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Leadership negli Sport di Squadra Pt.9 – Professionisti e Giovanili

Leadership negli Sport: l’allenatore professionista raccoglie, l’allenatore del settore giovanile semina e il buon allenatore sa fare entrambe le cose.

Di Gabriele Caselli

Pubblicato il 05 Nov. 2013

 

 

Leadership negli Sport di Squadra #9:

I leader nei professionisti e i leader nelle squadre giovanili

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

 

Leadership negli Sport di Squadra #9- professionisti e giovanili. -Immagine: © lilufoto - Fotolia.comL’allenatore della squadra professionista deve “fare punti” basandosi sulla legge secondo la quale “il fine giustifica i mezzi” e cercando di farla coniugare con il rispetto per la personalità dei giocatori.

Al contrario chi allena una squadra il giovanile non deve concentrarsi su alcuna classifica ma deve possedere le qualità per ottenere buoni atleti, per questo i risultati e le soddisfazioni non vengono nell’immediato ma nel futuro dei componenti della squadra.

Fino ad ora l’attenzione è stata posta sulle funzioni e sulle caratteristiche dei leader nello sport professionistico. Esistono importanti differenze, sia per il leader istituzionale che per quello intimo, se l’ambito sportivo considerato è quello giovanile.

Per l’allenatore le condizioni in cui lavora e i compiti che deve svolgere, come evidenzia Mazzali[1995], risultano ben diversi. Questo avviene perché, di per sé, le due tipologie di società (professionista e giovanile) hanno obiettivi diversi in partenza.

In particolare le società professionistiche devono far crescere talenti e ottenere risultati per motivi principalmente economici, mentre lo sport giovanile si deve porre finalità sociali ed educative.

Per questo motivo anche il ruolo dell’allenatore-leader cambia (fermo restando che, secondo l’autore, un buon allenatore sa ottenere risultati a entrambi i livelli), perché diverse sono le richieste.

L’allenatore della squadra professionista deve “fare punti” basandosi sulla legge secondo la quale “il fine giustifica i mezzi” e cercando di farla coniugare con il rispetto per la personalità dei giocatori.Egli ricerca risultati nell’immediata prestazione dei suoi atleti e accetta, perché anche queste sono “regole del gioco”, di dover essere (ovviamente entro certi limiti) “egoista e spietato” [Mazzali, 1995].

Al contrario chi allena una squadra il giovanile non deve concentrarsi su alcuna classifica ma deve possedere le qualità per ottenere buoni atleti, per questo i risultati e le soddisfazioni non vengono nell’immediato ma nel futuro dei componenti della squadra.

Può valere quindi la metafora di Mazzali per cui l’allenatore professionista raccoglie, l’allenatore del settore giovanile semina e il buon allenatore sa fare entrambe le cose. Ciononostante esistono tecnici puri, che non hanno le capacità per far crescere il talento di un giocatore e ottengono risultati solo se si trovano in una realtà sportiva dove questo è già stato fatto emergere, e allenatori insegnanti, a cui manca la spregiudicatezza per raccogliere i frutti del loro lavoro positivo.

Per quanto riguarda il capitano, nel momento in cui si prende in considerazione l’ambito giovanile il discorso cambia notevolmente. Anche nelle squadre di giovani può esistere e costituirsi la figura di un leader intimo il quale però deve mantenersi, sia per esperienza e sia per conoscenza della materia, completamente subordinato all’allenatore. Questa condizione, che lo rende un leader limitato all’ambito socio-relazionale, risulta essere un beneficio sia per lui che per gli altri membri della squadra.

Se non viene contrastato, anche rigidamente, un eventuale suo dominio sulla squadra può provocare in lui un senso di sopravvalutazione che rischierebbe di fare perdere al giovane condottiero l’umiltà necessaria per conoscere i propri limiti, per riconoscere l’autorità dell’allenatore e, quindi, per poter migliorare sé stesso, crescendo [Mazzali, 1995].

Allo stesso modo gli altri giocatori crescerebbero come atleti senza abituarsi a prendere i propri rischi e le proprie responsabilità, abituati ad appoggiarsi in ogni momento di difficoltà della prestazione a qualcuno ritenuto più esperto o più abile.

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Gabriele Caselli
Gabriele Caselli

Direttore scientifico Gruppo Studi Cognitivi, Professore di Psicologia Clinica presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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