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Storie di Terapie #25 – L’Uscita di Carlo Parte 2

Storie di Terapie #25 Parte II - L'uscita di Carlo: Carlo non si sentiva. Era sordo alle sue emozioni e persino alle sensazioni fisiche.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 13 Mag. 2013

Aggiornato il 18 Feb. 2016 15:19

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso

-LEGGI L’INTRODUZIONE-

 

Storie di Terapie #25

 L’uscita di Carlo – Parte 2

Questa settimana la seconda parte del caso di Carlo.

LEGGI LA PRIMA PARTE 

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Storie di Terapie #25 - L'uscita di Carlo Parte II. - Immagine: © Piumadaquila - Fotolia.com • Disturbo distimico

• Disturbo evitante di personalità

• Suicidio

Alla lunga questo tentativo di essere sempre “come tu mi vuoi”  lo aveva trasformato in un individuo senza un suo baricentro, propri punti di vista, desideri o certezze. Antenne sensibilissime lo sintonizzavano sulle aspettative altrui, di cui si appropriava prima che le sue fossero anche solo abbozzate.

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Non dimenticherò facilmente il giorno in cui venne di corsa al mio studio, preceduto da una sconclusionata telefonata, per chiedermi una terapia. Era la prima volta che ammetteva un disagio personale, non nascondendosi dietro quello dei pazienti. Era febbraio, diluviava e il suo solito completo di velluto zuppo impregnava lo studio di odore di umido. La sua prima moglie lo aveva lasciato, stanca dei suoi innumerevoli tradimenti e, soprattutto, improvvisamente consapevole, dismessi gli occhiali dell’innamoramento, della sua pochezza. In quel periodo ebbi l’impressione  che sentisse effettivamente qualcosa e che quel dolore lo compattasse e gli donasse qualche istante di autenticità. Gli ingredienti che bollivano nel melmoso pentolone del dolore erano molti.

La tristezza per la perdita dell’oggetto d’amore era l’ingrediente più superficiale, ovvio e facile da esporre.

Il più consistente era la colpa per essere stato la causa dell’abbandono che, a mio avviso, richiamava  una colpa storica più profonda relativa alla morte della madre forse causata dalla sua gravidanza vietata dai medici. Lui accettò di buon grado questa mia interpretazione, ma penso fosse solo per compiacermi e che invece non l’abbia mai sentita reale. Tutto ciò che riguardava la madre era assolutamente assente dalla sua vita emotiva e costituiva solo un oggetto di speculazione teorica fredda, che lo aveva spinto anche ad interessarsi professionalmente di attaccamento, forse un modo per dire dell’importanza di quella perdita che non sentiva affatto.

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Ma l’ingrediente più abbondante che univa il tutto era la paura: Carlo era stato, per tutta l’esistenza, soprattutto spaventato. E’ la paura la chiave di lettura che meglio dava ragione delle sue scelte e costituiva il filo conduttore della sua vita.

La paura era poi accompagnata dalla vergogna per la paura stessa. Insistevo con lui perché desse un contenuto a questa fedele compagna, ma riusciva con difficoltà a precisare cosa temesse. La rappresentazione che sentiva più plausibile era la sconfitta umiliante, da parte di qualcuno più forte di lui, che lo batteva di fronte a tutti e lo cacciava via, prova questa di quanto in lui fosse attivo il sistema agonistico nonostante lo negasse in tutti i modi.

Sconfitto, umiliato e solo: questo era l’inferno da cui Carlo ha tentato per una vita di scappare. Durante l’adolescenza non si era fatto mancare un disturbo ossessivo compulsivo impegnativo che lo costringeva a ritirarsi in disparte per recitare lunghe formule rituali atte a garantirgli di aver fatto tutto secondo le regole e dunque di non avere colpe che gli avrebbero meritato l’ostracismo.

