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Disabilità e qualità della vita – Il tempo libero della persona disabile

La qualità della vita è data dall’impiego del tempo libero in attività gratificanti. Nei disabili spesso è scadente poiché il tempo libero è un tempo vuoto

Di Vincenzo Amendolagine

Pubblicato il 17 Apr. 2014

Aggiornato il 22 Ott. 2014 15:39

 

 

 

 

Qualità della vita e disabilità. - Immagine: © Lifeinapixel - Fotolia.comAttualmente il concetto di salute si identifica in uno stato di benessere che coinvolge la dimensione fisica, psicologica e sociale dell’individuo.

Legata alla percezione di benessere è la qualità della vita: in pratica, un paradigma che rende la persona soddisfatta o insoddisfatta della propria quotidianità. La qualità della vita è data anche dall’impiego del tempo libero in attività gratificanti.

Nel disabile, spesso la qualità della vita appare scadente in virtù del fatto che il tempo libero è un tempo vuoto, abitato dalla solitudine e dalla noia.

 

La qualità della vita

Attualmente il concetto di salute è inteso non come assenza di malattia, ma in una accezione decisamente più ampia e completa. A questo riguardo gli organismi internazionali (Organizzazione Mondiale della Salute) hanno focalizzato la definizione di salute in una dimensione olistica, esplicitandola come una condizione di benessere che riguarda le tre dimensioni che caratterizzano la vita di ogni individuo, ovvero la dimensione fisica, psicologica e relazionale – sociale.

Laddove si vuol caratterizzare il costrutto di benessere, si deve ricorrere alla determinazione degli elementi che lo compongono. In pratica, potremmo definire un individuo in uno stato di benessere allorquando ha:

delle priorità che dirigono la sua vita;

la sensazione di guidare il corso degli eventi che compongono il suo ciclo vitale;

una buona relazionalità sociale, che lo fa interfacciare in termini positivi e gratificanti con l’alterità.

Sintonica e complementare con il concetto di benessere è la rappresentazione mentale individuale dell’idea di qualità della vita, che diviene il fondamento paradigmatico ed euristico della percezione del benessere personale. In altre parole, dalla qualità della vita le persone traggono le inferenze in grado di definire il proprio benessere in termini di presenza o assenza. I parametri che tipizzano la qualità della vita sono molteplici, ricoprendo tutti gli aspetti della vita quotidiana e fornendo gli archetipi per una prospettiva temporale positiva e ottimista. A questo riguardo si possono citare alcuni parametri, quali:

  • il possedere un’attività lavorativa appagante e gratificante;
  • l’avere la percezione della propria libertà personale;
  • il vivere in ambienti qualitativamente superiori;
  • il fruire di un tempo libero piacevole.

L’elenco potrebbe continuare all’infinito, investendo tutte le dimensioni che compongono la vita dell’individuo sia in un’ottica olistica che ecologica. Brown, citato in Soresi (2007), individua nel concetto di qualità della vita degli elementi oggettivi e soggettivi. Fra i primi sono da elencare:

  • le possibilità economiche;
  • le peculiarità dell’ambiente;
  • le condizioni di salute.

Fra i secondi sono da citare:

  • la sensazione di realizzazione;
  • la percezione della sintonia con la propria individualità e con l’alterità;
  • la conoscenza dei propri desideri;
  • l’impressione di essere sempre all’altezza del compito da svolgere in ogni situazione.

Il fatto che gli individui possano percepire in maniera differente le stesse situazioni di vita deriva dai costrutti personali che compongono la loro mappa cognitiva e che li fanno essere:

  • più o meno ottimisti,
  • più o meno fiduciosi in se stessi;
  • più o meno coscienti del proprio empowerment personale.

 

La disabilità

Attualmente, grazie alle rivoluzionarie concettualizzazioni sancite dall’ICF (2002), la disabilità è considerata uno stato di salute in un ambiente sfavorevole. In questo modo si pongono in evidenza le correlazioni che legano la percezione del proprio stato di salute e di benessere alle variabili ecologiche, che caratterizzato il contesto di vita dell’individuo, rimarcando ancora una volta come la sensazione di disabilità sia strettamente proporzionale alla qualità della vita vissuta. In altre parole, laddove il disabile ha l’impressione che la propria vita sia ricca di un vigore fisico, frutto anche di trattamenti abilitativi, riabilitativi e terapeutici idonei ed efficaci, di una serenità emotiva, di un contesto sociale, che favorisce l’evoluzione personale, che sostiene e incrementa i rapporti con gli altri individui, che non lede le prerogative personali e soprattutto che permette di esercitare il libero arbitrio, lì egli vivrà la sua disabilità come una diversa abilità.

