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Someone Beside You e l’approccio Windhorse alla malattia mentale

Someone Beside You illustra il viaggio di alcuni psichiatri e dei loro pazienti attraverso l'evocazione di nuovi approcci alla malattia mentale - Psicosi

Di Matteo Bessone, Guest

Pubblicato il 02 Mag. 2014

Aggiornato il 02 Lug. 2019 12:15

Matteo Bessone, Paola Parini

 

 

Someone beside youI racconti di Someone Beside You narrano di un viaggio verso la comprensione di ciò che accade negli spazi toccati dalla follia, di come convivere, in un certo modo e per un certo tempo, con certi sintomi, per comprenderli e trasformarli dopo averli accettati nella loro portata.

Someone Beside You – Qualcuno accanto a te è un roadmovie di Hedgar Hagen del 2006. Illustra il viaggio di alcuni psichiatri e dei “loro” pazienti attraverso Svizzera, Francia, USA e Italia. Lungo il viaggio i protagonisti evocheranno nuovi approcci alla malattia mentale e nuove rappresentazioni di questa, utilizzando alcuni concetti mutuati da approcci orientali, soprattutto in seno al buddismo.

Durante tutto il film i protagonisti sono in viaggio, in movimento, lo stesso movimento incessante la cui consapevolezza emerge tramite pratiche meditative e in cui è inevitabilmente immerso lo stesso percorso di continua conoscenza della psicologia. Lo scenario di tale movimento è il mondo esterno e non il setting clinico. Gli autori suggeriscono che la guarigione dalla psicosi, possibile, possa avvenire più facilmente nel naturale contesto ecologico.

Non ne emerge una critica diretta, rancorosa, agli approcci psichiatrici o psicologici dominanti, ma i protagonisti, seppur esperti (talvolta anche per esperienza vissuta in prima persona), si fanno portatori di un atteggiamento peculiare, tanto relazionalmente, con i pazienti, quanto di fronte al disagio di questi: traspare un’apertura amorevole, un’umanità compassionevole dei dottori nei confronti di quelli che una certa psichiatria preferisce identificare come propri oggetti (di studio), e che tende a catturare tramite una presunta conoscenza oggettiva e reificante.

Emerge in questi professionisti la consapevolezza dell’impermanenza dell’essere: di sè, come dei “propri pazienti; della “propria scienza”, come della sofferenza altrui: una capacità di dimorare nell’incertezza, del movimento incessante, tutte consapevolezze spesso misconosciute da un certo modo di intendere le scienze “ psi” che invece tendono comprensibilmente, e come qualsiasi altro sistema di significato, ad identificarsi in maniera irremovibile e ad ancorarsi alle proprie teorie e ai propri costrutti, che diventano in questo modo gli unici legittimi.

Durante il film si percorrono le fila della follia, tentando di seguirne le trame concettuali che vengono intessute dall’incontro di psicologia occidentale con le pratiche orientali. La follia viene evocata come un “Secondo Stato Umano”, uno stato in cui emerge il lato opposto della persona per come questa viene conosciuta da sé e definita dal mondo attorno a lei.

A tutti è possibile aver accesso a tale stato dal momento che avere una mente equivale già alla possibilità di perderla. La possibilità di far emergere tale lato opposto permette alla persona di lottare ostinatamente per il diritto di non essere capiti, mantenendo uno spazio di individualità che le permetta di andare oltre se stessa, trascendendosi, fino a fondersi con il mondo.

All’interno dell’approccio Windhorse un ruolo fondamentale è giocato dall’espressione “Isola di chiarezza” che sta ad indicare come anche nei momenti di maggior difficoltà, quando la mente corre via, alla folle velocità della psicosi, può accadere che in tutto quel folle impazzare di pensieri, improvvisamente, per un istante sospeso, tutto si fermi. Come nell’occhio di un ciclone, si crea una sorta di isola di calma dove la consapevolezza è possibile.

Accade allora che la persona si renda conto della “differenza di stato” rispetto all’impazzare di prima. E’ questo il processo che ha forse portato Podvoll, padre del “Progetto Windhorse”, a definire la psicosi come secondo stato.

Ed è proprio la possiblità di condivisione di tali illuminanti momenti di chiarezza (la psicologia occidentale li chiamerebbe insight, da cui “insight meditation”, uno dei sinonimi di mindfulness) che è alla base del progetto Windhorse:

Avere accanto qualcuno” che faccia da testimone, con la sua semplice presenza, con la qualità del suo essere, per ricordare quello che è successo poc’anzi, e insieme aiuti a ricostruire il processo, a capire come accade che la mente si perda… e poi ritorni.

“Riconoscere le isole di chiarezza” è uno dei dieci punti che illustrano le caratteristiche della “Basic Attendance”, il “modo”, l’Attitudine tipica dell’approccio Windhorse.

