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Città specchio. Soggettività e spazio urbano in Palazzeschi, Govoni e Boine

Città specchio: ritratto psicologico di tre letterati italiani, Palazzeschi, Govoni, Boine e di come essi vivevano spazio e atmosfera della città moderna.

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 31 Gen. 2014

 

Città specchio.

Soggettività e spazio urbano in Palazzeschi, Govoni e Boine

di Francesco Capello

 

 

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Città specchio. Soggettività e spazio urbano in Palazzeschi, Govoni e BoineFrancesco Capello, che insegna letteratura italiana all’Università del Kent nel Regno Unito, tenta di dare un ritratto psicologico di tre letterati italiani, Aldo Palazzeschi, Corrado Govoni e Giovanni Boine e di come essi vivevano e descrivevano lo spazio e l’atmosfera della città moderna.

È un piacere poter recensire un libro che oscilla tra psicologia e letteratura italiana, e una letteratura oggi poco frequentata come quella dell’avanguardia dell’inizio novecento tra futurismo, crepuscolarismo e l’ambiente de ‘La Voce’, la rivista diretta da Papini e Prezzolini.

Francesco Capello, che insegna letteratura italiana all’Università del Kent nel Regno Unito, tenta di dare un ritratto psicologico di tre letterati italiani, Aldo Palazzeschi, Corrado Govoni e Giovanni Boine e di come essi vivevano e descrivevano lo spazio e l’atmosfera della città moderna. Nell’Italia dell’inizio novecento comparivano i primi esempi di paesaggio urbano moderno.

Non era certo il paesaggio tentacolare e disumano delle sterminate metropoli di oggi. E non era nemmeno il labirinto proletario e malfamato della Londra di Dickens. Però, nella Roma di D’Annunzio il paesaggio delle rovine si mescolava con una misura di modernità disumana che era già metropolitana. L’Italia agricola che durava dai tempi di Virgilio ed era arrivata fino a Verga si espandeva, e lo stesso Verga aveva pubblicato una raccolta di novelle milanesi intitolata ‘Per le vie’, in cui aveva tentato di descrivere non solo la campagna siciliana ma anche la realtà urbana.

Con Palazzeschi, Govoni e Boine siamo in un’atmosfera e un’epoca ancora più moderne. Capello utilizza la teoria psicoanalitica kleiniana per analizzare i testi dei tre autori. Una teoria particolarmente adatta a scandagliare le atmosfere cupe e irreali della città moderna. L’alienazione, il distacco emotivo, il senso di pericolo, di estraneità e di fredda aggressività legate all’esperienza urbana sono anche il colore emotivo della psicologia di Melanie Klein.

I sentimenti descritti dalla Klein per descrivere la vita mentale del bambino, sentimenti di avidità per le gratificazioni affettive e nutritive che il bambino si aspetta dalla madre, e poi di invidia e irrimediabile insoddisfazione per un nutrimento giudicato sempre insufficiente, sono utilizzati da Capello per descrivere gli stati emotivi dell’abitante della città moderna negli scritti di Palazzeschi, Govoni e Boine.

Colui che abita nella città moderna diventa un bambino kleiniano, un bambino incupito dal desiderio insoddisfatto e dal rancore verso questa madre cattiva che è la metropoli urbana fredda e inaccessibile, priva dell’umanità e del calore delle civiltà pre-moderne. Non basta. La città italiana offre una doppia alienazione, un doppio ripudio. Nella città italiana non solo la modernità pragmatica e utilitaristica maltrattano l’uomo, ma anche il peso del passato e della tradizione.

Gli italiani di Palazzeschi, Govoni e Boine non solo sono ”condannati all’esilio dalla civiltà dell’Utile, ma anche quella (di volta in volta) della Tradizione, del passato, della totalità, del Sublime, del divino” (Capello, 2013, p. 14).

Capello riesce a usare questi occhiali klieniani anche per descrivere le differenze tra i tre autori. La maschera ridente di Palazzeschi, il suo gusto per l’esperimento verbale sono un tentativo di esorcizzare la mostruosità tirannica della città, luogo terreno incapace di riconoscere l’umanità nella sua leggerezza infantile.

A lei il mio ultimo pensiero, a lei che neppure capì quello che io ero solamente: leggero leggero leggero leggero” scrive Palazzeschi nel romanzo ‘Il Codice di Perelà’ (Palazzeschi, 1911). E commenta Capello: “La città viene quindi accusata di non essere stata in grado di riconoscere Perelà per ciò che era, accogliendo senza distorcerla la sua diversa specificità” (Capello, 2013, p. 43). Così come nella ‘Passeggiata’ -la poesia più celebre di Palazzeschi-il brulicare degli stimoli della città (gli incontri, le insegne, i richiami pubblicitari, le voci) sortiscono “ un effetto claustrofobico di oppressione” (Capello, 2013, p.45). Questa oppressione, però, per Capello –da buon kleiniano- deve essere riconosciuta come interiore per essere elaborata. E questo accade nelle ultime poesie di Palazzeschi: ‘L’Ospite’, ‘I Fiori’ e ‘Una Casina di Cristallo (Congedo)’.