La considerazione di tali costrutti ha permesso un salto di qualità nell’ambito dell’approccio e dell’intervento a carico della disabilità. In pratica, il paradigma fondante dei trattamenti biopsicosociali destinati alle persone affette da uno stato morboso invalidante è divenuto l’incremento della qualità della loro vita. Tale finalità si realizza, come la Donati (2003-2004) puntualizza, operando su due fronti:

da un lato ristrutturando il contesto esterno dell’individuo, ottimizzando la dimensione lavorativa e l’impiego del tempo libero;

dall’altro lato revisionando il suo contesto interiore, incrementando le chiavi di lettura positive che la persona adopera per leggere se stesso, gli altri e la realtà che lo circonda, ovvero attuando una riorganizzazione della cognitività e della percezione della realtà.

 

Il tempo libero della persona disabile

Frequentemente il tempo libero della persona disabile è un tempo vuoto, alimentato dalla noia e dalla solitudine, dal senso di abbandono e di impotenza, come messo in evidenza da Trisciuzzi, Fratini & Galanti (2010). Per lungo tempo si è provveduto ad ottimizzare il percorso scolastico e riabilitativo di chi è affetto da disabilità, trascurando questa importante dimensione che è rappresentata dal tempo non occupato, che, soprattutto, nell’adulto disabile, una volta terminata l’esperienza formativa, diviene il tempo prevalente.

I contesti educativi, nello specifico la scuola, sono chiamati ad intervenire in tal senso, insegnando al disabile tutte quelle abilità che gli possano permettere di vivere il tempo libero come un momento di gioia e non di tedio.

Wehman, citato in Donati (2003-2004), distingue nel tempo libero due parametri che lo contraddistinguono:

  • uno tangibile, legato alla porzione temporale impiegata;
  • l’altro personale, connesso alle emozioni positive e al senso di soddisfazione e di benessere che le attività svolte donano.

Nell’ambito del tempo libero della persona disabile un posto di rilievo lo deve occupare la pratica sportiva. Infatti, l’esercizio delle  attività motorie e sportive permette all’individuo diversamente abile di:

  • incrementare le risorse personali;
  • migliorare i comportamenti, le competenze, le capacità e le abilità;
  • implementare la relazione con l’alterità;
  • potenziare l’empowerment soggettivo;
  • ampliare l’autonomia personale.

Ci si riferisce, prevalentemente, all’attività fisica adattata, ovvero una pratica motoria e sportiva modificata per incontrare, accogliere e soddisfare i bisogni delle persone affette da disabilità.

A questo riguardo, già nel 1978, la Carta internazionale dell’Unesco, citata in Casalini (2008), dichiarava:

“Ogni essere umano ha il diritto fondamentale di accedere all’educazione fisica e allo sport, che sono indispensabili allo sviluppo della sua personalità. Condizioni particolari devono essere offerte ai giovani, compresi i bambini in età prescolare, alle persone anziane e ai disabili per permettere lo sviluppo integrale della loro personalità, grazie ai programmi di educazione fisica e di sport adattati ai loro bisogni”.

 

Le storie di vita: Saverio

Sono cieco dalla nascita e ho un grande desiderio che mi accompagna da sempre: vedere i colori. Ho ventitré anni: in tutti questi anni ho sempre sognato di poter assaporare per un attimo i colori. I miei genitori e i miei fratelli mi hanno sempre descritto le cose, utilizzando i colori. So che ci sono oggetti neri, che la terra è marrone, che le foglie degli alberi sono verdi, che il mare è azzurro e che il cielo è turchese. D’estate quando sono in spiaggia cerco di gustare i colori: sento sul mio corpo i raggi del sole e immagino che esso diventi giallo come il colore del sole. La stessa sensazione la provo quando faccio il bagno in mare: penso che il mio corpo si dipinga d’azzurro.

Ho imparato nel corso della mia vita ad associare ai colori le sensazioni che provo nel corpo. Per esempio suppongo che il giallo corrisponda ad una percezione di calore. La stessa che mi regala il sole quando mi espongo ai suoi raggi. L’azzurro lo paragono a quel senso di fresco che assale il mio corpo quando faccio il bagno nel mare. Il marrone lo assoccio a quell’impressione di ruvido, di farinoso che provo quando tocco e sbriciolo una zolla di terra. Il verde lo equiparo a quel fresco che mi comunicano le foglie quando le metto fra le mani. Ad ogni colore ho imparato ad associare le sensazioni corporee. In certi momenti mi sembra di vedere attraverso il corpo. In altri momenti, in cui mi sento scoraggiato, ritengo che sia tutta un’illusione e che a me è stato negato il piacere di vedere i colori.

