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I sensi e l’inconscio di Giuseppe Civitarese (2014) – Recensione

L'autore sceglie di occuparsi del concetto di inconscio, con la necessità clinica di rendere la psicoanalisi uno strumento di comprensione e cura

Di Redazione

Pubblicato il 03 Lug. 2014

 Luca Nicoli

 

 

I sensi e l inconscio di G. Civitarese - RecensioneNel suo percorso di rinnovamento della psicoanalisi, fortemente radicato nelle teorie post-bioniane e particolarmente nel modello del campo intersoggettivo, l’Autore sceglie di occuparsi di un concetto centrale della nostra disciplina, l’inconscio, così a lungo dibattuto e ridefinito da risultare a volte indefinito e sfuggente, quasi diluito nella sua pregnanza.

Risognare l’inconscio

La definizione di sogno dovrebbe includere il momento del risveglio

Credo che questa frase (p. 64, corsivo mio), apparentemente semplice, dia testimonianza dell’apertura prospettica offerta da questo quinto libro di Giuseppe Civitarese, dal titolo “I sensi e l’inconscio”. Soltanto al risveglio, spiega l’Autore, possiamo intuire la simultaneità della nostra esistenza in più mondi.

La vita umana si svolge incessantemente nel mondo interno e in quello materiale, ciascuno del quali contribuisce di continuo a generare l’altro. Siamo ormai molto distanti dalla scissione cartesiana tra corpo e mente, ma anche al di là del paradigma di unità psicosomatica che ha rappresentato uno dei punti forti della rivoluzione freudiana, secondo la quale l’Io è prima di tutto un Io corporeo.

Nel suo percorso di rinnovamento della psicoanalisi, fortemente radicato nelle teorie post-bioniane e particolarmente nel modello del campo intersoggettivo, l’Autore sceglie di occuparsi di un concetto centrale della nostra disciplina, l’inconscio, così a lungo dibattuto e ridefinito da risultare a volte indefinito e sfuggente, quasi diluito nella sua pregnanza.

Civitarese confessa già nelle prime battute lo sgomento davanti alla complessità di una nuova concettualizzazione sul tema: “Mi resi subito conto con una certa apprensione di come il familiare concetto di inconscio mi divenisse man mano più estraneo. Più mi avvicinavo, più sembrava sfuggirmi. In effetti più lo studiamo, più il quadro si fa oscuro, l’intrico delle diverse concettualizzazioni quasi impenetrabile” (p.11).

Allora, ci si potrebbe chiedere non senza malizia, che senso ha scrivere oggi un libro sull’inconscio, laddove la psicoanalisi contemporanea, di cui Civitarese è esponente di peso, ormai intende il termine inconscio più come aggettivo – i processi inconsci – che come sostantivo?

L’Autore compie una scelta di apparente continuità, ma già nell’introduzione si capisce con chiarezza che il passaggio da una psicoanalisi dei contenuti ad una più attenta ai processi trasformativi è un dato acquisito, di partenza più ancora che di arrivo.

Il tema viene trattato in modo preciso e puntuale, alla ricerca di una cornice teorica che consenta di preservare lo spessore clinico dell’inconscio, senza irrigidirlo in una struttura reificata, la cantina buia della psiche.

“Provare a mappare alcuni dei nodi essenziali della rete concettuale che si è sviluppata a partire dalla nozione chiave della psicoanalisi mi è costato non poca fatica, ma mi ha permesso di redigere un piccolo atlante dell’inconscio” (p.12).

Alla luce della lettura del volume, mi piace l’idea di immaginare questo atlante non tanto come i vecchi atlanti stradali, minuziosi reticolati cartacei che ricordano gli schemi freudiani raffigurati in alcune pagine del libro, quanto piuttosto come una guida della Lonely Planet, senza immagini o piantine sature di significato, ma ricca di descrizioni che invitano il viaggiatore a sognare il viaggio, arricchendolo di spessore emotivo.

L”importante è… Sognare

“L’importante è… finire”, sussurrava Mina, scandalosamente indecisa se arrendersi o meno alle tentazioni della sensualità. E l’inconscio di cui parla l’Autore – erede ed estimatore del pensiero di Bion – si nutre continuamente di sensorialità. Il corpo pensa, “trasforma l’emozionalità primaria che nasce dall’attrito con il reale” (p. 65), fornendo contenuti alla mente, che rappresenta la funzione autocosciente del corpo stesso.

In linea con la teoria del sogno di Bion poi ripresa da Ogden, Civitarese esplora il concetto clinico di revêrie corporea, un interessante fenomeno clinico di comunicazione inconscia intersoggettiva. Laddove la teoria classica scorgerebbe dei fenomeni di controtransfert somatico, evocati da potenti identificazioni proiettive da parte del paziente con difficoltà a simbolizzare, il modello proposto dall’Autore vede emergere l’irrappresentabile all’interno del campo corporeo condiviso, attraverso sensazioni o azioni.