Insomma “L’odio, in altre parole, non deve più necessariamente essere scisso e vomitato sull’altro ma è ospite regolare dell’Io al pari dell’amore” (Capello, 2013, p. 48).

In Corrado Govoni la città è profanazione, profanazione della città antica in cui natura e cultura si avvinghiavano a vicenda come edera e muro. Le bonifiche delle paludi che allagavano la Roma papale promosse dai governi dell’Italia unita appaiono a Govoni delle profanazioni di uno spazio sacro, e gli creano un senso di vuoto che è al centro della sua poesia, “un’assenza primordiale che viene a fasi alterne e disperatamente negata e brandita” (Capello, 2013, p. 56) e che non è mai davvero risolta: “Una configurazione che, a differenza di quella palazzeschiana, non dischiude in nessuna sua fase un orizzonte autenticamente liberatorio” (Capello, 2013, p. 56).

In Govoni l’identificazione tra città profanata dalla modernità e la donna perduta è esplicita e continua, e questa identificazione conferma l’utilità dell’interpretazione kleiniana. Così come kleiniana è l’interpretazione che Capello dà di uno dei tratti stilistici più tipici della poesia di Govoni, il passaggio improvviso da toni crepuscolari, grigi e silenziosi, a esplosioni di modernità futuristica. Si tratta di una vera e propria scissione tra senso di vuoto ed “eccitazione compensativa in cui prevale nettamente lo scatto iperattivo/aggressivo (Capello, 2013, p. 87). Simili rappresentazioni scisse userà Govoni anche per poetare su Milano, Ferrara e Venezia.

L’ultimo ritratto psicologico e letterario è quello di Giovanni Boine. Probabilmente è l’autore meno noto ai lettori contemporanei. Ma è anche l’autore a cui Capello dedica più pagine e più sforzi. Giovanni Boine morì in giovane età, a soli 30 anni nel 1917 e fu autore assiduo della rivista ‘La Voce’. In Boine Capello vede una particolare complessità, una mistura d’irrazionalismo e senso di disfacimento unite a un’aspirazione spirituale e religiosa non sempre frequente nella sensibilità italiana.

Queste tensioni irrisolte sono un banchetto per Capello, che può sfogare su questa figura complessa la passione kleiniana per la scissione e la lacerazione.

Cito direttamente il libro che sto recensendo: “In prima battuta l’inesausta sete, che rinvia alla costante percezione di una carenza al proprio interno; poi la presenza altrettanto continua di un oggetto onnipotente idealizzato ma implicitamente anche persecutorio (il Dio che potrebbe placare ogni sete e che tuttavia non si fa trovare); l’impulso a fondersi o perdersi in questo oggetto (la sete di Dio è infatti anche «desiderio di mondi senza fine in cui gettarsi e vagare»); la conseguente sovrapposizione e/o reversibilità tra soggetto e oggetto (nella «complessità simultanea», per la quale «non v’è cosa a cui lo spirito mio non possa aderire», Giuditta equivale a Oloferne); la percezione di una frammentazione interna («non come organizzata persona, ma […] come rotta, commossa materia») vissuta in forma di conflitto e contraddittorietà («contraddittoria materia»); il rapporto diretto che lega la ricerca del contatto assoluto con Dio (o un «essenziale» idealizzato) alla fuga da quello con gli uomini; la concomitante svalutazione della realtà fisica e sociale, presentata come «resto» che «non […] interessa» o come «trama di carne», frustrante impedimento spoglio di senso e ridotto al grado zero della pura esistenza organica” (Capello, 2013, p. 119).

Insomma, per Capello Boine è uno scrittore difficile che vive la modernità in termini più complessi rispetto agli altri due autori. Forse è la sua tensione spirituale che gli permette accenti differenti rispetto ad altri letterati italiani che, di fronte all’alienazione moderna, rispondono con un attaccamento laico alla realtà naturale che però ha i suoi limiti, soprattutto psicologici, rischiando di ridursi a una sensualità superficiale quando non si possegga la maestria di un D’Annunzio, signore del verso italiano.

Boine, invece, riesce a visitare regioni più imprevedibili che vanno oltre la rappresentazione meramente sensuale di un passato perduto e sono prossime alla complessità del simbolismo e dello scavo interiore, o almeno a percepirle e additarle. Non si limita a un contrasto tra città e mondo pre-moderno, ma intravede una Gerusalemme Celeste dove Vita e Fede si combinano.

Certo, tutto questo resta un’aspirazione irrisolta, anche sul piano della qualità letteraria, che non raggiunge il picco dell’eccellenza assoluta.

Capello ci accompagna nella riscoperta di questo scrittore non grande, ma che possedeva in sé un’ipotesi di grandezza abbattuta dalla morte precoce.

 

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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