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“Incontro Ravvicinato del Terzo Tipo”: Cliente vs. Terapeuta

L’inizio di un percorso terapeutico è l’incontro di due mondi differenti; un processo in cui si passa dall'essere estranei all’essere “compagni di viaggio”.

Di Annalisa Bertuzzi

Pubblicato il 03 Giu. 2013

Aggiornato il 20 Nov. 2013 13:05

 

Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo: Cliente vs Terapeuta . Immagine: © africa - Fotolia.comCosa succede quando il cliente e il terapeuta si incontrano? L’inizio di  un percorso terapeutico è l’incontro di due mondi differenti; si attiva un processo in cui si passa da uno stato di estraneità reciproca all’essere “compagni di viaggio”.

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Essere estranei descrive la situazione in cui due persone non si conoscono: non sanno nulla dei propri pensieri, delle intenzioni che hanno l’una rispetto all’altra, del modo in cui considerano il loro entrare in relazione e del modo in cui intendono contribuire al rapporto che si sta creando (Carli, Paniccia, 2003).

È necessario, quindi, che gli estranei imparino a conoscersi e a comunicare tra loro, elaborando un linguaggio comune. Proprio a causa del fatto che la condizione iniziale è di non conoscenza, bisogna affrontare e superare il rischio che entrambi gli interlocutori si facciano condizionare da stereotipi o pregiudizi privi di fondamento: dato che non c’è ancora stato uno scambio comunicativo fonte di informazioni reciproche, il contatto con l’estraneo è il contatto con l’ignoto.

Una buona premessa per accedere ad un processo conoscitivo si identifica con il prendere atto, da parte di entrambi gli interlocutori, della reciproca diversità, la quale rappresenta un “punto di partenza per riconoscere l’estraneità dell’altro” (Carli, Paniccia, 2003, 80); ciò perché il riconoscere che l’altro è un’entità distinta così come lo siamo noi permette di realizzare uno scambio tra il suo e il nostro mondo.

Se non siamo in grado di riconoscere l’alterità dell’altro, non possiamo entrarci in relazione: l’unico tipo di rapporto non basato sull’alterità e sullo scambio è quello che si attua con il possesso, ossia con l’illusione di “possedere l’altro”, inglobandolo come estensione di sé, senza riconoscerne lo status di essere distinto, con le proprie caratteristiche e la sua individualità.

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Riportando ciò nel setting terapeutico è importante, nel porre le fondamenta di un cammino psicoterapico, che sia il terapeuta che il cliente prendano le misure, imparando a conoscere e a farsi conoscere, ciascuno nell’ambito del proprio ruolo all’interno della relazione.

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In base alla compatibilità tra cliente e terapeuta si creerà una relazione che funzionerà bene per un dato cliente in una certa situazione; grazie all’alleanza, ossia alla capacità, da parte dei due componenti della diade terapeutica, di collaborare in vista di un obiettivo comune concordato insieme, il percorso procede.

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Per quanto riguarda l’efficacia del percorso terapeutico, l’instaurarsi di una soddisfacente relazione tra cliente e terapeuta rappresenta un elemento fondamentale; è importante che esista un buon grado di sintonia iniziale, che, però, non degeneri in un eccesso di iper-identificazione: deve essere sempre chiaro che si tratta del confronto tra due identità distinte.

La visione del mondo del terapeuta si riallaccia alla storia della sua vita; se è vero che le persone che condividono un retroterra affine possono, in principio, trovare più facilmente un’intesa, è anche vero che, a lungo termine, ciò potrebbe ostacolare un reale cambiamento terapeutico, congelando il rapporto terapeutico in una dinamica di rispecchiamento.

Le storie personali del cliente e del terapeuta influenzano la loro capacità di creare una solida alleanza terapeutica: entrambi sono portavoce di una propria visione del mondo ed entrambi apportano il loro patrimonio di convinzioni, valori, aspettative e bisogni (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2004).

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In questo quadro, la condizione ottimale sembra essere un background simile ma non troppo, in modo che l’empatia non ceda il posto ad una eccessiva uniformità di vedute; ciò potrebbe  porre le premesse per una terapia troppo statica, in cui la comprensione e l’affinità concorrono a creare una situazione stagnante, invece di contribuire alla crescita e di aiutare il cliente a sviluppare le proprie potenzialità evolutive.

Al terapeuta è richiesta la capacità di destreggiarsi in modo flessibile tra le polarità antitetiche della vicinanza e del distacco, dell’affinità e della differenza, in modo tale che la relazione terapeutica abbia dei sani confini; in altre parole, il ruolo terapeutico si identifica con il creare una distanza ottimale rispetto al cliente, che permetta di rispecchiare il cliente  e di essere “empatico, intuitivo, capace di mettersi dal punto di vista dell’altro” senza perdere di vista la propria diversità  (Lis, 1993, 18).

 In sintesi, il terapeuta dovrebbe essere in grado di comprendere la visione del mondo del paziente e, contemporaneamente, di proporgli una differente esperienza di sé nella relazione terapeutica; in questo modo si origina una nuova visione del mondo e la terapia diviene strumento di effettivo cambiamento.

La premessa di fondo è che ciò che spinge ad intraprendere un percorso terapeutico non è tanto il desiderio di rileggere il passato, quanto piuttosto di superare il senso di insoddisfazione attuale per conseguire un futuro migliore. 

Cosa significa concretamente? Che il cambiamento è desiderato, ma anche temuto, perché implica il modificare le proprie abitudini e il modo di rappresentare la realtà utilizzato fino a quel momento.

Il terapeuta è  chiamato ad essere, per il cliente, strumento per contattare il diverso, il nuovo, che, una volta conosciuto, non fa più tanta paura; solo così la vita si apre a nuovi scenari e possibilità.

 

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Annalisa Bertuzzi
Annalisa Bertuzzi

PSICOLOGA PSICOTERAPEUTA AD INDIRIZZO UMANISTICO - INTEGRATO

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