodo di ossessioni di pulizia e lavaggio poi scomparse con la nascita della figlia Down che aveva espiato ogni possibile precedente colpa.

A suo merito  va ricordato che la connessione tra la sintomatologia di Patrizia e tematiche sessuali fu evidenziata per prima da Silvia Ciari. Aveva notato che ogni volta che lei veniva accompagnata in auto  da Antonio Nitti (l’infermiere più bello del mondo) i tempi del bagno si dilatavano considerevolmente. Silvia Ciari non sapeva invece e non avrebbe voluto essere per Patrizia la conferma della sua dannosità per gli altri. Era stata la prima del CIM a varcare la porta della sua stanza. Sapeva che probabilmente sarebbe stato il suo ultimo caso perché entro sei mesi sarebbe andata in pensione compiendo sessanta anni con 35 di servizio sulle spalle. Avendo vissuto come una suora laica senza famiglia e dedita solo al CIM ed al partito aveva già in mente di proseguire come servizio volontario ma non sarebbe stata la stessa cosa. La luce che penetrava dalle altissime finestre gotiche della cattedrale proiettava ombre corte ai piedi dei numerosissimi presenti. Come già detto da Fabrizio De Andrè maggio con la primavera che apre alla vita non è un mese adatto alla morte ma lei sembra non curarsene. I colleghi avevano già raccolto i soldi per i regali di fine lavoro.

Non era facile però trovare qualcosa di adatto per quella donna che sembrava non avere bisogni se non quelli degli altri, che non aveva una vita propria sempre immersa nella vita degli altri. Li aveva tolti dall’imbarazzo ne avrebbero fatto una borsa di lavoro per un paziente del CIM, così avrebbe voluto Silvia. Mancavano esattamente trenta giorni alla pensione. Una gazzella dei carabinieri inseguiva una macchina rubata guidata da un rumeno che Silvia aveva aiutato ad ottenere un lavoro da garzone di macellaio. Lei andava a piedi a fare una visita domiciliare e camminava sul bordo. Pioveva forte e c’era la nebbiolina mattutina. Lui era riuscito ad evitarla per un pelo. Loro no. In cattedrale c’erano tutte le autorità del comune e della ASL  con Torre e Altamura in prima fila uniti dalle lacrime sincere per quella che era stata forse la vera fondatrice del CIM e li aveva trascinati in questa avventura. Tutti gli altri certi che Silvia non avrebbe gradito la cattedrale disertarono. 

La cerimonia laica si tenne il giorno dopo nel pomeriggio alla sezione del partito intitolata a Berlinguer. C’erano tutti. Irati in un impeccabile doppiopetto spigato da mafioso. Maria Filata, Daniela Ficca e Lina Mattiacci arrivate di corsa strette sotto lo stesso ombrello. Antonio, Marco, Giulio e Luigi, quelli di “Villa Santovino”, incapaci di soffermarsi sull’emozione si affaccendavano per la sistemazione logistica della sala. Biagioli mostrava dieci anni di più, piangeva e per la prima volta in pubblico si stringeva sottobraccio a Luisa Tigli. Era lui a dover parlare ma non ce la faceva  e lasciò il compito a Giovanni Brugnoli in quanto collega di Silvia. Non fu un elogio, non ce n’era bisogno, ma una serie di aneddoti e ricordi di vent’anni di lavoro insieme. Molti si sganasciarono dalle risate. Giò sapeva sempre trovare il lato comico delle situazioni per questo Silvia lavorava volentieri con lui e gli diceva che non sarebbe mai morto. Concluse imitando la voce gracchiante di Silvia quando diceva “ tutti boni a  parla ma a lavora chi ce mannamo? Forza ‘mpo”. Pianto e riso si mischiarono mentre i motori delle auto si accendevano e tutti tornavano ai pazienti come Silvia avrebbe voluto. 

La morte di Silvia portò un effetto positivo nella vicenda di Patrizia. La colpa che pervadeva la sua esistenza  si estese anche a questo evento. Decise di andarsi a confessare dopo mesi di assenza da ogni sacramento a motivo della sua indegnità. Il parroco conosceva un po’ la situazione perché amico della dottoressa Filata. Ascoltò tutta la sua confessione e le diede come penitenza dei comportamenti attivi a promuovere il bene piuttosto che il ritiro per prevenire altri mali. Lei ne parlò in psicoterapia. In una riunione familiare presenti Filata , Mattiacci e Giovanni che era subentrato a Silvia come assistente sociale fu proposto che Patrizia si impegnasse come volontaria nella sezione della croce rossa locale dove poteva mantenere vivi i suoi interessi per la medicina e l’aiuto degli altri in attesa di riprendere gli studi più sistematicamente.

Il lavoro psicoterapeutico si concentrò sul senso di indegnità e di colpa. Decisivo fu la normalizzazione della sessualità. Contemporaneamente anche nei colloqui psichiatrici con la dottoressa Mattiacci si puntò molto sull’emancipazione dalla famiglia , liberandosi dal senso di colpa del sopravvissuto per la malattia della sorella e dal compito di riscatto sociale della famiglia che le era stato attribuito. 

Facendo un salto in avanti nel tempo che solo le storie consentono vediamo Patrizia che abbandonata medicina si è laureata in scienze infermieristiche, lavora alla clinica privata “Misericordia Dei”, è presidente della sezione locale dell’Unitalsi ed ha una relazione lesbica stabile ma senza convivenza.

 

LEGGI LA RUBRICA STORIE DI TERAPIA DI ROBERTO LORENZINI

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