E’ difficile, quando non fuorviante, esplicitare un approccio basato sullo “stare con”, altamente esperienziale. Certamente vengono in aiuto alcuni suggerimenti di Kabat Zinn che concernono la Mindfulness:

[…]‘non è una tecnica, è una ‘modalità’, è un Modo di Essere, un Modo di Vivere, un Modo di Ascoltare, un Modo di Percorrere il cammino della vita, in armonia con le cose così come sono.

Le radici orientali dell’approccio Windhorse, lo rendono molto meno interventista di qualsiasi approccio occidentale. L’importanza del clima emotivo che viene a crearsi con l’intera équipe, contribuisce a far emergere un movimento trasformativo del paziente e della sua energia. Un movimento che va verso un equilibrio più armonico, maggiormante integrato rispetto a tutte le istanze presenti, interne ed esterne.

Si potrebbe forse provare ad utilizzare l’omeopatia come metafora, sia per la somiglianza dell’effetto del farmaco al sintomo che si vuol curare: il terapeuta/farmaco e il paziente/sintomo sono simili (omeo), entrambi umani, entrambi, direbbe Podvoll, con una mente che si può perdere. La funzione stimolante del farmaco omeopatico, simile a quella dei vaccini, sul sistema immunitario e sull’attivazione del corpo volta ad attivare tutti i meccanismi omeostatici nella direzione della guarigione, può ricordare la tendenza Windhorse a non risolvere i problemi al posto del paziente, ma a stargli accanto, il più possibile, a volte con un semplice rispecchiamento, più spesso con la propria semplice presenza, mentre egli cerca di trovare, autonomamente ma con un accompagnamento, le proprie soluzioni.

I racconti di Someone Beside You narrano di un viaggio verso la comprensione di ciò che accade negli spazi toccati dalla follia, di come convivere, in un certo modo e per un certo tempo, con certi “sintomi”, per comprenderli e trasformarli dopo averli accettati nella loro portata.

Karin, la prima paziente intorno alla quale è nato il primo progetto Windhorse, narra con stupore del rapporto con Podvoll: “Egli mi credette, di solito gli psichiatri non credono ai pazienti.”

La psichiatria sicuramente ha aperto le proprie porte negli ultimi decenni, sempre più tentata, anche solo per motivi di convenienza, da approcci basati sulla domiciliarietà più che non sul ricovero in strutture (esemplare è l’aumento del tasso di dimissioni del 1965 in USA quando la normativa relativa a Medicare e Medicaid, i due programmi di assistenza sanitaria pubblica, ha iniziato a prevedere fondi federali per l’assistenza in comunità alloggio mentre sussidi analoghi non erano previsti per le strutture ospedaliere).

Qual è allora la peculiarità di Windhorse? Cosa lo differenzia da un qualunque altro intervento integrato?

In primis, la pratica della meditazione, che accomuna i membri dell’équipe e che viene svolta sia singolarmente, che in gruppo. Questa crea un terreno comune, la “coltivazione”, appunto, di quell’atmosfera e quelle modalità di ascolto non giudicanti, fondamentali per un reale incontro con l’altro a partire da una profonda conoscenza di sè. La particolarità della meditazione windhorse si evince anche durante le riunioni d’equipe: il modo di discutere i problemi non può prescindere dalla posizione interna di “ascolto non giudicante”. Questo non significa però che non esista il conflitto, anzi, se è importante “stare con quello che c’è” (o che “non c’è”) nulla può essere lasciato fuori.

“L’attenzione all’ambiente” viene a configurarsi quindi come attenzione allo spazio interpersonale, dove può nascere, se coltivata da curiosità e benevolenza, un’autentica relazione. In questo spazio è fondamentale la real ” presenza” di tutti i presenti.

Da un punto di vista pratico, quello che avviene in un progetto Windhorse è la costituzione di un’équipe terapeutica formata da almeno due Basic Attenders, uno psicoterapeuta, in alcuni casi uno psichiatra e un medico di base. Tale équipe sarà tenuta a muoversi nella rete che è stata costruita attorno al paziente per integrare l’approccio Windhorse, che necessita di incontri regolari, con gli altri approcci in essere. Dopo una prima fase di indagine dei bisogni della persona e degli altri abitanti della casa (nel caso di un progetto domiciliare) si stabilisce quanti turni di Basic Attendance e quante sedute di psicoterapia possano essere ottimali per il paziente. Le riunioni d’équipe si tengono con cadenza quindicinale o settimanale, mentre a cadenza mensile è previsto un incontro con il paziente e gli abitanti della casa o altri familiari o persone coinvolte nel progetto e tutta l’equipe.