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Certamente Carlo rientrava nel gruppo degli psichiatri che scelgono questo mestiere per esorcizzare la paura della follia e per convincersi di essere sani, senza esserci mai riuscito del tutto. Inoltre, gli garantiva di vivere le vite degli altri non potendo farlo con la propria. Aveva una discreta formazione teorica e, come detto, un’ innata capacità di sintonizzarsi sull’altro. Il suo grande limite è sempre stato l’incapacità di essere consapevole di se stesso, aveva la stessa autoconsapevolezza di una panchina, anche di guardarsi dentro aveva paura.

La sua vita affettiva era stata sparpagliata. Facile all’innamoramento, aveva corteggiato moltissime donne, ma rifuggiva sistematicamente da relazioni profonde. Si raccontava, ma non agli altri, di temere il fallimento sessuale ma io credo temesse la delusione sul volto dell’altro alla scoperta della sua assenza.

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Carlo aveva l’impressione che nella sua esistenza ci fossero state due fratture, due discontinuità. La prima, più grave, era avvenuta nei primi anni dopo la brillante laurea in medicina e la specializzazione in psichiatria, proprio al tempo in cui feci la sua conoscenza come geniale allievo. Fino a quel momento Carlo era stato una grande promessa: si presentava estroverso, traboccante di energie, altruista, allegro, sempre vincente senza desiderare di esserlo, ricercato e persino affascinante. Ma soprattutto, fino ad allora, si sentiva effettivamente tale, non solo appariva così, era convinto di esserlo veramente. Fu in quegli anni che iniziò lo scollamento tra l’immagine pubblica e il vissuto interiore, che forse solo oggi con il suicidio si è ricomposto. Abbiamo ragionato per ore con lui su quale possa essere stato il motivo di questa “dissecazione” (la prima delle due dissecazioni che hanno segnato la sua esistenza) tra immagine e interiorità che è stata la cifra della sua restante sopravvivenza dopo di allora. Gli eventi che più saltano agli occhi in quel periodo sono due: la rinuncia ad un innamoramento idealizzato e mai concretizzato e la fine del proprio matrimonio. Carlo sosteneva di aver sofferto moltissimo per questi due accadimenti, al punto di essersi anche ammalato fisicamente, eppure non ho mai creduto fossero decisivi. In fondo si trattava di perdite ed era ben attrezzato per gestirle con la dissociazione. Si aggiunga che la fine effettiva del matrimonio ha inaugurato poi un nuovo matrimonio e l’ormai insperata esperienza della paternità. Forse, per la prima volta, Carlo ha sperimentato la sicurezza nei legami affettivi minacciata solo dall’imprevedibile morte.

Quello che invece io ho ritenuto causa del vissuto di estraneità con se stesso, nonostante Carlo non fosse d’accordo, è un evento apparentemente positivo quale la nascita, in quel periodo, di un legame affettivo profondo e duraturo. Pur modificandosi nella forma, questo legame ha accompagnato Carlo fino all’odierno congedo. Ho sempre pensato che il motivo della prima sua frattura esistenziale fosse proprio stato questo rapporto che, essendo con una collega molto conosciuta e vicina alla famiglia, lo aveva portato a vivere nella menzogna  e a sentirsi falso e colpevole in ogni sua manifestazione. Era da quel primo rapporto sessuale trasgressivo e adulterino che aveva iniziato a non sentirsi più quello che gli altri credevano fosse e lui stesso aveva creduto essere fino a quel momento. Si trattava di una storia inammissibile, vergognosa, inconfessabile, contraria a tutto quanto professato da Carlo in termini ideali e perciò estremamente attraente e irrinunciabile.

