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Yara: Parlare di cronaca nera è ancora possibile?

Le chiacchiere sulle vicende di cronaca nera: una variante moderna di gossip che fa riflettere sull'impossibilità di parlare di ciò che non si conosce

Di Sandra Sassaroli, Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 03 Lug. 2014

 

La morte di Yara Gambirasio è un fantasma che continua a tormentare la nostra mente. Le circostanze furono raccapriccianti. Sappiamo che Yara riuscì in qualche modo a scappare dall’auto che l’aveva portata prigioniera, tentò di sfuggire all’assassino correndo tra le sterpaglie e si lanciò verso le luci dei vicini eppure lontanissimi capannoni industriali che sorgevano dall’altra parte dei campi. Ma fu raggiunta, fiaccata, ferita e strangolata. 

Naturale provare un senso profondo d’ingiustizia. Trovare il presunto assassino ci restituisce un senso di rivalsa, misero surrogato di una redenzione impossibile.  

La cronaca nera nell’età laica è un infinito coitus interruptus. Ce ne siamo resi conto oggi noi due -autori di quest’articolo- parlando del delitto di Yara, o meglio tentando disperatamente di parlarne, e non riuscendoci per nulla, continuamente censurati dalla nostra coscienza laica e politicamente corretta.

Il gossip di cronaca nera va goduto non andando troppo per il sottile, senza disquisire troppo sulla congruenza delle prove (da controllare dove, poi? Sui resoconti dei giornali?) ma abbandonandosi ad audaci analisi psicologiche del presunto colpevole e a temerarie considerazioni sociologiche sulla decadenza dei tempi. Il che è molto gradevole, ci fornisce una sorta di linciaggio light nel quale finalmente troviamo il piacere sempre più raro di essere d’accordo su qualcosa senza se e senza ma, senza mille cautele e prudenze verbali.

Soprattutto, come ci hanno spiegato Renè Girard (1972) e Giuseppe Fornari (2006), godiamo dell’ancora più raro piacere del poter essere concordi nell’odio contro qualcosa che è oggettivamente “male” senza virgolette, senza relativismi, senza distinguo, senza premesse, senza note a margine, senza glosse e senza corollari che rendono tutto molto più sofisticato e molto meno emozionante.

Questo in teoria. In pratica, non ci si riesce. Dopo un po’, qualcuno troppo ragionevole inizia a introdurre i suoi distinguo. Intrisi di mentalità scientifica, mettiamo in dubbio la colpevolezza dell’indagato. Ragioniamo sulla congruenza delle prove. Prendiamo atto che la maggior parte dei processi sono indiziari. Qualcuno deve crollare e confessare, ma notiamo che la “confessione” non è l’habeas corpus, la prova materiale. E così via.

Insomma, notiamo che la condivisione di uno stato d’animo e di un’opinione, sia pure la banale riprovazione verso un indagato, è un’impresa sempre più difficile.

Nella civiltà laica si condividono le azioni e i progetti, non le emozioni e gli stati mentali. Soprattutto, non si condividono i giudizi, e gli stati d’animo di tipo giudicante. Si può condividere l’entusiasmo per un progetto (è un’età attiva e fattiva, non può esserci pensiero senza azione). Ma anche li, senza esagerare, e soprattutto senza condividere un inappropriato e scorrettissimo senso di appartenenza (orrore!).

 

Noi moderni non apparteniamo a nulla e a nessuno, tanto meno a noi stessi. Noi che non siamo ma che soltanto stiamo partecipando a un progetto siamo accomunati solo da una serie di procedure pratiche, di scopi empirici e di risultati e non costituiamo assolutamente un gruppo con una sua identità che lo distingue dal mondo. Vietato appartenere, vietato definirsi. Definirsi significa trasformare un gruppo funzionale in un gruppo organico, un’associazione in un’etnia. Ed etnia è l’antitesi della laicità.

Tutto questo è sicuramente meraviglioso, certamente è utile (ops! Attenzione a non esagerare anche qui!) Però sempre maledettamente privo di quel je-ne-sai-quoi che è il cuore della passione incontrollata. (E poi finalmente andiamo a vedere “trono di spade”, dove le cose vere, calde e forti accadono, e possiamo avere preferenze, passioni e disgusti condivisi).

Condividere un progetto e mai un’idea impone un atteggiamento da eterni pesci in barile perfino nel pieno dell’azione. Non c’è mai il vero abbandono orgiastico, quello che nelle feste dionisiache portava alla perdita del controllo. E però –non spesso, non necessariamente, ma idealmente sempre- anche al linciaggio di una vittima.

C’è qualcosa nell’unirsi nella riprovazione di un colpevole che fornisce a noi umani un’esperienza unica di piena e irriflessa adesione e condivisione che non riusciamo a trovare in nessun’altra esperienza. Ci fa sentire tribù, unici e diversi dall’altro. Ci fa sentire vicini, e gli altri lontani. E quindi meno soli.

Pensavamo che le innocue chiacchiere sulla cronaca nera potessero essere una variante moderna accettabile dell’antico entusiasmo divino. In fondo si tratta di condividere delle innocue banalità con leggerezza, non intendiamo linciare nessuno. Eppure anche questo è troppo per lo spirito critico moderno.

Dobbiamo rassegnarci a tacere, secondo il detto di Wittgenstein: “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”. Siccome di questi processi in fondo non sappiamo nulla, finiamo per tacere. E così anche questo articoletto, nato per parlare del delitto di Yara, si conclude riflettendo sull’impossibilità di parlarne.

 

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Sandra Sassaroli
Sandra Sassaroli

Presidente Gruppo Studi Cognitivi, Direttore del Dipartimento di Psicologia e Professore Onorario presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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