Questo significa prendere in carico anche altri eventuali componenti del nucleo familiare, occuparsi anche della sofferenza della famiglia. La sofferenza del paziente non è esclusivamente sua, ma trova spazio anche in quella famiglia stessa che è possibile abbia contribuito a generarla. Ancora una volta, nessuno può essere lasciato fuori.

Come scrive E. Podvoll in “Recovery Sanity”: “La Basic Attendance agisce oltre che sul paziente anche sull’ambiente che la persona abita e frequenta […]”. Si tratta di organizzare momenti di presenza al fianco del paziente presso la propria abitazione o presso i luoghi che via via si ritengono coerenti con i bisogni espressi dal percorso terapeutico. Ogni “turno” ha qui una durata di tre ore. Svolgere un “turno” di Basic Attendance non significa semplicemente “stare accanto” a qualcuno, ma prendersi carico di qualsiasi cosa abbia una diretta attinenza con lo stare vicini ad una persona che decide di intraprendere un percorso fragile, incerto e a volte drammatico verso la propria guarigione.

I principi sono detti “di base” (basic) in quanto sono riconducibili alla condizione basilare e fondamentale del sincronizzare corpo, mente e ambiente nelle normali attività della vita mantenendo l’attenzione al presente, momento per momento, e affinando le percezioni.

Questo tipo di servizio prende di volta in volta connotazioni pratiche diverse: fare l’accompagnatore, il tutore, la guida …”

Negli ultimi anni Windhorse si sta aprendo anche, per quanto riguarda i momenti di incontro allargato alle famiglie, alle esperienze di “Open Dialogue” portati avanti da Seikkula.

Quello che più stupisce del film è la posizione degli esperti. I protagonisti suggeriscono una conoscenza del folle e della sua follia, non tanto attraverso categorie psicologiche consolidate, ma tramite un gentile ed autentico incontro di diverse umanità.

Un incontro in cui si fa cruciale l’abbandono dell’arroccamento difensivo (identificazione) dietro i rispettivi ruoli di paziente-terapeuta. Guardando Someone Beside You, in certi momenti, soprattutto durante le prime scene, l’identificazione di chi sia paziente e chi terapeuta non è così facile. Il setting classico viene completamente scardinato in favore di quello che potrebbe essere chiamato un “controtransfert globale” che si avvicina molto ai concetti di “posizione terapeutica” della psicologia e psicoterapia di strada.  o alla necesssità di “interiorizzare il setting” espressa da Sergio Erba a proposito del setting psicoanalitico. (N.B. in questo testo, Sergio Erba utilizza i termini psicoanalisi e psicoterapia spesso come sinonimi).

“Senza setting, l’analisi non poteva aver luogo (…) si finiva con l’utilizzarlo solo nella sua forma nei suoi aspetti esteriori, fisici. E nel ruolo di custode dell’ortodossia che il setting si era ritrovato a ricoprire,esso si comportava come un ringhioso mastino che, non essendo stato addestrato a distinguere tra amici e nemici, finiva per abbaiare indistintamente contro tutti.

Per molto tempo infatti, coloro che si sono avventurati nel trattamento delle psicosi si sono visti squalificare la loro esperienza come non psicoanalitica solo perchè avevano dovuto apportare modifiche al setting tradizionale. Oggi che l’esigenza di allargare gli ambiti dell’applicazione psicoanalitica è particolarmente sentita e diffusa, il problema di questa rigidità si ripropone con forza. MI è capitato sovente di sentire affermare, da parte di colleghi, su questo argomento, che “bisognerebbe interiorizzare il setting” (…) in altri termini, l’esigenza di possedere una sostanza per essere liberi rispetto alla forma. Se so che il setting è essenziale, ma non dispongo di un convincente perchè, sono costretto ad attenermi a quella che è la forma in uso. Se invece posseggo un perchè, sono la sostanza, la funzionalità a diventare il mio punto di riferimento.”

E’ solo l’abbandono delle difese del ruolo da parte del terapeuta che può permettergli di recuperare l’abisso che lo separa dal paziente impededogli un autentico incontro.

Lo psicoterapeuta così facendo, per mezzo della curiosità e della fiducia che il paziente possa assumersi la piena responsabilità del proprio spirito, lo può aiutare a riprendere consapevolezza delle rappresentazioni di sé e del mondo trovando la giusta distanza dai propri pensieri.

Perchè questo possa realizzarsi occorre un luogo dove questo sia possibile: un luogo dove incontrarsi, uno spazio-tempo, un setting che si crei volta per volta, dove niente e nessuno venga lasciato fuori: il paziente, il terapeuta, i familiari, un luogo dove incontrare sè e l’altro. Come una tenda da nomadi, L’Ambiente Windhorse si “monta” là dove necessario, insieme a chi la abiterà e diventa luogo dell’incontro.

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