 Iniziò a fare sistematicamente finta anche nei contesti più privati, dalla mattina alla sera. Fu allora che Carlo progressivamente rinunciò alla sua interezza, era talmente immerso nella menzogna che perse di vista la verità, la falsità si appropriò di lui come un processo inarrestabile ed irreversibile. A furia di ingannare gli altri confuse se stesso e perse il sentiero della sua promettente identità. Credo davvero che allora, non oggi, perdemmo una bella persona. Divenne rinunciatario e debole, non si sentiva più legittimato ad affermare ed imporre le sue idee, sentiva di doversi nascondere e tacere, il tradimento gli aveva tolto tutti i diritti. Come poteva affermare qualcosa da un pulpito così vergognosamente screditato? Più volte negli ultimi anni Carlo aveva pensato di fare outing, nella speranza di riconquistare così quel senso di autenticità dolorosamente perduto ma io lo sconsigliavo per due motivi. Intanto la falsità, indipendentemente dai motivi per cui era stata inizialmente adottata era ormai diventata l’abito sotto il quale, forse, non c’era più il giovane Carlo di belle speranze ma piuttosto il nulla. Non sapeva far altro che fingere e non poteva che continuare. Inoltre la rivelazione avrebbe cambiato anche la vita della sua amante, che non ne aveva alcuna intenzione. A proposito, credo che lei solo oggi, chinandosi a baciare sulla bocca Carlo adagiato sul raso azzurro che riveste l’interno della bara, abbia tirato un sospiro di sollievo che la ricompensa in parte del dolore di una vedovanza da vivere in silenzio, a dare e non a ricevere le condoglianze.

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Solo al  termine della sua esistenza Carlo intuiva quanto questa storia d’amore e di menzogna avesse deviato  il corso della sua vita e come la patina di inautenticità che avvolgeva tutto fosse il prezzo pagato per quella trasgressione inconfessabile mai perdonatasi.

La seconda frattura della sua vita c’era stata a cinquanta anni, anche questa a motivo di una dissecazione, ma più fisica. Era stata la carotide interna destra a dissecarsi improvvisamente, a monte della diramazione dell’arteria cerebrale media. Tutto era avvenuto in una manciata di secondi che avrebbero lasciato una traccia indelebile. Con accento da telecronista amava raccontare l’evento: “L’arteria carotide interna destra si collassa e si chiude. Il circolo di Willis tenta un compenso con l’arteria vertebrale posteriore ma non è in buone condizioni e non ce la fa. Tentativo lodevole ma fallito. I neuroni di un’ampia zona dell’emisfero destro annaspano senza ossigeno, inviano gli ultimi segnali e si tacciono per sempre”, precedendo di una decina d’anni l’odierno destino di tutti gli altri. Carlo passa nel volgere di pochi minuti dalla condizione di ottima salute, all’imminente rischio di morte che i medici indicano persino come la soluzione migliore, allo stato di handicappato, storpio, spastico o, come si dice oggi, diversamente abile.

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Fu proprio dopo l’uscita dall’ospedale, quando finita la festa per il pericolo scampato si trattò di fare i conti con la nuova condizione di disabile, che Carlo mi chiese per la seconda volta un vero e proprio intervento terapeutico. Ora poteva permetterselo. La malattia per certi versi lo aveva migliorato. Con il danno subito gli sembrava di aver saldato le colpe che si portava appresso e iniziò a permettersi  piaceri, comodità e attenzioni che prima si negava. Inoltre il forzato rallentamento che aveva subito la sua attività permetteva un ritmo più umano, con beneficio anche delle persone che aveva intorno. La smaniosa maniacalità era nell’azione frenata dall’handicap sicuramente fisico, ma a suo dire anche mentale, che ne aveva ridotto l’efficienza di un buon 25%. Dall’autonomia coatta di cui andava fiero prima era stato sbalzato in una assoluta dipendenza, inizialmente per tutte le funzioni più elementari, ma poi comunque era rimasto incapace di vivere da solo. Questo aveva peggiorato alcuni aspetti del suo carattere. Era diventato invidioso e cattivo con chi stava bene e ancor più competitivo e sleale, quasi che a risarcimento del danno subito potesse permettersi tutto. La carogna che sapevo essere in lui non esitava più  a mostrarsi, malvagio a pieno diritto.

I mesi trascorsi nelle mani dei curanti avevano sviluppato ancora di più se possibile il meccanismo dissociativo: lasciava lì il corpo e se ne andava. La mente ronzava a vuoto, senza riuscire a mettere a fuoco che i dettagli insignificanti di un eterno presente senza passato, nè progettualità.

