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Jeff Buckley e l’Edipo Rock

La mancata identificazione con la figura paterna potrebbe aver avuto una grande importanza nello sviluppo delle fragilità caratteriali di Jeff Buckley.

Di Gaspare Palmieri

Pubblicato il 17 Mag. 2013

Looking out the door i see the rain fall 

upon the funeral mourners 

Parading in a wake of sad relations 

as their shoes fill up with water 

                                     Lover, you should have come over, Jeff Buckley, 1994

 

L’edipo rock di Jeff Buckley
Jeff Buckley (novembre 1966 – maggio 1997) cantautore e chitarrista statunitense.

La mancata identificazione con una figura paterna stabile, che secondo le teorie psicodinamiche rappresenta la risoluzione del complesso di Edipo, potrebbe aver avuto una grande importanza nello sviluppo delle fragilità caratteriali di Jeff e in una sorta di disorientamento esistenziale che lo caratterizzava.

Immaginiamo di aver visto papà nel corso della nostra infanzia soltanto due volte e di aver sentito la sua voce, quella che detta le regole, che sgrida se facciamo tardi la sera, che rassicura quando ci sentiamo in pericolo, che fa il tifo durante le partitelle, praticamente solo attraverso dei complicati dischi di cross-over folk-rock sperimentale. In un caso del genere si potrebbe essere assaliti da un forte bisogno di rivalsa che, mischiato a un patrimonio genetico musicale di prim’ordine, può dare origine a un grande musicista.

La storia di Jeff Buckley (1966-1997), ottimo chitarrista e cantante americano, si sovrappone per pochi anni a quella del padre Tim (1947-1975), geniale cantautore morto di overdose all’età di ventotto anni. Jeff è stato un figlio d’arte anomalo, nel senso che la sua fama ha sicuramente superato quella del padre, venerato più dai critici che dal pubblico, a differenza di tanti artisti che hanno tentato di seguire le orme di genitori famosi, incorrendo in impietosi flop.

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La famiglia di origine irlandese dei Buckley è stata caratterizzata da una tradizione di difficile paternità a partire dal nonno, uomo affetto da depressione con abuso di alcol e indurito dalla seconda guerra mondiale, che ha segnato a tal punto il figlio Tim, da farlo letteralmente fuggire di fronte alle proprie responsabilità genitoriali, preferendo ad esse la carriera del trobadour.

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Tim e Mary, madre di Jeff e pure lei dotata di un grande talento musicale, si sposarono giovanissimi, con lei in stato di gravidanza, rivelatasi, dopo le nozze, di tipo isterico. La gravidanza isterica, nota fin dai tempi di Ippocrate, è tipica di donne che combattono da anni contro l’infertilità, mentre in un caso come questo potrebbe avere alla base un ardente desiderio di rafforzare, tramite il vincolo matrimoniale, un legame precario con il compagno, che stava muovendo i primi passi sulla scena musicale (Small, 1986).

L’anno seguente Mary rimase davvero incinta  e Tim la lasciò per registrare dischi e suonare in giro per gli States. E’ di quel periodo la canzone-scappatoia I Never Asked To Be Your Mountain (1967), in cui l’artista ammette “Lei dice: quel farabutto di tuo padre è scappato con una ballerina che chiama regina”.

L’infanzia di Jeff trascorse così all’insegna del non mettere radici, per via dei continui spostamenti della madre da un posto all’altro del paese e anche il periodo di stabilità del secondo matrimonio di Mary con il meccanico Ron, che Jeff riconosceva come “il suo vero padre”, durò poco tempo.

L’artista incontrò il padre naturale in due occasioni: all’età di due anni, quando gli fece una breve visita insieme alla madre, e all’età di otto anni, quando trascorse una settimana insieme alla nuova compagna di Tim e al fratellastro.

Durante i periodi di lontananza il silenzio assoluto: mai una lettera o una telefonata, nemmeno per i compleanni o le feste comandate. Un pensiero sofferto al figlio e alla ex moglie pare emergere solo nella canzone Dream Letter (1969), dove Tim afferma “Stasera vorrei sapere solo qualcosa di te e del mio bambino / E’ un soldato o un sognatore? / E’ l’ometto della mamma? / Ti aiuta quando riesce? Ti chiede di me?”. Tim morì tre mesi dopo quell’ultimo incontro e Jeff e la madre non furono invitati al funerale.