Non si tratta, si badi bene, di concezioni astratte, poiché hanno specifiche ricadute sul piano clinico. A questo proposito, Civitarese si mostra sensibile alla funzione terapeutica della psicoanalisi, dunque gli assunti teorici sono accompagnati da una serie di raffigurazioni cliniche convincenti, a partire da curiosi accadimenti nel setting: un errore “di calcolo” nella lunghezza della seduta, l’analista che si sorprende nell’atto di bere una bottiglietta a specchio di quanto sta facendo la paziente, o che intraprende una disputa intellettuale con un altro paziente; queste sono solo alcune delle vignette, coraggiose e sincere, che parlano di un analista attento, che si interroga sul significato emergente di presunti errori, sensazioni fugaci e azioni apparentemente banali.

Senza interpretare secondo modelli precostituiti, l’Autore sembra lasciarsi sorprendere dalla voce dei sensi, la revêrie corporea, che si leva dalle aree apparentemente mute, meno simbolizzate del campo analitico, in quel setting depositario, secondo Bleger, delle parti psicotiche della personalità.

Il setting, il corpo del paziente, quello dell’analista, le azioni intraprese dai due perdono parte della loro differenziazione qualitativa, oserei dire della loro costituzione ontologica, per diventare, in seduta, dei vertici del campo analitico, costruiti come una sorta di terzo intersoggettivo (Ogden) dall’attività onirica condivisa.

Civitarese spiega in questo modo il rapporto tra corpo, inconscio e campo analitico: “Noi interpretiamo il paziente (le turbolenze del campo) anche con il nostro sapere procedurale, implicito; un sentire e un conoscere non riducibili direttamente a parole, concetti, rappresentazioni. Si tratta di una comprensione vissuta, in un primo momento del tutto irriflessa e che solo in seconda battuta può divenire conscia. […] Anche l’azione non intenzionale o il comportamento che è espressione di un’abitudine in seduta cambiano se cambia la teoria dell’inconscio” (p.63).

Una rivoluzione senza caduti

Bion da un lato, Merleau-Ponty, Derrida, Heidegger dall’altro, sono solo le principali stelle che guidano la navigazione di Civitarese verso il paradigma del post-moderno, della decostruzione del soggetto e delle strutture psichiche in favore dello studio dei processi e delle funzioni mentali intersoggettive. Si tratta, tuttavia, di una rivoluzione senza caduti. In che senso?

La scienza del Novecento – di cui Freud è stato geniale rappresentante – aveva bisogno di fondarsi sulla individuazione e la descrizione di strutture distinte: coscienza e inconscio, soggetto e oggetto erano chiaramente definiti, così come era al centro dell’attenzione la relazione dinamica tra loro. Freud scolpisce in un motto l’essenza stessa della psicoanalisi: “Wo Es war, soll Ich werden”; dove prima c’era l’Altro, il pulsionale inconscio, devo porre Me stesso come soggetto cosciente.

Civitarese riconosce un ruolo fondante a questo paradigma, e ha il merito di non trascurarlo come se fosse un’incrostazione anacronistica. Tutt’altro: l’Autore non uccide Freud, le cui raffigurazioni schematiche dell’inconscio emergono come preziose cartoline di famiglia tra le pagine del volume, anzi lo convoca insieme a Bion per costruire un vero e proprio dialogo tra giganti, secondo un’opposizione dialettica franca e feconda.

La più efficace di queste operazioni di confronto riguarda a mio avviso il concetto di in/conscio. “L’inconscio non sta più sotto o dietro il conscio, ma semmai dentro l’esperienza cosciente” (p.14). Non si tratta di un’entità topicamente differente, un altrove straripante di pulsioni proibite, ma di una funzione trasformativa che offre spessore simbolico, poetico, estetico, ad una realtà altrimenti inaccessibile e allo stesso tempo insignificante.

“Ne consegue che la distinzione tra processo primario e processo secondario è da rivedere” (p.124). Sentenze come questa sono rare nel panorama del confronto analitico: chiara, incisiva e pertinente, non tenta di salvare a tutti i costi l’enunciato freudiano, ma al tempo stesso non lo svaluta né vi si contrappone in modo aggressivo. Civitarese sembra rivolgersi direttamente a Freud, come un Fliess dei tempi moderni, per invitarlo a ripensare, risognare ancora una volta la teoria psicoanalitica.

Voglio a questo punto ribadire come ciascuno di questi mutamenti di prospettiva non appaia mai come un orpello filosofico né tanto meno ideologico, ma come una necessità clinica per fare della psicoanalisi uno strumento di comprensione e cura delle persone.