La paura di tutto, antica compagna in particolare dell’umiliazione, aveva trovato nuovi  convincenti argomenti. Se era stato colpevole un tempo nascere e poi tradire, ora era ulteriormente colpevole essere sopravvissuto appesantendo l’esistenza degli altri. Viveva nella fatica dell’affrontare la vita quotidiana e nel terrore che un altro ictus lo privasse della parola e delle capacità cognitive, ma non tanto da renderlo inconsapevole.

Anche il rapporto con me era diventato più difficile e sentivo la sua invidia e persino il suo odio velenoso, non mi perdonava la salute. Tante volte ha tentato di estorcermi la promessa di un mio intervento pietoso nel caso si fosse trovato in condizioni di non poter da solo porre fine alla sua esistenza. Avevo un bel da fare ad argomentare che l’indebolimento del corpo con la vecchiaia ci riguarda tutti e occorre farsene una ragione, scoprendo le positività di un’età senza più le apprensioni per il futuro. Carlo che aveva pensato alla vecchiaia e alla morte sin da ragazzo era in realtà del tutto smarrito. Mi meravigliavo moltissimo di come fosse impreparato alla vecchiaia, come un’ ex bella donna non tollerava la decadenza di quel corpo cui sembrava non avere dato alcuna importanza. Un conto erano le chiacchiere sulla vecchiaia quando si è forti e belli, altro la realtà di un corpo in degrado che diventa inutile e sgradevole. Sentiva che nessuno lo avrebbe cercato per come era ora, nè il suo corpo, nè la sua mente erano attraenti per gli altri. Chi aveva intorno restava in nome di ciò che era stato nel passato.

Anche lamentarsi di ciò lo riteneva ingiusto, chi si credeva di essere per non invecchiare, puzzare, essere compatito, accantonato e poi morire come tutti gli altri? Lo aveva sempre saputo, ci aveva tanto ragionato e scherzato sopra da sentirsi pronto. Invece al momento di fare sul serio si sentiva come una recluta al primo conflitto a fuoco, con la cacca nelle brache. Tra tutte le cose che non si perdonava la principale era la codardia e il suo correlato emotivo, la paura. In questo senso la disabilità rappresentava un vantaggio perché gli permetteva di esibire, attribuendole ad essa e dunque giustificandole, delle paure che lui sapeva bene esserci state sempre.

Soprattutto dopo l’ictus la nostra terapia era orientata più all’accettazione che al cambiamento. Nei primi anni avevamo lavorato a lungo sul suo senso di fragilità e sulla paura di affrontare il nuovo che lo spingeva a cercare qualcuno cui affidarsi. Dopo che l’ictus aveva drammaticamente accentuato questa percezione di sé mi sembrava una battaglia persa cercare di modificarla e ci concentrammo su una benevola accettazione dei propri limiti. Scrivemmo insieme un cartoncino che Carlo teneva in tasca e rileggeva ogni tanto con su scritto “sono un ometto meschino e non posso farci niente ma mi voglio bene lo stesso”. Un po’ funzionò ma non credo che alla prima parte ci abbia mai davvero creduto perchè in fondo era un fottuto narcisista che non si permetteva la normalità. Oscillava tra il disprezzo rabbioso nei suoi confronti e un abbattimento rassegnato in cui gli sembrava di essere completamente vuoto e privo di ogni pensiero ed emozione.

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 Rispolverando l’armamentario comportamentista, nei momenti di maggiore abulia e anedonia costruimmo delle liste di attività presumibilmente piacevoli e gli prescrissi di dedicarcisi perlomeno alcune ore ogni giorno. La maggiore difficoltà stava proprio nella compilazione della lista: tutto gli sembrava indifferente e accettava ogni mio suggerimento con l’aria di dire “se tu dici che questo è piacevole, mi fido”. Comunque finiva per essere la mia lista delle cose piacevoli e non la sua. L’unica cosa che sembrava piacergli effettivamente era la fruizione passiva di storie: leggere libri, ascoltare la radio o vedere film. Però, nel momento in cui vi si dedicava sentiva la colpa per l’improduttività e un’ incontenibile smania ad attivarsi, solo nei mesi più acuti della malattia si era concesso una vera pausa.