In questa storia di sviluppo sicuramente traumatica, Jeff trovò nella musica un porto sicuro a cui approdare, anche grazie a un talento straordinario, a partire dal dono dell’orecchio assoluto. Chi ha l’orecchio assoluto riesce a distinguere l’altezza esatta di ogni nota, senza confrontarsi con uno standard esterno. Si stima sia presente in meno di un individuo su diecimila e sia più facile da trovare tra i musicisti che hanno ricevuto un’educazione musicale precoce, anche se la componente genetica pare avere una sua importanza (Sacks, 2008).

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Il fantasma del padre aleggiò nella vita e nella carriera artistica di Jeff, che esordì nel 1991 sulla scena musicale proprio in un concerto tributo a Tim Buckley, in cui aggiunse un paio di strofe a I Never Asked To Be Your Mountain, come se volesse coronare il suo sogno di scrivere un brano insieme al padre. I sentimenti di Jeff nei confronti della figura paterna erano ovviamente caratterizzati da una forte ambivalenza. Parlava mal volentieri di Tim e in un’intervista dichiarò che “La sua sola influenza è quella della sua assenza”.

La mancata identificazione con una figura paterna stabile, che secondo le teorie psicodinamiche rappresenta la risoluzione del complesso di Edipo, potrebbe aver avuto una grande importanza nello sviluppo delle fragilità caratteriali di Jeff e in una sorta di disorientamento esistenziale che lo caratterizzava. Il superamento del complesso edipico favorisce l’instaurarsi del Super-Io, si abbandona l’onnipotenza propria della relazione materna per accedere all’idea del limite paterno, che implica il riconoscimento dell’altro e l’individuazione con un’identità propria (Gabbard, 1995).

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Le biografie descrivono Jeff infatti come una persona estremamente sensibile, sempre alla difficile ricerca di una propria identità, dai confini poco definiti, a tratti eterea. Fin da piccolo aveva uno spiccato talento per le imitazioni, che utilizzò in seguito a livello artistico per interpretare meravigliosamente le cover, che in certi casi hanno superato la notorietà delle versioni originali (ad esempio Halleluja di Leonard Cohen). Era un interprete straordinario, una sorta di juke box umano, capace di performance intensissime e che riusciva a incantare il pubblico suonando per ore cover di artisti diversissimi, dai Led Zeppelin a Edith Piaf.

Era più portato a filtrare e impreziosire brani di altri, attraverso la propria sensibilità, che a comporne dei sui. Nella sua breve vita registrò un unico disco di brani originali e cover, grace (1994), che per molti è considerato una delle opere musicali più intense e importanti degli anni Novanta. Come per altri giovani artisti dall’animo fragile, il comporre canzoni proprie rappresentava un processo doloroso e catartico, in cui si stabiliva un contatto con le parti di sé più penose e inaccettabili. In più c’era un’ innegabile paura del confronto con le composizioni paterne, che contribuiva a renderlo un cantautore poco prolifico.

Nonostante fosse efficacissimo anche come onemanband, ha sempre cercato nei tanti musicisti con cui ha suonato, oltre a un completamento sul versante artistico, una sorta di famiglia musicale, dove trovare accudimento e protezione.

Jeff visse molto male il passaggio da grande promessa della musica che si  esibiva in piccoli locali come il leggendario Sinè di New York, a professionista del roc,  alle dipendenze di una major come la Columbia, in cui doveva rispondere ad esigenze di mercato e a ben poco romantiche aspettative commerciali.

E’ in questo periodo che inizia la parabola discendente esistenziale dell’artista, che manifesta nell’uso sempre più massiccio di alcolici (soprattutto vodka e  tequila Cuervo), cannabinoidi (iniziato in realtà fin dall’adolescenza), e qualche deragliamento nelle droghe pesanti (extasy, eroina e cocaina), seppure senza mai arrivare al punto di “fottersi il cervello”, come ricorda l’amico Chris (Apter, 2010). 

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In un’intervista dichiarò che fu la stessa madre ad offrirgli le prime droghe, perché aveva paura di quello che avrebbe potuto comprare per strada (Steele, 2001). Non c’è male come strategia preventiva di limitazione del danno!

Impossibile non tracciare un parallelismo e una sorta di sfida con il padre anche in questo tipo di condotte. A parte una tormentata relazione con Joan Wasser (musicista nota come Joan as a Policewoman), la vita affettiva di Jeff è trascorsa all’insegna della promiscuità, anche per via di quell’aspetto angelico che lo rendeva, spesso suo malgrado, un vero sex symbol a livello internazionale.