Quello che mi pesa in talune circostanze è la mancanza di autonomia: non posso aprire la porta e andarmene per strada così come fanno tutti. Altre volte penso di essere comunque avvantaggiato, perché ho un cane guida che mi fa compagnia e mi indica la strada quando per qualche ragione devo allontanarmi da casa. Mia madre sovente mi dice che io sono fortunato, perché ho una famiglia che mi vuole bene, degli amici che si ricordano ogni tanto di me. In alcuni giorni ci credo e penso di avere avuto dalla vita tutto quello che potevo desiderare. Altri giorni mi diventa faticoso credere a questa fortuna: mi sento in quei frangenti uno storpio che non può vedere e basta! Quando ero piccolo mio padre e mia madre mi raccontavano delle storie, delle favole. Quelle che mi piacevano di più erano tratte dalla mitologia greca. Mi intrigavano le vicende che si stabilivano fra gli dei e fra gli dei e gli esseri umani. Ogni sciagura umana era la conseguenza di qualcosa di negativo che gli uomini avevano fatto agli dei.

Da allora in poi si è annidata nella mia mente l’idea che le disgrazie di ogni uomo siano una specie di punizione inviata da forze superiori. Negli attimi di sconforto, che il mio lungo tempo libero mi regala, mi interrogo a questo riguardo, ma non mi sembra di aver fatto mai niente di male. Il mio caso è, forse, l’eccezione che conferma la regola.

 

Le storie di vita: Pasquale

Avere venti anni non è uno dei periodi migliori della vita. Ho letto questa frase in un libro e da allora mi risuona nella mente, come se fosse un’ossessione. Per una malattia neurologica le mie gambe non sono in grado di sostenere il mio corpo e né tanto meno di accompagnarmi in qualche luogo. La maggior parte della mia vita l’ho passata su di una sedia a rotelle e in questi venti anni ho avuto la sensazione di essere cresciuto, perché ho dovuto cambiare più volte le carrozzine, in base alle diverse dimensioni del corpo.

La mia mente non è stata colpita da alcun deficit e questo in certe circostanze mi dispiace, perché se le mie emozioni fossero ovattate da qualche accidente cerebrale, soffrirei di meno. In alcuni frangenti mi prende una tristezza, vedo gli altri, “i normali”, e provo quasi una forma di invidia, che mi porta ad essere scontroso e cattivo con i miei genitori, con le mie sorelle e con qualche amico che ho, perché essi camminano e io non lo posso fare. A dire la verità i miei genitori mi sostengono in ogni momento e mi aiutano a superare anche questi sbalzi d’umore. D’altra parte posso anche fare a meno delle gambe, visto che ho una carrozzina elettrica, guido l’auto e frequento l’Università. In tutti questi anni le mie sorelle e qualche amico hanno fatto a gara per spingere la mia carrozzina manuale e per accompagnarmi dove desideravo. Nei pomeriggi oziosi e vuoti penso che la mia famiglia, per via della mia disabilità, mi abbia molto viziato, dandomi tutto quello che potevo desiderare, decisamente più di quello che è stato dato alle mie sorelle.

Ho sentito spesso, di nascosto, mio padre e mia madre autoaccusarsi di avermi reso un infelice per sempre, considerato che la mia malattia dipende dal materiale genetico che entrambi mi hanno trasmesso. La loro più grande preoccupazione è per quando essi non ci saranno più. Per questo “torturano” le mie sorelle, dicendo loro che dovranno interessarsi per sempre di me. In questo modo mi fanno sentire un peso, un qualcosa di fastidioso che sarebbe bene non avere. Per rassicurarli, quando mi accorgo che sono più pensierosi del solito, dico che solitamente i genitori muoiono prima dei loro figli normali, ma questo non avviene per i figli disabili. Le statistiche affermano che i figli disabili muoiono presto, molto prima dei loro genitori. Essi mi guardano e non sanno in quel momento se ridere o piangere, rimangono molto scossi emotivamente e per questo cambiano discorso, dicono cose banali che in quel momento non hanno nessuna attinenza. Per fortuna che mi sono rimaste una dose di autoironia e una piccola vena di umorismo, che mi consentono di non prendermi troppo sul serio quando la catastrofe emotiva è in agguato.

 

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Vincenzo Amendolagine
Vincenzo Amendolagine

Medico, psicoterapeuta psicopedagogista. Insegna come Professore a contratto presso la Facoltà/Scuola di Medicina dell’Università di Bari Aldo Moro.

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