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Legge anti stalking: novità e criticità – Report dal convegno

Legge anti stalking: novità e criticità”: un dialogo multidisciplinare atto a ripensare gli interventi di contrasto alla violenza di genere.

Di Roberta De Martino

Pubblicato il 23 Dic. 2013

 

Una risposta alla violenza di genere?

La cura dei sistemi di convivenza.

 

Legge antistalking, Convegno Napoli Novembre 2013. -Immagine: locandinaLunedì 25 novembre 2013 a Napoli ho partecipato, come relatrice, a un convegno sulla violenza di genere dal titolo “Legge anti stalking: novità e criticità”, durante il quale si sono riuniti il Sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, e diverse figure professionali (avvocati, assistenti sociali, psicologi, giudici, giornalisti ecc.) per provare a intessere un dialogo multidisciplinare atto a ripensare gli interventi di contrasto alla violenza di genere.

Lunedì 25 novembre 2013 a Napoli ho partecipato, come relatrice, a un convegno sulla violenza di genere dal titolo “Legge anti stalking: novità e criticità”, promosso dall’avvocato Maria Giovanna Castaldo, consigliere segretario della Camera Minorile di Napoli. Durante tale incontro, intorno a un tavolo, si sono riuniti il Sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, e diverse figure professionali (avvocati, assistenti sociali, psicologi, giudici, giornalisti ecc.) per provare a intessere un dialogo multidisciplinare atto a ripensare gli interventi di contrasto alla violenza di genere. Qui di seguito proverò a riassumere i punti nodali del mio intervento, anche alla luce delle riflessioni emerse dal convegno.

Se cerchiamo su internet la parola “violenza di genere” vengono fuori numerose immagini di donne profondamente sole e dal volto livido. Strano a dirsi ma, pur essendo molteplici le rappresentazioni proposte ai nostri occhi, avremo la bizzarra percezione di essere di fronte alla medesima donna maltrattata: l’aggressore, se c’è, è sullo sfondo, lo si percepisce appena in uno sguardo, lo si vede in un braccio che elargisce uno schiaffo o, ancora, lontano intento a sbattere una porta, dopo aver compito la sua brutalità.

Ciò che manca in queste foto è la relazione che si crea tra vittima e aggressore; la sua rappresentazione in queste immagini è quasi sempre assente. Vien da chiedersi la ragione di tutto ciò. Probabilmente perché è davvero intollerabile concepire la violenza come un qualcosa che sia ascrivibile a una qualsiasi danza relazionale.

C’è chi è reo di quel gesto meschino e chi ne è vittima: la responsabilità del misfatto è da osservare, in questo rarissimo caso, con una casualità semplicistica di tipo lineare, altrimenti si rischia di rifare i tristi errori del passato, che spingevano a intravedere una corresponsabilità di quanto accaduto in gonne troppo corte o atteggiamenti femminili eccessivamente provocanti.

Eppure la relazione anche in questi casi esiste, c’è sempre, anche in queste amare storie di cronaca. Interessante sarebbe, infatti, ad esempio capire quale incastro relazionale si crei tra vittima e carnefice e in quali contesti tali fenomeni si vadano per lo più a sviluppare.

Il mio insistere tanto sulle relazioni non è dovuto solo al mio bagaglio formativo (sono una psicoterapeuta sistemico-relazionale), ma nasce anche dalla convinzione che, come sosteneva Gregory Bateson, “la relazione viene prima”. Della saggezza di quest’affermazione ne portiamo il segno sul nostro corpo attraverso l’ombelico, un piccolo ma pregnante simbolo che dà a queste premesse epistemologiche conforto e ragione, ricordandoci che noi veniamo al mondo già in una relazione. Anche il figlio meno desiderato, e magari per questo motivo abbandonato, sa che quando è nato era già in relazione con qualcuno. Pensare a quel simbolo mi regala sempre un sospiro di sollievo: mi ricorda che i problemi non sono nelle persone ma nelle relazioni che tra esse intercorrono e che, dunque, anche le soluzioni sono da ricercare lì.

