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Naruto: il cartone animato che aiuta a pensare le emozioni difficili

Naruto affronta le emozioni tipiche dell’esperienza dei ragazzi, emozioni che i più giovani faticano a integrare e rappresentare nei rapporti con gli altri.

Di Mauro Bruni

Pubblicato il 21 Mag. 2014

Aggiornato il 02 Feb. 2015 11:23

 

 

 

Naruto: il cartone che aiuta a pensare le emozioni difficiliNaruto dimostra un senso di autoefficacia e una resilienza tale che l’antitesi tra l’iniziale posizione di svantaggio psicosociale e la grande sicurezza e forza di “spirito”, fornisce una particolare corposità psicologica a questo eroe che si dimostra tutt’altro che infallibile.

Un cartone animato che ha per tema principale la lotta e lo scontro fisico può essere considerato un buon prodotto? Possiamo inserirlo nella programmazione televisiva dei nostri figli? Potremmo per qualche ragione consigliarlo addirittura ai nostri giovani pazienti?

“Naruto” è un anime giapponese adatto alla visione di bambini e ragazzi a partire dai dieci anni.

Il personaggio principale è ben congegnato: orfano, escluso e allontanato da tutti a causa del suo essere diverso (sia dentro che fuori) e di un fantasma transgenerazionale che rimarrà sullo sfondo per le diverse centinaia di puntate realizzate fino ad ora: una presenza interiore fatta di istinti e di pura “malvagità”, un demone che costringe il protagonista ad una lotta per la mediazione dei propri impulsi distruttivi, tra pensiero e azione, in quella che risulta essere una metafora assolutamente lampante delle dinamiche intrapsichiche come ormai siamo abituati ad immaginarle.

Nonostante ciò il personaggio dimostra un senso di autoefficacia e una resilienza tale che l’antitesi tra l’iniziale posizione di svantaggio psicosociale e la grande sicurezza e forza di “spirito”, fornisce una particolare corposità psicologica a questo eroe che si dimostra tutt’altro che infallibile.

E’ trasmesso da circa dieci anni in più di novanta Paesi nel mondo. L’elevato numero di episodi e l’evolversi della trama che sviluppa il protagonista dall’infanzia all’età adulta ne fanno un racconto d’azione e di formazione che cattura lo spettatore. Anche se il tema maggiormente rappresentato appare essere quello che riguarda l’antagonismo, l’affermazione, l’appartenenza e la dominanza, come è frequente e quasi esclusivo nei prodotti di intrattenimento commerciale dedicati al genere maschile, altri ambienti emotivi ed esperienziali non solo non vengono trascurati ma passano addirittura in primo piano: vengono affrontati in maniera molto evidente i temi della perdita, del lutto, della tristezza, del tradimento, della compassione, del perdono, del risarcimento, del rispecchiamento, dell’empatia, ma viene rappresentata ugualmente l’apprensione, l’ammirazione, la gratitudine, la solitudine, la devozione, l’invidia, la collera, il disprezzo, ed in particolar modo l’isolamento e l’emarginazione sociale.

Ed è innegabile che proprio questa sia quella costellazione di significazione dell’esperienza che preadolescenti e adolescenti fanno più fatica ad integrare e rappresentare nei rapporti con adulti e coetanei, rinunciando ad inflazioni negazioniste che sterilizzano i fisiologici vissuti di incertezza, debolezza e bisogno.

In questo senso, il contatto con rappresentazioni di sentimenti articolati, seppure in apparente finzione, diventa terreno di familiarizzazione e apprendimento.

 Dedicando ampio spazio alla tessitura psicologica di ogni personaggio implicato, specialmente ripercorrendo le esperienze emotive e affettive dell’infanzia, i traumi, le relazioni di attaccamento, e trascinando lo spettatore in un compito di ridefinizione dei legami interpersonali, oltre le apparenze, il processo rimanda idealmente all’utilizzo dell’Adult Attachement Interview (Main et al. 1992) nella pratica clinica, dove il parametro qualitativo delle relazioni primarie viene indagato nella capacità di ricordare e verbalizzare in maniera coerente il passato, rimaneggiare le esperienze e mentalizzarne le conseguenze.

I temi classici dell’eroe e dell’antieroe, pensiamo al periodo degli anni ’80 e ’90 con i cartoni giapponesi in cui ad essere inscenata era un’atmosfera di perenne allarme e difesa nei confronti di un invasore ostile ed alieno dalle motivazioni mai chiarite, vengono sostituiti da dinamiche che pur nella sostanza della continua contrapposizione tra “bene” e “male”, sono proposti in maniera più complessa e accurata.

Largo spazio, infatti, è lasciato a dialoghi e flashback introspettivi in cui si ricostruisce il passato dei numerosi personaggi per proporre allo spettatore opportunità di identificazione più ampie e raffinate che fanno coincidere la memoria semantica delle esperienze con quella episodica; in questo modo lo spettatore può svincolarsi dalla fissità e dalla ripetitività dei copioni tipici dei super eroi americani dove è prestabilito chi vince e chi perde.

In “Naruto”, buona parte della realizzazione risulta incardinata sulla progettuale ricerca di un mondo interno costruito su una emotività che è spesso il soggetto principale della rappresentazione, e su cui autori e sceneggiatori deliberatamente spostano l’accento.

Per completezza bisogna dire che così come in altri Paesi, anche in Italia il cartone è stato censurato in alcune scene in cui è presente del sangue o nei dialoghi, dove ad essere eliminate sono parole come “idiota” o “morire”, sostituite ad esempio con “testa quadra” e “lasciarci le penne”. In ogni caso l’opportunità di intervenire nel senso di una prevenzione del danno non sembra del tutto rilevante, soprattutto se paragonata al valore complessivo dell’opera. Non esiste alcuna controindicazione alla visione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Main, M., Hesse, E., (1992). Attaccamento disorganizzato/disorientato nell’infanzia e stati mentali dissociati nei genitori. In Ammaniti, M., Stern, D.N. (a cura di) , Attaccamento e Psicoanalisi. Laterza, Bari.
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Mauro Bruni
Mauro Bruni

Psicologo Psicoterapeuta

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