Se la patologia isterica della Vienna freudiana ha dato vita a un modello teorico fondato sulla nevrosi e sul conflitto intrapsichico, oggi siamo nell’epoca del funzionamento mentale oggettivo (Britton), dove l’uomo è senza inconscio, per citare Recalcati. Le anoressie, i disturbi ansiosi, gli stati limite, le disfunzioni somatopsichiche ci presentano difetti di simbolizzazione, veri e propri buchi rappresentazionali, strappi nella tela dell’esperienza di sé. È questa nuova tipologia di pazienti che spinge gli analisti ad occuparsi degli stati primitivi della mente (Levine) e della figurabilità dell’irrappresentabile (Botella).

Civitarese a questo proposito valorizza il lavoro introdotto da Bion di estensione della funzione onirica: se il sogno per Freud era un tentativo di metabolizzare il trauma infantile, “qui ciò che si tratta di metabolizzare è la virtuale traumaticità del reale” (p.133).

La psicoanalisi di cui stiamo parlando accompagna il paziente nel lungo processo di soggettivazione (Cahn), che nel linguaggio di Civitarese possiamo tradurre come l’appropriazione in/conscia del reale, la O di Bion, di per sé inconoscibile. Attraverso momenti di unisono, ovvero di condivisione emotiva del sogno, la mente si espande e rafforza la sua capacità di contenere e dare significato all’esistenza.

Nella terra di mezzo

A questo punto, vorrei condividere alcuni elementi della mia esperienza personale nella lettura del libro, nel tentativo di mettere in luce la sua doppia funzione di strumento per il cambiamento clinico ed epistemologico.

Accingendomi a terminare il volume, come lettore sono rimasto affascinato dalla dialettica incessante tra mondo interno ed esterno, consapevole che la mia psicoanalisi non sarebbe stata quella di prima. Giunto al nono capitolo, “l’intermedietà come paradigma epistemologico in psicoanalisi”, mi sono imbattuto nello Zwischenreich, il “regno di mezzo”, neologismo utilizzato per la prima volta da Freud nel 1896. Quasi all’istante ho associato il concetto alla Terra di Mezzo, landa mitica ideata da J.R.R. Tolkien per fare da sfondo al suo romanzo “Il Signore degli Anelli”.

Durante un’intervista, quando chiesero al celebre narratore se le sue storie si svolgessero in un’epoca differente della Terra, egli rispose: “No… ad un differente stadio dell’immaginazione, questo sì”. Come non pensare ai paradigmi dell’intermedietà, del preconscio, dello spazio potenziale, di una dimensione contemporaneamente aliena e presente.

Certamente, il passaggio dal modello archeologico della psicoanalisi ad un paradigma di gioco creativo con Winnicott, di costruzione della capacità di pensare con Bion, di arricchimento degli scambi preconsci (???) rappresentano ormai dei passaggi epistemologici sufficientemente acquisiti, anche se, talvolta, si corre il rischio di interpretarli alla stregua di ulteriori dimensioni fisse, luoghi della psicoanalisi che sostituiscono altri luoghi.

La terra di mezzo di cui ci parla questo libro, che costituisce una delle più preziose risorse del pensiero post-bioniano, è una sorta di nonluogo, termine coniato dal sociologo Marc Augé per indicare un’aree virtuale di relazione, che nel nostro caso è caratterizzata da continue oscillazioni dialettiche.

A partire dal concetto del filosofo Merleau-Ponty di Io come campo di relazioni intercorporee, passando per il concetto di proto-mentale di Bion, Civitarese arriva a sottolineare il nuovo scandalo introdotto dalla psicoanalisi, dopo quello freudiano dell’alienazione dell’Io ad opera dell’Es pulsionale: si tratta dell’alienazione dell’inconscio soggettivo, in favore di una continua creazione intersoggettiva dell’esperienza inconscia. Soggetto e oggetto non sono più in opposizione strutturale, ma in continuo dialogo come la dimensione in/conscia, già citata.

Come per il nastro di Moëbius presentato nel libro, o per il gatto di Schrödinger della fisica quantistica, che è contemporaneamente vivo e morto, l’intermedietà di cui parla Civitarese non è una realtà terza, a metà via (un gatto ferito?), ma appare piuttosto come un’oscillazione continua di due vertici in opposizione dialettica.

Viene da pensare agli ologrammi, figure riconoscibili e definite che traggono esistenza dalla combinazione di due fasci luminosi che si intersecano. L’immagine risultante è immediatamente riconosciuta come superiore alla somma delle componenti, come nel caso del concetto di terzo intersoggettivo di Ogden; tuttavia, spegnendo una delle fonti di luce, la percezione della figura viene meno immediatamente.