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Nel tentativo di fare pace coi propri demoni del passato, quando viveva a New York, Jeff affrontò anche una psicoterapia con una terapeuta afroamericana sulla settantina, nota ai sui clienti come Sig.ra Williams. Il rapporto si concluse bruscamente quando la terapeuta ebbe un infarto in vacanza. Pare che Jeff rimase molto scosso da questo evento, che rappresentava l’ennesima separazione dolorosa della sua vita.

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Non è chiaro dalle biografie se la terapeuta fosse morta o avesse semplicemente interrotto la propria attività per il grave problema di salute. Jeff era comunque in procinto di trasferirsi a Memphis, la culla del rock americano che aveva dato i natali a Elvis Presley, per registrare l’agognato secondo disco. La permanenza a Memphis fu caratterizzata da atteggiamenti scontrosi, sbalzi d’umore, disforia e dalla ricerca di un nuovo terapeuta. Più persone hanno testimoniato come in quel periodo Jeff avesse comportamenti insoliti, come telefonare a conoscenti che non sentiva da mesi o anni, per chiedere se stessero bene o per dirgli che gli voleva bene, come se percepisse un pericolo imminente.

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Poco dopo si consumò la misteriosa tragedia che mise fine alla sua vita. Una sera di maggio, mentre si recava alle prove con il suo roadie, si perse per Memphis e decise di andare a fare un bagno nel Wolf River, un affluente del Mississipi, in  una zona non balneabile.

Erano quasi le nove di sera e Jeff si immerse nel fiume completamente vestito, anfibi compresi. Il passaggio di un battello creò una potente corrente che portò il musicista ad annegare. L’autopsia non rivelò la presenza di sostanze stupefacenti o alcol e per i più si trattò di un drammatico incidente, di un tragico destino.

Personalmente mi trovo d’accordo con il commento di uno dei suoi musicisti rispetto all’accaduto: “Non credo si sia suicidato, ma quello che faceva era suicida”. Le circostanze che hanno portato al decesso denotano quantomeno una certa impulsività, il non calcolare le conseguenze delle proprie azioni, che è considerato un fattore di rischio per comportamenti suicidiari e parasuicidiari (Pompili et al., 2009).

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E’ come se Jeff in questo caso, forse in modo non del tutto conscio, provasse una sorta di scarsa considerazione rispetto al valore inestimabile della propria vita e della sua unicità. Pareva guidato da un continuo sensation seeking, dalla necessità di fare più esperienze possibili, che lo facevano sentire vivo, ma che alla fine l’hanno portato a morire. D’altra parte non temeva la morte perché la conosceva, forse era sempre stata dentro di lui, fin dalla scomparsa di Tim. “Il mio momento sta arrivando / non ho paura di morire” canta in Grace, e poi ancora “Cade la pioggia e credo sia arrivato il mio momento”.

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Morte e acqua, un sentimento profetico che ricorreva in diverse sue canzoni. Quando reinterpretò I Never Asked To Be  Your Mountain  di Tim al suo concerto tributo aggiunse ad esempio le strofe “Voglio sentirmi attraversato dalla marea/ voglio sentire il pesce nuotare dentro di me”.

Sembra quasi un desiderio di ritorno a un elemento acquatico primordiale, come il liquido amniotico materno, un bisogno di regredire in un ambiente protettivo di fronte a momenti di sofferenza intollerabile, in cui accenna in brani come Murder Suicide Meteor Slave (1997), “Schifato dall’infanzia vomitevole/ Neanche uno schiavo per tuo padre/ Oh, tu sei schiavo di tutto ciò ora”. Nella storia musicale di Jeff Buckley, mi ha colpito molto il fatto che, sebbene fosse di origini rock, riconobbe il musicista e mistico pakistano Nusrat Fateh Ali Khan come “il suo Elvis”, un idolo assoluto di cui interpretò alcuni brani, spingendosi nell’impresa di cantare in urdu. Difficile non pensare che oltre a un artista esotico a cui ispirarsi, cercasse nel maestro sufi anche una figura paterna.

LEGGI:

  MUSICA –  FAMIGLIA – PSICOANALISI – DROGHE & ALLUCINOGENI

 

APPROFONDIMENTI:
SCHEDE SU WIKIPEDIA – Jeff Buckley – Tim Buckley

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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