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“Salò o le 120 Giornate di Sodoma”: il Macabro Apologo – Recensione

Salò” si pone, per Pasolini, come un macabro apologo. Masturbazione, travestimento, voyerismo, occupano tempo e pensieri dei quattro signori della morte.

Di Nicola Velotti

Pubblicato il 11 Giu. 2013

Aggiornato il 02 Lug. 2019 12:57

 

Recensione

SALO’ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA

di Pier Paolo Pasolini

 

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Salò o le 120 Giornate di Sodoma“ Salò” si pone, nella produzione pasoliniana, come una sorta di metafora dell’impotenza al potere, come una ritualizzazione mondana della trasgressione, come un macabro apologo. Masturbazione, travestimento, voyerismo, coprofagia, occupano tempo e pensieri dei quattro signori della morte.

Esso può sembrare un film monotono, ripetitivo, a suo modo didascalico, e perfino moralistico. Moralistico come, necessariamente, diventa una rappresentazione che cerchi di ricalcare la struttura dell’inferno.

Pasolini, in questo film, presenta un quadro sistematico delle perversioni, sul modello del racconto di Sade.

I protagonisti, fruitori di queste che vorrebbero essere delle raffinatezze erotiche, per acuire ed esaltare il godimento, sono quattro rappresentanti del potere, posti in un’epoca identificata con la repubblica di Salò. Essi provano queste situazioni perverse, guidati da tre donne, le narratrici, le quali, smaliziate fin dall’infanzia, sono divenute ora esperte ruffiane, profonde conoscitrici di ogni segreto dell’erotismo.

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In “Salò” vi sono accennati soltanto due rapporti normali: quello, appena abbozzato, dei due fanciulli sposi per scherzo, in cui l’amplesso viene impedito come qualcosa di proibito, e quello clandestino della servetta negra, che si conclude con l’uccisione immediata dei colpevoli. Il sesso vero, dunque, nel film non esiste, ci sono soltanto le sue caricature: le perversioni.

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In Salò non c’è sesso, c’è solo la morte del sesso. I protagonisti o sono impotenti nel rapporto normale o lo sostituiscono con il voyerismo, l’esibizionismo, il feticismo; oppure riescono ad avere un rapporto soltanto con individui specifici alla propria perversione. Si attua dunque una specializzazione, anche se in ciascuna perversione permangono elementi delle altre.

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I quattro fruitori non sembrano avere delle preferenze particolari, essi vogliono provare ogni forma di sessualità perversa e, ispirati dalle tre narratrici, le sperimentano con frequenti ripetizioni, con varie modalità, fino a giungere ad una strage finale.

Nonostante ciò i comportamenti perversi non sono stabilizzati, anzi potremmo dire, parafrasando Musatti, che si assiste ad una disposizione polimorficamente perversa. L’espressione “polimorfismo perverso” è propria della sessualità infantile. Per questo motivo i personaggi del film, anziché essere degli amatori raffinati, vogliosi di provare tutto per godimenti sempre maggiori, risultano degli individui assolutamente immaturi, rimasti ad uno stadio infantile caratterizzato da una curiosità che non arriva ad appagarsi.

In tutto il film prevale un unico organo genitale: il fallo. La supremazia del fallo è propria della fase evolutiva che Freud chiama fallica. I personaggi sembrano fissati a questo stadio nel quale il bambino non conosce ancora la differente costruzione dei sessi; un esempio è rappresentato dalla scena della scelta del più bel didietro, dove fanciulle ed efebi, mescolati insieme, sono veduti di schiena nudi in ginocchio, in modo che non si distinguano i maschi dalle femmine.

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Questa immaturità è confermata dal fatto che nel film non vi è conclusione; c’è sì una melanconica scena finale di due ragazzi che ballano, ma una conclusione vera e propria non esiste, così come avviene nella realtà in ogni forma di sessualità perversa o deviata nell’oggetto.

 In “Salò” soggettivo ed oggettivo, in precedenza tenuti separati nell’intera  produzione filmica pasoliniana, si ricompongono come una massa compatta, senza alcuna possibilità di riscatto e, ancor meno, senza alcuna sublimazione.

Infatti esso segna un autentico taglio epistemologico. Non più il mondo da un lato e la coscienza infelice dall’altro, ma bensì una scrittura e una concezione che abbracciano tutto, i dettagli come l’insieme.

Una scrittura e una concezione che metaforicamente rimuove ogni speranza implicando tutti nel tetro universo che descrive e che preclude un qualunque alibi e conforto anticipando tragicamente la sua prematura  fine.

 

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