Il campo analitico, terra di mezzo prediletta da Civitarese, sarebbe l’equivalente di un ologramma derivante “dall’incrociarsi di reciproche identificazioni introiettive e proiettive” (P. 217). Per l’Autore, esso rappresenta lo strumento teorico e clinico di cui apprezzare i movimenti, le espansioni o le contrazioni, i cambiamenti di clima o di temperatura, l’irrigidimento o l’elasticità.

Naturalmente, tale punto di vista radicale, che mette tra parentesi le individualità dei due soggetti in seduta, comporta delle ricadute significative sul piano tecnico: “In principio l’interpretazione non è più diretta al paziente, a modificare qualcosa in lui, bensì a migliorare la capacità narrativa del campo inteso come narrazione in/conscia a due. Se apparentemente si indirizza al paziente, da questo vertice lo fa solo come luogo del campo. Ciò che conta è migliorare il livello generale del testo che analista e paziente compongono e via via recitano in due. Ogni intervento quindi mira ad accrescere la capacità della coppia di sognare il problema che fino ad allora non si riusciva a sognare” (P. 220).

I due volti della verità

Dedico la conclusione di questa recensione al problema della verità, che in un certo senso permea tutto il lavoro di Civitarese.
Lo scarto epistemologico offerto dalla teoria del campo intersoggettivo si riverbera in modo radicale sull’approccio clinico.

L’obiettivo dello scambio analitico diventa molto differente rispetto a paradigmi più classici, ricostruttivi, e anche la verità a cui tendere, il cibo che – per Bion – garantisce la crescita della mente, ha delle sfumature differenti. Come sappiamo, per Freud l’individuo si trova spodestato dalla padronanza di sé ad opera di un inconscio rimosso ma dinamicamente molto attivo. Il disvelamento del messaggio pulsionale latente tramite l’interpretazione e l’integrazione del contributo inconscio alla personalità concorrono all’acquisizione di un sentimento di verità interna, che arricchisce la consapevolezza di sé.

Civitarese discute il suo modo di intendere la verità in analisi nel capitolo “la Griglia e la pulsione di verità”, dove egli segue il travagliato percorso di Bion nel definire il rapporto dell’individuo con la verità, talmente essenziale da farne la meta di una pulsione, nella rilettura di Grotstein.

La verità che interessa a Bion (a noi) in analisi è quella che nutre la mente e che è adattiva rispetto alla realtà esterna solo quando è emotivamente sostenibile […], solo quando non comporta un grado eccessivo di frustrazione e “non ostruisce lo sviluppo del pensiero (p. 204, corsivo mio).

È in questa frase che riconosco le due facce della verità presenti nel libro.

La prima, la più esplicita, è quella che fa dire a Civitarese che bugia e sogno rappresentano metafore differenti con cui il paziente cerca di proteggersi dall’angoscia e insieme di farsi intendere. Torna alla mente ciò che sostiene Ogden sullo scrivere la psicoanalisi, ovvero il paradosso secondo il quale non si può raccontare una seduta se non trasformandola in finzione, perché non vada perduta la soggettività, qualità fondante dell’esperienza analitica.

Pertanto, in analisi, lo svolgersi narrativo del campo intersoggettivo trascende i concetti di verità e menzogna, e l’unica verità che interessa l’analista è quella “inconscia, emotiva e condivisa” (p. 205).

Tuttavia esiste anche, a mio avviso, una seconda faccia della verità, di cui Civitarese non parla esplicitamente, ma che trapela spesso dalle pagine del libro. È quella verità che “non comporta un grado eccessivo di frustrazione”.

Si tratta di una verità generosa, offerta dagli scrittori (o dagli analisti) più attenti alle capacità elaborative dei loro interlocutori. Essa richiede di prestare continua attenzione a quanto un lettore può cogliere, senza che si senta schiacciato da un sapere distante e frustrante. Accompagnare il lettore a risognare la psicoanalisi significa ad esempio spiegarne anche quei concetti che fin troppo spesso sono dati per scontati, come quando Civitarese parla dei pazienti che si trovano ad avere “difficoltà a simbolizzare, in sostanza a tollerare la differenza che separa il significante dalla cosa significata” (p. 53, corsivo mio), o come quando scrive che “la trasformazione avviene quando le emozioni sono “contenute” cioè “simbolizzate” “(p.121, corsivo mio).

A mio avviso non si tratta di ovvietà, esattamente come non è ovvio che ciascun paziente comprenda senza difficoltà il nostro linguaggio, soprattutto quando ci capita di cadere nell’uso dello psicanalese. Cercare di cucinare la complessità del discorso per favorirne la digestione emotiva significa voler ricercare insieme una verità condivisa. Allo stesso tempo, ricordarsi di rendere esplicito il significato dei concetti più comuni aiuta a mantenerli vivi, precisi, condivisi, veri.

 

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Il sogno necessario – di Giuseppe Civitarese 

 

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