In quel periodo ovviamente la terapia fu interrotta ed io mantenni i contatti con lui come amico, andandolo a trovare nei vari luoghi di cura e riabilitazione. Ebbi la speranza che la regressione ad una fase di totale dipendenza dall’altro per tutte le funzioni più elementari potesse comportare una riscrittura positiva degli “internal working model” dell’attaccamento, considerata la dedizione e la dolcezza con cui la moglie si dedicò alle sue cure. Non accadde, il vecchio ebbe il predominio addirittura, nelle prime fasi acute, sviluppò un delirio molto strutturato in cui tutti i curanti erano una setta di sadici persecutori che facevano di tutto per procurargli dolori fisici ed emotivi. In questa fase fui costretto per la prima volta ad introdurre dei farmaci che furono dapprincipio neurolettici.

Dopo la dimissione, quando con il ritorno alla vita normale si infransero le illusioni di recupero ed il danno apparve in tutta la sua entità, comparvero le prime idee di morte e introdussi degli antidepressivi che incrementarono l’aspetto dissociativo.

Carlo sembrava assorto, come se  pensasse, in realtà era come incantato, assente. Per dirla in termini psicoanalitici ritirò progressivamente gli investimenti libidici dal mondo esterno, non  voleva vedere nessuno, i temi che lo appassionavano un tempo ora lo annoiavano, tutto gli sembrava già visto, ascoltato, ripetitivo, noioso, al contrario tutto quello che era nuovo lo spaventava e perciò lo rifuggiva. Galleggiava in precario equilibrio tra la Scilla della noia e la Cariddi della paura. Il ritiro dal lavoro peggiorò questa situazione come avevo previsto L’identità di un uomo si fonda spesso sugli aspetti professionali e questo era particolarmente vero per Carlo, che non si riconosceva altrimenti. In questo delicato passaggio fui così preoccupato per lui che, ritenendo ormai inefficace la nostra relazione terapeutica contaminatasi nel tempo di valenze amicali, lo inviai da una collega psicoanalista. Non entrò mai effettivamente in terapia con la collega, pur molto esperta, quello che gli rimase di questa esperienza fu il senso del mio abbandono. Del resto la categoria dell’abbandono era in lui ampia e così vorace da incorporare facilmente tutti gli eventi. Anche quest’altra terapia, della cui inefficacia mi teneva informato con aria rimproverante, fu esclusivamente un esercizio teorico. Proprio quello che temevo e volevo evitare inviandolo in un inconsueto, per lui, setting psicoanalitico. Era un paziente diligente e attivo, portava sogni  di cui proponeva acute interpretazioni, raccontava dettagliatamente i fatti della sua infanzia, ricostruiti dalle narrazioni degli altri che avevano sostituito i suoi ricordi diretti assolutamente inesistenti e, soprattutto, aveva rapidamente imparato a fare ciò che riteneva la psicoanalista si aspettasse da lui.

Alla luce dei fatti odierni mi sento in colpa per averlo spinto in quella avventura credo, infatti, che fu allora che si rese dolorosamente conto di non aver mai provato sentimenti, la sua immagine riflessa nello specchio non c’era, ciò causandogli una disperazione fredda, difficile da descrivere. Infatti, se fosse reale disperazione sarebbe essa stessa un’ emozione intensa, contraddicendo il motivo stesso della disperazione, cioè il non provare nulla. Invece c’è solo la dolorosa consapevolezza dell’assenza di ogni sentimento.