E sulla scia del riconoscimento dell’importanza degli aspetti relazionali in ogni situazione, credo sia importante fronteggiare il sempre più elevato numero di casi di violenza di genere attraverso un proficuo lavoro di rete tra tutti i professionisti che di tale fenomeno si occupano, anche per fungere da opportuno modello di riferimento per quella rete amicale e familiare che pure si deve costruire intorno alla vittima. La solitudine, infatti, costituisce a mio avviso la vera violenza!

Attualmente i validi interventi che sono stati allestiti per fronteggiare e contrastare questo dilagare di violenza sono quelli relativi agli sportelli dedicati alle donne, o, ancora, quelli “di nuova generazione”, destinati agli uomini violenti, cui viene ugualmente offerta la possibilità di avere un “luogo” ove poter accedere a vissuti conflittuali non elaborati e non risolti, che sono probabilmente responsabili di quelle condotte criminali.

Relativamente alle leggi, invece, l’aspetto che in esse trova maggiore spazio è quello della repressione: l’aumento delle pene, come se ciò potesse garantire di per sé che la violenza non verrà più perpetrata. E così il nostro ordinamento giuridico vive nell’illusione, proprio come ahimè accade ad alcune donne vittime di violenza, che l’aggressore un giorno la smetterà e che l’emergenza che oggi viviamo è quella dell’ “ultima volta”. Che illusione! Occorre educare alla non violenza a partire dalle scuole, ove è opportuno realizzare un percorso educativo ed etico che promuova il benessere psicologico dei futuri cittadini e delle future comunità. Accanto alla repressione andrebbe data dunque importanza all’educazione.

Da psicoterapeuta sistemico-relazionale mi sono sforzata di leggere il fenomeno della violenza di genere da un punto di vista più allargato, che arrivasse a includere il contesto nel quale oggi tanto essa si esplica: quello della crisi. Crisi che nel nostro Paese è qualcosa che va ben al di là dei meri aspetti economici. 

Tempo fa mi ha colpito molto quanto osservato da una mia collega argentina che, dopo avermi ricordato che anche nel suo Paese una forte crisi c’era stata, ha precisato che i suoi connazionali non hanno mai perso il sorriso e la voglia di ballare, “voi siete tristi, questa crisi ha toccato le vostre identità”.

Ho riflettuto a lungo su quanto da lei saggiamente sottolineato e mi sono ritrovata a pensare che, probabilmente, avesse ragione. Se ci fate caso la seconda domanda che segue un “come stai?”, che un qualsiasi amico o conoscente ci rivolge a un incontro fortuito per strada, è seguita da un: “il lavoro come va?” Domanda dolente di questi tempi che mette in seria discussione il nostro senso d’identità, perché sì noi italiani o, meglio ancora, noi occidentali, abbiamo finito, forse, con il far coincidere il nostro senso d’identità con lo status sociale. C’è dunque da chiedersi quanto tutto questo abbia potuto incidere su questo spaventoso incremento dei casi di violenza di genere se, come diceva Goethe, «chi è nell’errore compensa con la violenza ciò che gli manca in verità e forza».

Diversi studi hanno indagato i modi della violenza esercitata e minimizzata dagli uomini. Questi ultimi giustificano le loro azioni in quanto ciò consente loro di dimostrare di essere uomini (Hearn 1998, p,37). Le identità maschili sono costruite  attraverso atti di violenza e attraverso la narrazione delle stesse. Anderson e Umberson (2001), per esempio, riportano una varietà di modi in cui i resoconti degli uomini violenti sono reputati performance di genere” (pag 126 di “Sono caduta dalle  scale”- i luoghi e gli attori della violenza di genere a cura di Caterina Arcidiacono e Immacolata Di Napoli 2012 Franco Angeli Milano)

E se fosse questa indeterminatezza identitaria che spinge ancora di più a essere violenti verso tutto ciò che è diverso, nella speranza che per lo meno in quella folle contrapposizione si trovi un’identità? La stessa identità che, poi, il molestatore fa perdere anche alla donna vittima di violenza che, offuscata dal terrore psicologico e fisico che sovente vive, finisce con il dimenticarsi chi sia, quali siano i propri sogni, i propri desideri, smettendo di immaginarsi un futuro possibile, completamente catturata dal presente orribile. Dunque, forse, le immagini da me trovate su internet, e di cui parlavo all’inizio, colgono proprio questa indeterminatezza identitaria della vittima e dell’aggressore?