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Un sogno pose fine all’esperienza psicoanalitica: una flotta di Green Peace voleva raggiungere il relitto del Titanic per venderne i reperti trovati a bordo e finanziare così le missioni ecologiste in programma. Il relitto fu identificato a duecento metri di profondità, stranamente nel lago di Vico. Un battiscafo giallo, con a bordo Carlo, suo padre e i quattro Beatles si inabissò e raggiunse il relitto. I sei sub entrarono nuotando nei grandi saloni, nella stiva, nella sala macchine, cercando le casseforti dove erano conservati i preziosi dei passeggeri. Rimasto solo davanti alla porta blindata, Carlo riusciva ad aprirla in tempo per accorgersi che era completamente vuota, mentre la sua collega amante lo raggiungeva da dietro e gli strappava il respiratore. Si vedeva affogare mentre, da sotto, osservava le sagome dei quattro Beatles e del padre risalire in superficie lasciandolo solo.

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Non so quale interpretazione ne diede l’analista, io ritenni centrale il perdere l’ossigeno vitale per mano dell’amante.

Appena sveglio Carlo decise di interrompere il trattamento e, da allora, non fece più una vera e propria psicoterapia.

Con me ripristinò la originaria formula della supervisione, veniva quando ne aveva bisogno, mi parlava di un caso clinico che lo aveva turbato e lo preoccupava, o lo aveva divertito e lo voleva condividere con me.

Ricordo nitidamente gli ultimi tre di cui mi ha parlato. Il primo era un anziano banchiere che aveva perso la testa per la sua badante ucraina e, interdetto dai figli preoccupati per il capitale, aveva fatto perdere le sue tracce per vivere da clochard ad Amsterdam. La seconda era una donna di sessant’anni, con un passato da bella, che improvvisamente aveva avvertito la brevità del tempo rimasto, si era sottoposta a numerose operazioni di chirurgia estetica e, rinnovato il guardaroba, si era offerta con generosità e non pochi rischi a quanti fossero disposti a confermarle la sua desiderabilità: era una maschera dolorosa e grottesca del timore di invecchiare.

La terza era un’adolescente anoressica per la quale concordammo insieme il ricovero che tuttavia giunse troppo tardi. Questa morte riattivò i temi di inadeguatezza, anche professionale, che Carlo aveva sempre covato, l’impressione che aveva era di possedere una superficiale conoscenza di tutte le cose, anche quelle professionali e di riuscire a cavarsela solo mantenendo il discorso ad un livello assolutamente generico. Tale sensazione era particolarmente forte e imbarazzante soprattutto in ambito medico dove lui, a motivo della sua laurea qualcosa avrebbe dovuto pur sapere.

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Da tempo, ben prima dell’ictus, la morte costituiva per lui un’attrattiva, non come liberazione da chissà quale insopportabile sofferenza, quanto piuttosto come l’attesa conclusione di un’attività faticosa e noiosa. Dopo l’evento, l’attrazione era aumentata proporzionalmente all’incremento della fatica. di vivere la quotidianità, che andava dettagliatamente pensata per programmare i movimenti, prima che agita. Lo tratteneva la paura dell’ignoto, della responsabilità da prendersi nel decidere e il danno, soprattutto economico, che avrebbe comportato per i familiari la sua morte. L’abbraccio umido di Stefania che mi sussurra all’orecchio “hai fatto tutto il possibile” riattiva immediatamente i sensi di colpa che ero riuscito a tenere a freno ripercorrendo mentalmente la storia della nostra relazione.

Nessuno lo saprà mai perché né io né lui ne faremo mai parola ma, non più di venti giorni fa, Carlo mi cercò di nuovo chiedendomi per la seconda volta di fare terapia con me perché diceva di non farcela più. Non gli chiesi di cosa si trattasse perché anch’io non ce la facevo più a sentire i suoi inconcludenti lamenti. Di questo mi rimprovero segretamente, ma nessuno lo saprà mai.

Gli prescrissi una terapia farmacologica pesante dicendo che, a mio avviso, era l’unica strada. In effetti, è proprio con quei farmaci che ha trovato una soluzione che spero gli abbia restituito interezza e autenticità.

 

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