Ad aggravare la situazione sono poi i mass media, spesso dei veri “stalker della società”, pronti a ricordare, per fare notizia, che la vita, quando meno te lo aspetti, può cambiare tragicamente (omicidi familiari, attentati, incidenti disastrosi ecc.) e che spesso a tutto questo non c’è rimedio, come ad esempio quando raccontano storie di donne vittime di violenza, che sono state uccise nonostante le frequenti segnalazioni effettuate alle forze dell’ordine. Vien da chiedersi quante donne rischino di inibirsi di fronte a tali sconfortanti notizie di cronaca, quale devastante senso di precarietà possa regalare ascoltare informazioni tanto angoscianti a una donna che si trova, poiché vittima di violenza, già in una situazione di estrema fragilità. Non sarebbe più opportuno dare maggiore lustro e visibilità a pratiche d’intervento positive che possano far riacquistare senso di fiducia e di empowerment?

Dopo aver evidenziato le “criticità” vien dunque da chiedersi quali soluzioni occorrerebbe proporre, quali “novità” apportare agli interventi già in atto. Forse il primo aspetto da recuperare è quello della storia della vittima di violenza in modo che la donna recuperi quell’importante senso d’identità che, andando al di là del terribile abuso subito, la rimetta in contatto con il proprio progetto di vita: solo così potrà, infatti, riprogrammare la propria esistenza e rispettare di più la propria persona, sottraendosi a quell’impietosa prepotenza.

Un altro aspetto importante è poi quello di recuperare un sano rapporto con le Istituzioni, che non devono apparire ai cittadini come qualcosa di lontano e noncurante ma come un’importante strumento per vedere riconosciuti i propri diritti e per far sentire la propria voce. A tale scopo occorre lavorare proprio su quella rete di relazioni professionali, di cui discutevo all’inizio, affinché si riesca a superare il pericoloso senso di solitudine di cui la violenza si nutre. E’ assurdo, ad esempio, oggigiorno pensare che le case di accoglienza per le vittime di violenza siano presenti in un numero talmente esiguo da non permettere a molte donne di allontanarsi dal proprio carnefice dopo aver effettuato la denuncia.

E poi… cos’altro fare? Ripensare i contesti di convivenza perché udite udite chi pratica violenza non vive sulla luna ma nel nostro pianeta ed è in relazione con noi, per quanto ciò ci possa sembrare strano. Prendersi cura dunque dei sistemi di convivenza, vuol dire prendersi cura delle relazioni e con esse della possibilità che la violenza si estingua. Sensibilizzare su quest’argomento, allestire contesti di riflessione sulle pratiche d’intervento, come il convegno promosso dall’avvocato Castaldo, queste sono valide strategie per contrastare questo increscioso fenomeno, che con la sola repressione ben poco rischia l’estinzione.

“Il fenomeno della violenza e del maltrattamento alle donne non è ancora riconosciuto come un grave problema sociale: esso è inserito nel Piano Socio Sanitario Regionale, ma senza indicazioni di tempi, luoghi, strumenti, competenze, poteri risorse per una sua corretta e concreta presa in carico” (pag 166 di “C.A. DO. M Rompere il silenzio- l’esperienza del centro Aiuto Donne Maltrattate 2005 Franco Angeli, Milano) e questo costituisce davvero un pericoloso problema perché ciò non consente, a mio avviso, di fare un costruttivo e ponderato lavoro di prevenzione, ove per prevenzione intendo più precisamente un lavoro di promozione del benessere psicologico.

Vi racconto un episodio. Anni fa ero responsabile di un progetto di inclusione sociale in una scuola elementare nell’hinterland napoletano. Il più terribile dei bambini  prendeva puntualmente a pugni e a calci gli operatori, specialmente quando questi gli impedivano di fare il “delinquentello”. L’unica a non essere mai stata malmenata ero io, forse perché, come responsabile del progetto, ero considerata “il boss della situazione”. Un giorno, però, Salvatore (userò un nome di fantasia), dopo l’ennesima violazione di una regola, venne da me messo in severa punizione. La cosa non gli andò giù, per cui decise che era giunto anche il mio turno: le avrei prese! Era arrabbiatissimo e mi si avvicinò con fare da bullo e minaccioso, in quel momento non sapevo cosa fare, si ero una psicologa, all’epoca quasi psicoterapeuta, ma nessun libro di psicologia o di psicoterapia mi avrebbe mai potuto fornire una risposta corretta su come intervenire, attinsi così alla mia integrità, alla mia verità, non volli fingere. Spaventata chiesi al piccolo Salvatore, prima che mi mollasse un terribile calcio, di appoggiare la sua mano sul mio cuore per sentirne il battito accelerato dalla paura che nutrivo per lui. Non dimenticherò mai l’espressione del suo volto, pronto com’era a darmi un calcio, decise di abbandonare quella malvagia espressione per sorridermi e venirmi in braccio. Non c’era più spazio per le “mazzate”, solo per le parole: ci calmammo, entrambi. Nella mia paura Salvatore si era riconosciuto! Qualche momento dopo mi chiese cosa avrebbe dovuto fare Nicola (un suo amichetto) visto che la madre gli suggeriva sovente di pestare chiunque gli mancasse di rispetto mentre io ogni giorno mostravo a lui e agli altri bambini, in quel progetto, un modo diverso di affrontare la rabbia: attraverso le parole, il dialogo.

Ricordo che felice sorrisi, avevo capito che Salvatore parlando di Nicola stava parlando di sé, e mi trovai a rispondergli che gli stavo semplicemente mostrando un altro modo di stare nel mondo, di stare in relazione con gli altri, sarebbe stato poi “Nicola” a scegliere ogni volta quale comportamento adottare, se il mio o quello suggerito dalla madre (e dal quartiere). Salvatore mi sorrise rasserenato.

Quel progetto durò pochi mesi. Ancora mi chiedo se poi quel ragazzino oggi abbia davvero in memoria, nel suo cuore, quella possibilità di scelta e mi arrabbio quando penso che forse una maggiore continuità a quel progetto avrebbe potuto garantire a lui e a tutti noi un domani migliore.

Certo, interventi che siano attenti alla cura dei sistemi di convivenza, richiedono tempo, un lento e laborioso insieme di azioni che lentamente, germoglio dopo germoglio, vedano crescere e svilupparsi una cultura di pace.

Così recitano i personaggi di “Questa storia” di Alessandro Baricco:

«Lo sa come si fa a riconoscere se qualcuno ti ama? Ti ama veramente, dico?»

«Non ci ho mai pensato.»

« Io si»

«E ha trovato una risposta?»

«Credo che sia una cosa che ha a che vedere con l’aspettare. Se è in grado di aspettarti, ti ama.»

Beh se amiamo questa causa, se la amiamo veramente, allora dobbiamo imparare ad attendere e allestire contesti in cui gli interventi di promozione del benessere psicologico possano trovare spazio: con la consapevolezza che se sapremo aspettare vedremo lentamente  sbocciare dei frutti molto più succosi e consistenti.

LEGGI:

VIOLENZA ABUSI & MALTRATTAMENTICONGRESSI – STALKING

 

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Roberta De Martino
Roberta De Martino

Psicologa - Spec. in Psicoterapia Sistemico-Relazionale

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